The social dilemma

  1. Qualcosa che parla di noi

In questi giorni è visibile su Netfix un documentario- the social dilemma  – che mette al centro molte questioni importanti sullo stare in rete. A me non è piaciuto molto, in prima battuta mi è sembrata per lo più una ottima occasione mancata, perché contenuti validi e importanti sono presentati in maniera semplificata e ricattatoria al punto tale da ingenerare reazioni difensive proprio nelle persone che avrebbero più bisogno di prenderli sul serio. Tuttavia ho notato che si sta rivelando capace di innescare un dibattito pubblico: amiche al telefono, pazienti nella stanza di analisi, e sugli stessi social contatti stimati – molti parlano di the social dilemma. E’ un prodotto brutto, che parla anche male, di alcune cose vere.  Ne consiglio dunque la visione, e consiglio di tenere duro davanti all’effetto Kazzenger di diversi passaggi e forse di tutta la regia, la cui intenzione di creare panico e disagio è scoperta, didascalica e forse eccessivamente unilaterale, ma conserva qualcosa di utile.

L’impianto di fondo del documentario che si serve di molte interviste a teste di serie di grandi marchi quali google, facebook, instagram etc. si articola su due punti chiave: il primo è che i social (qui intesi in senso molto allargato) svolgono una funzione determinante giacché capitalizzano informazioni della nostra vita privata che aiutano le campagne pubblicitarie di prodotti, per cui la nostra vita privata diventa capitale di scambio. Il secondo punto della tesi è che il funzionamento dei social è programmato per indurci a starci più tempo possibile in modo da renderci acquirenti sempre più fruibili e svuotabili nelle loro risorse.  I social in questa lettura sono in sostanza quel dispositivo che trasforma la nostra privata quotidianità e la nostra relazionalità in un film in cui continuamente ci sono delle inserzioni pubblicitarie scelte in base alle abitudini di consumo che abbiamo dichiarato di avere. Perché il film della nostra esistenza sia ricco e piacevole i social tendono a generare deliberatamente dipendenza. Miei colleghi sono ingaggiati perché creino quelle premesse in molti piccoli modi che per noi sono ininfluenti o anche moderatamente piacevoli. In sostanza esiste una equipe di psicologi presso tutti i grandi marchi da facebook a tik tok da instagram a pinterest il cui scopo è quello di andare in direzione ostinata e contraria rispetto a qualsiasi codice deontologico. 

La deontologia impone di liberare dalle patologie, mentre lo stipendio li incoraggia a rafforzare le patologie, nel caso specifico la dipendenza da internet.

Mi sento di sottoscrivere le tesi espresse nel documentario, a cui ero approdata da diverso tempo come capita a molti utenti forti della rete. Avendo dei gusti commerciali – in fatto di vestiti, scarpe ristoranti – piuttosto di nicchia l’aspetto del marketing dei miei dati mi ha sempre moderatamente preoccupata perché banalmente – anche con qualche tentativo zelante – ci fosse una volta che sui social mi si pubblicizzasse un marchio che mi piace che mi seduce che mi riguarda, saranno tanto bravi ma non ci azzeccano mai, o almeno – non ci azzeccano ancora. Capisco che spesso approfittando delle stringhe numeriche del mio ip siti che frequento normalmente di vestiti o scarpe diano a facebook o al mio portale mail,  la pagina che ho visitato per farmi rivedere il prodotto che poi non ho comprato – ma a parte questo fenomeno, non mi ritrovo mai a comprare cose o a desiderarle ex novo. Immagino però che se qualcuno scriva che ama le scarpe di tela da ginnastica poi facebook gli faccia vedere le scarpe da ginnastica e insomma poi le compri. Mi ha sempre invece fatto temere il fatto che i social o i motori di ricerca avessero molti dati della mia personalità della mia vita quotidiana, delle mie debolezze e delle mie preferenze politiche e mi ritrovo sempre a immaginare cosa ne sarebbe quando in conseguenza di un colpo di stato o di una minaccia politica una forza giuridicamente ammessa di un eventuale nuovo ordine totalitario decidesse di acquisire queste informazioni per dei suoi scopi. 

Questa cosa, ammetto mi preoccupa e non ho molte soluzioni.

Di contro penso che sia saggio riflettere sul fatto che questo ingaggio alla dipendenza non funziona con tutte le personalità e con tutti gli stili di vita. Personalmente constato che nella mia bolla di persone per esempio amici, parenti, sono ben pochi a usare la rete, a starci e ad amarla quanto la amo io. Sui social ho molti contatti che vengono dalla mia vita quotidiana ma le loro pagine sono per lo più ferme, producono saltuariamente contenuti o non ne producono affatto.  Narcisisti si nasce e non si diventa, per esempio e la leva narcisistica funziona solo su alcuni soggetti mentre altri ne sono assolutamente impermeabili. Noto che persone riservate, poco inclini all’esposizione di se, tendono a vivere con scomodità i social: tuttalpiù vengono per usarli come un medium non sociale: non commentano mai, non lasciano reazioni, leggono e basta. In secondo luogo constato che mantengono una salubre autonomia dai social persone che per motivi di lavoro non possono trascorrervi molto tempo anche volendo: pochissimi medici indugiano su facebook, pochissimi tassisti. Io stessa ho notato e questo è stato utile per me, che imponendomi di  usarli solo dopo una certa ora, la mia dipendenza dalle dinamiche dei social si riduceva moltissimo.

Tuttavia questa cosa, questo ingaggio alla dipendenza, al punto di modificare gli stili di vita mi sembra un dato importante e per i soggetti vulnerabili per personalità ma anche per momenti di fragilità di difficoltà nella loro vita privata. Perché la rete funziona per molti aspetti come le sostanze che elicitano dipendenza, con alcuni vantaggi aggiunti. Mentre le droghe o l’alcool sono oggetti intermedi che arrivano a essere moderatamente neutri e ad alti tassi di dipendenza a funzionare a prescindere dalla qualità – all’alcolista grave non serve necessariamente il barolo, l’alcolista grave regredisce a uno stadio orale per cui la sostanza è spesso interscambiabile o eventualmente di qualità scadente – la rete mantiene una capacità di offrire un oggetto di dipendenza altamente soggettificato: le tue persone, le tue relazioni, la tua musica i tuoi i film, il tuo surrogato di identità solo smaterializzato. Offre inoltre altri vantaggi aggiuntivi, avendo una moderata ricaduta sul corpo, niente crisi di overdose, niente cirrosi epatica, niente tumore ai polmoni, la dipendenza dalla rete provoca più che altro un buco nella materia della vita privata, nella pasta del quotidiano. Mangia spazi dialogici, spazi di consumo culturale, spazi di relazioni incarnate – tutto questo senza che necessariamente capiti perché senza la rete sarebbero vuoti. Anzi soprattutto i social, dal momento che premiano molto i funzionamenti narcisistici tendono a sedurre con successo persone molto seduttive e capaci di creare relazioni sul piano di realtà.

L’agio di una rappresentazione della comunicazione che copia la comunicazione senza avere l’interezza della comunicazione, pensiamo per esempio al sexting o anche alle discussioni politiche in rete, tende a rendere lo stare in rete un posto più attraente dello stare fuori, perché elude una serie di fatiche a carico delle relazioni, e che sono intimamente connesse con i piaceri della relazione. Onde evitare di correre un rischio si può decidere di eludere la sfida e di preferire la comunicazione asciugata dal contatto materiale. Può anche capitare che, molto banalmente il rinforzo della quotidianità allarghi l’abitare dello spazio della rete a discapito dello spazio del reale. Se nei sistemi familiari per esempio ci sono delle piccole aree di nevrosi di disfunzionalità, la rete, i social rappresentano una sorta di zona rifugio un quarto elemento dove scaricare l’inespresso, una specie di buco funzionale alla patologia del sistema familiare – garantendo l’immobilità che è  – almeno per me  –  il clouster principale di ogni diagnosi a qualsiasi livello.

Dunque:

Mercificazione dell’identità, manipolazione dell’utenza, incoraggiamento delle patologie della dipendenza marketing della personalità, insomma messa così è comprensibile che si destino delle preoccupazioni. Ma io proporrei delle riflessioni aggiuntive che correggano un po’ il tiro.

  • Qualcosa che manca di noi

La cosa che più mi ha lasciato perplessa di the social dilemma  – sta già nell’impianto del titolo. Il dilemma infatti è quella situazione che si pone quando ci si sente posti tra due alternative antitetiche tra loro senza che si pongano terze vie. Nel caso specifico il tema diventa social si o social no, rete si o rete no perché la retorica del discorso parla di un sistema unidirezionale dove c’è un’unica forza che è il potere del capitale di fronte a soggetti inermi divisi tra loro e confiscati nella loro capacità di discernimento e giudizio. Nella sua estrema semplificazione è una specie di versione coatta della prospettiva marxista del capitale, laddove capitalisti e proletariato sono entrambi posseduti dal capitale medesimo, che ne determina comportamenti e destini in virtù del suo continuo accrescimento. E in effetti lo sguardo veteromarxista è giustificato perché attualmente l’economia del web ricorda certe fasi emergenti della rivoluzione industriale quando emergevano grandissimi capitali, alleanze tra grossi industriali che ammazzavano qualsiasi forma di concorrenza e inglobavano qualsiasi forma di guadagno. Andrebbe fatto cioè un discorso su come le logiche del capitale concentrato nelle mani di pochi a discapito di molti riguardino anche il mercato degli introiti per cui merce è l’acquirente merce è il venditore l’unico vero grande capitalista è la piattaforma che propone gli scambi vendendo caro il proprio potere: gli acquirenti merce lo pagano con l’identità, i venditori merce con la svendita dei loro beni, e quello che fa davvero i soldi a palate è la piattaforma che ricatta gli altri due in assenza di una normativa adeguata. Secondo me tutto si capisce molto bene se si pensa a un servizio come spotify, che: agli utenti costa o zero o una cifra prossima allo zero (9 euro è una cosa ridicola) i musicisti che ci mettono le cose sopra ricevono un compenso decisamente inadeguato rispetto alla normativa pregressa sui diritti d’autore, e divengono ancora più penalizzati se non sono molto noti (leggere per esempio qui) tuttavia ci vanno per la maggior parte lo stesso, perché essendoci una sorta di oligopolio in materia, è l’unico modo per esistere per avere visibilità.  Quindi la prima cosa che mi viene in mente è la necessità di una serie di normative che in qualche modo regolamentino giuridicamente il giusto valore delle cose … Il che in materia di beni artistici dovrebbe andare anche a intervenire sulla pirateria di qualsiasi cosa libri, film, oltre che musica. Perché ecco tra la gratuità dei libri scaricati, la gratuità dei nostri interventi sui social, c’è qualcosa che si va perdendo ed è il giusto spessore dell’identità, il giusto riconoscimento degli oggetti. E se la gratuità dei beni a disposizione ricorda un po’ il grande sogno comunista della collettivizzazione delle risorse, il conto in banca dei magnati del web ricorda le ville esageratamente lussuose degli alti papaveri sovietici.  Mentre le case dei fruitori, sono piene magari di musica gratuita, di film piratati, ma aumentano pure i cassintegrati. Posti di lavoro continuano a saltare. 
Mi rendo conto che questa è una divagazione, ma ha a che fare con il problema)

La seconda questione che mi viene in mente riguarda lo stesso funzionamento dei social presentato dal documentario come unidirezionale, e che io invece avverto come multifunzionale e polifonico. Questa è stata la parte che più ho avvertito come trascurata nel documentario, al fine di manipolare lo scandalo dell’utenza dei social. Nel documentario infatti si pongono due oggetti: i social e chi ci lavora – che hanno una sola intenzione monolitica, che è quella di garantire profitto all’azienda – e gli utenti che hanno una sola intenzione monolitica che è quella di stare in una generica relazione. Nell’impianto del documentario ci sono quindi due movimenti: uno pulviscolare dal basso debole e continuo degli utenti dei social che vivono la loro socialità in rete scambiandosi informazione e mostrando nel frangente in cosa spenderebbe volentieri soldi, e una potente dall’alto che manipola e controlla e determina il pulviscolo relazionale del primo gruppo, forzando passaggi e determinando le spontaneità, il tutto senza che nessuno se ne accorga. 

Io credo che non è esattamente così per una serie di questioni trascurate cioè di nuclei di potere e di valore sono costellati al sistema.  Ora io qui li schematizzerò con :

1.. il potere dal basso che ha da sempre nella dialettica economica l’acquirente di un bene potere che rende il padrone, sappiamo, servo quanto il servo

2. il potere intrinseco di generare movimento da parte dei contenuti che sono comunicati negli scambi

3. il potere delle agenzie esterne ai social che interagiscono con chi abita all’interno.

4. il potere dei soggetti di immunizzarsi con comportamenti che controllano il loro stare in rete.

Dal momento che l’interesse delle piattaforme è fondamentalmente il profitto, e la comodità in cui ci si sta dentro è quella che permette alle piattaforme di avere un maggior numero di iscritti possibili, i desiderata degli utenti diventano una domanda che manipola la domanda del gestore della piattaforma. E’ per questo motivo che per esempio, un social come Facebook – la piattaforma che uso di più io e che quindi conosco meglio, ma anche un grande istituto come google che a sua volta ha anche una corposa funzione social assumono vestiti ideologicamente tolleranti e libertari, inclusivi e politicamente corretti, platealmente indirizzati all’attenzione delle fasce più deboli, e si fanno anche titolari di esplicite operazioni che aiutino le persone in difficoltà: questa cosa capita perché l’utenza ha bisogno di stare eticamente a suo agio in un dispositivo che tendenzialmente premia l’inattività e perché quel dispositivo teoricamente deve poter raccogliere utenti di ogni tipo, ma soprattutto perché il gruppo di quelli che occupano i social in modo più attivo e tenderanno a parlare dei social dentro e fuori i social medesimi sono quelli che vogliono quelle logiche inclusive vogliono quel tipo di stare al mondo. L’utenza della rete, in qualche modo determina le forme della rete. Non è una novità dei social, volendo è una vecchia storia che riguarda anche lo stato attuale dei media, i cui formati sono stati dettati da una manipolazione dell’utenza persino – a parere mio  – a discapito della stessa. Pensiamo a quell’aberrazione che capita oggi di trovare in fondo agli articoli: tempo di lettura 7 minuti. 
Se i social hanno questa forma, vanno incontro a certi cambiamenti, premiano la circolazione di certi contenuti, hanno dispositivi per cancellarne di altri (“questi contenuti non sono compatibili con le regole di facebook”) queste cose non ci sono per il potere dell’alto, ma per l’ideologia dal basso che l’alto asseconda. Quando sono differenti, facciamo caso ai cambiamenti sociali che rispecchiano, più che gridare al Grande Fratello.

In secondo luogo il documentario spinge moltissimo sulla tendenza dei social a rendere i soggetti dipendenti dall’atto di essere in relazione per il tramite dei contenuti in una modalità  – qui veramente la parte più mediocre del lavoro – che arriva a depauperare completamente i contenuti. Nella mia esperienza di utente forte della rete, ma anche di terapeuta che si interfaccia con persone variamente connesse, i contenuti rimangono un oggetto carico di significato di esperienza e di intreccio con la vita reale, che mantiene un potere autonomo che diciamo, si irradia sull’atto comunicativo. La dipendenza dalle notifiche sussiste, ma il potere di ciò che è notificato per molte persone deriva dal potere reale attribuito a quella relazione, non all’atto comunicativo tout court. E’ piuttosto cretino – come sostiene il documentario – sostenere che il ragazzino è felice di avere un messaggio dalla ragazzina perché è contento di avere un messaggio e non per il fatto che la ragazzina sarà evidentemente molto carina. 

Ugualmente, in rete, non si scambiano atti comunicativi vuoti e privi di azione con ricadute nel reale, e se c’è una cosa che il documentario elude, sono gli scambi relazionali e le azioni politiche che dalla rete si ingenerano e modificano il reale, da questioni di microfisiologia delle relazioni a questioni di macrofisiologia degli atti politici. La banalità per cui sui social si riprendono amicizie perdute nella vita, o anche la banalità di persone che diventano amici sui social e continuano fuori, o si sposano fuori, ma anche la banalità di proteste collettive sui social che determinano licenziamenti di persone, o anche la banalità di leader politici che usano i social e poi riescono a farsi votare, sono tutte cose che allargano lo sguardo da quella unidirezionalità del marketing tra i cattivoni che usano gli utenti e gli utenti inermi, e caricano il sistema social di una pluralità di elementi pieni di potere che cambiano parzialmente il panorama.  

Infine. Io credo che oltre a lavorare per una normativa diversa degli oggetti che animano internet – credo che possa esistere un modo avvertito e parzialmente immunizzato di usare la rete, e questo modo per me passa da due elementi. Il primo riguarda un controllo banale del tempo che si trascorre sui social, perché devo ammettere che proprio nella mia esperienza personale, essermi data una regola, anche se solo di massima, non sostare mai sui social prima di una certa ora, mai nelle ore di lavoro, mi ha tolto molto di quell’onanistica dipendenza dall’oggetto a prescindere dai complementi oggetti, perché il tempo del reale la pienezza del reale, si tengono la scena e quando si sta di meno in rete è come se mantenendo lo sguardo dalla prospettiva della vita materiale le comunicazioni più vuote, i gesti più coatti, costretti, svuotati perdessero maggiormente di senso. Mentre quando si fa il contrario stare tanto tanto sui social finisce per depauperare l’orizzonte di senso del reale, rendendolo faticoso, oneroso. 

Il secondo però riguarda il pensare la rete come un oggetto del reale, in continuità con il conto reale, funzionale al reale, per cui tutte le parti in causa non stanno giocando al reale, ma stanno agendo realmente. Loro che chiedono i soldi, tu che li dai a qualcuno, tu che flirti con uno, tu che decidi di vederlo fuori dalla rete, tu che decidi di non vederlo, tu che dici di una persona che deve essere licenziata, tu che organizzi un comizio. Quando non stai agendo realmente, ma stai giocando al reale, quello è il momento in cui devi capire che qualcuno sta realmente facendo qualcosa con te. 

Le fotografie nei sogni

I miei pazienti spesso sognano di fare o avere fotografie per le mani, o da contemplare, o da cercare di fare- o ancora sognano di stare dentro a una fotografia e di viverla da la dentro una trama onirica. A me piace molto lavorare su questi sogni con le foto, perché mi fanno ragionare su metamorfosi simboliche le quali, arrivano da metamorfosi nei costumi della vita quotidiana, e quindi approdano a metamorfosi delle psicologie anche individuali, dei loro funzionamenti.

Mi sono quindi ritrovata a pensare a quanto, con questo cambiamento della fotografia e del nostro modo di farle, siamo cambiati noi – e quali grandi differenze ci siano tra il sognare una foto fatta con la vecchia reflex e una foto fatta con l’attuale smartphone.

Ho 47 anni e le mie foto da ragazzina non erano molto diverse da quelle dei miei genitori, fatta salva la differenza qualitativa dei colori e della grandezza delle stampe. Comunque io e i miei genitori dovevamo comprare dei rullini, avremmo fatto delle foto, e poi le avremmo portate a stampare. Ogni scatto aveva un costo e così ogni errore. Per noi profani della macchina fotografica l’atto fotografico era un atto misterioso e un atto di fede, perché non potevamo vedere la foto appena fatta, e poi perché la sua materializzazione era subappaltata al negozio di fotografie, alla sua camera oscura. 

Tutto ciò aveva due conseguenze importanti: in quel lungo tempo della fotografia analogica di chi non faceva foto professionalmente, ci si addestrava poco a fare foto, perché imparare costava tempi troppo lunghi, e quei tempi lunghi gerarchizzavano le occasioni. Il ruolo princeps della fotografia era mnestico, autoritario e nel complesso autoreferenziale: l’atto fotografico sanciva quale volto e quale paesaggio, quale momento della vita era meritevole di essere trattenuto, ricordato, e poi ci sarebbero stati dei vincitori, dei pesi massimi della nostalgia, che sarebbero approdati in quel totem autobiografico che era l’album fotografico.  In questo uso della fotografia, la sua funzione era moderatamente comunicativa, e più profondamente identitaria, e la storia degli individui era un puntellarsi di immagini salienti, di momenti salienti, la memoria dei corpi e dei contesti. 

Bisogna dire che nel dettaglio anche questa storia dell’identità ha avuto una evoluzione. I miei genitori nelle loro foto per esempio non conoscevano la retorica della spontaneità, della foto rubata – lussi della fotografia professionale ed estetica – ma avevano una grammatica precisa, della quale ricordo pochi tradimenti. Ne cito solo uno che amo molto, di una mia zia acquisita, una zia tonda contadina e eversiva appena sposata al suo marito buffo. Sono piccoli, in bianco e nero, in abiti semplici, davanti alla chiesa – lei con i fiori in mano. Dovevano guardare in camera, ma lui le sta raccontando una barzelletta, lei ride, lui con la mano e gli occhi le dice, hai capito la battuta? Lei l’ha capita, del fotografo a loro non importa niente,  stanno ridendo di una battuta! Rompono la regola e fanno negli anni 50 una foto stupenda di 50 anni dopo. Ma lo racconto per dire che, non usava, la foto era impostata. I mariti e le mogli erano a braccetto al centro dell’immagine, così come le madri e le figlie, le giovani donne intere e concentrate ma composte, a volte spudorate di due terzi. Ricordo un altro tradimento – di mia nonna, ragazza madre, che erotica e sfacciata si mostra in costume nero, di profilo, sul lungo mare di Livorno – mia madre in braccio, ma negli occhi chiedeva che le si guardassero le gambe.  Secondo tradimento).

E’ interessante notare, che pazienti di una certa età possono sognare ancora queste foto, e qualcuno può sognare ancora il fascinoso concetto di negativo. Quando si portavano sviluppare le foto infatti il fotografo ti dava le foto e i negativi, pezzi di pellicola che potevano essere utili a rifare le foto, dei doppioni per esempio, e che quindi conservavano la matrice, la creazione dell’atto fotografico ma anche la curiosa cosa per cui, avevano i colori al contrario della stampa positiva. Al tempo delle foto analogiche era anche pieno di fumetti, di polizieschi, di spy stories in cui a un certo punto arrivava qualcuno e si rubava i negativi. I negativi rimangono per me un correlato simbolico interessante di una fotografia dell’identità che però si rappresenta il contrario, con tutta una serie di conseguenze interessanti in sede analitica. Cosa è il suo negativo? Quali sono le parti psichiche che si sustanziano nella pellicola che sul piano di realtà non esistono? O anzi, che assumono il colore contrario? Quali parti simboliche del suo mondo interno accende questo negativo?

In ogni caso, regole, momenti topici, persone importanti, simmetrie e oggetti simbolici. Quando i miei pazienti sognano le fotografie, è molto importante per me appurare l’eventuale differenza di foto analogica e foto digitale, perché se la prima celebra momenti topici in funzione della storia dell’io, destinata alla propria memoria, la seconda ribalta tutte le regole, celebra se, la propria capacità creativa, e assume la sua funzione in contesto relazionale e presente. La fotografia analogica  è una cartolina al se stesso del futuro, a memento delle cose che si è stati, la fotografia digitale è una diaristica della propria lettura del reale, un album della propria ermeneutica, ed è destinato a un interlocutore contemporaneo.

Perché cosa è è successo:

La fotografia si è digitalizzata in primo luogo, e in secondo luogo, ha smesso di avere un dispositivo a se stante – che ora mantengono solo i fotografi professionisti – ed è stata inglobata nel cellulare. La nuova fotografia ora si connota per una totale autonomia e gratuità – non si devono più portare le foto a sviluppare, non si comprano i rullini, si vede appena è fatta, e la si può lavorare molto anche rimanendo con modesto talento: la si può raddrizzare, si può correggere l’esposizione. Questa operazione di correzione delle immagini, di loro alterazione è divertente e porta in tanti tantissimi a rielaborarle, al punto tale che la diaristica diventa una diaristica di come le parti interne stanno rappresentandosi quegli oggetti, o addirittura se ci si stanno applicando dei meccanismi di difesa: quella foto di quella donna che si ritrae ritoccata cosa racconta di se: come si pensa, come si idealizza, come purtroppo non si sente ma vorrebbe essere? Come emotivamente teme di essere? E quella foto di quel paesaggio, i cui colori sono resi più vividi, più artificiosi, cosa dice: un mondo interno? Un’ermeneutica della finzione? Delle proiezioni idealizzanti? La fuori c’è questo artificiato cromatismo che fa risaltare un interno plumbeo. Quei colori sono forse  il mio mezzo di sopravvivenza per evitare di essere travolto.?

A fare da contraltare a questa nuova edificazione dello sguardo soggettivo sulla realtà – che addirittura arriva ad avere un social per conto suo Instagram – è la circolazione di una serie di codici estetici sulla fotografia per cui tra le ingenuotte foto dei nostri nonni in posa, persino quando si raccontano una barzelletta e oggi – c’è un mare, un mare di nuovi codici, che sono diciamo una nuova estetica per quanto dozzinale, ma che è anche la moneta di scambio di una ideologia condivisa, alla quale si vuole promettere un’appartenenza. Nascono nuovi soggetti fotografici: i bicchieri di vino, i piatti di pasta, le stanze d’albergo. Nasce un voyeurismo estetico della fotografia, fare vedere di essere in grado di fruire l’idea sociale di godimento. La fotografia, non estetica (perché quella ha un’altra strada) è un mezzo della comunicazione, un gadget del telefono, dice cose di se, dice cose della propria testa, chiede anche cose, pone dei punti interrogativi. Se la foto analogica era un memento identirario, che in un secondo momento avrebbe aiutato a ricostruire la propria carriera esistenziale – chi sono stato, chi ho amato – adesso la fotografia è istantanea volubile, immateriale, e comunicante, sei tu che la guardi che mi devi dire chi sono e chi amo, e se ti piace, possibilmente vorrei sapere anche questo – come lo chiedo. 

Certo in tutta la sua evoluzione la foto mantiene una sua funzione di fondo che è quella di fermare un momento, catturare un movimento, fare un ritratto di una compresenza di oggetti e di cause. Quando penso alla funzione della fotografia  nel sogno penso alla spiegazione del concetto di causa che è nella Critica della Ragion Pura e a quella cosa per cui nel rettangolo di uno spazio inquadrato ogni oggetto ha una relazione che può essere di natura causale con un altro. Questa cosa l’inconscio la sa, ed è il primissimo motivo per cui è frequente avere a che fare con le fotografie nei sogni: il sogno suggerisce che è interessante quella foto, quello spezzone di reale, quell’insieme di soggetti quell’insieme di relazioni interne entro cui siamo iscritti, ci dice di guardare quella sua particolare fotografia del nostro mondo interno introduce in primo luogo un dispositivo retorico, una enfasi semantica. La fotografia nel sogno rimane celebrativa, rimane un voluto ritaglio dell’esperienza. Chiede di essere isolata dal contesto e di ispessire le correlazioni tra gli oggetti compresenti. Guarda dice: quella maschiera è insieme a quel fiume, quel tuo amico insieme a tua madre, quei 4 oggetti in una posizione simmetrica, guarda e cerca tutte le connessioni per cui ognuno degli oggetti e soggetti in foto esige la presenza dell’altro. Ragiona sulle tue associazioni e mettile insieme. Fai in sostanza un’altra foto, associativa e testuale della foto.

Sarà utile poi davvero vedere se la foto del sogno è analogica o digitale, con una moderata correlazione all’età del sognatore, più sarà giovane più la foto digitale avrà a che fare con la sua quotidianità mentre quella analogica avrà un sapore esotico, mentre per il sognatore più grande la questione sarà inversa. Oramai per tutti però, l’analogica ha una connotazione di antichità e di permanenza, io penso quindi simbolicamente di maggiore vicinanza all’origine psichica delle strutture complessuali, più adatta a rappresentare le zone più carsiche della vita inconscia, mentre l’immagine digitale nella sua transitorietà e nella sua manipolabilità largamente accessibile meglio rappresenterà il lavoro dell’io, della sua adesione ai codici ricorrenti, e dove saranno gli oggetti rappresentati collaterali, a fare da spia alle proiezioni dell’inconscio.

Dopo di che le foto nei sogni raramente appaiono isolate e non iscritte in un contesto narrativo che ne determina l’interpretazione. Diventeranno fondamentali i movimenti in cui si iscrivono, chi le propone e cosa rappresentano. Sono sostanzialmente delle cornici semantiche all’interno di una catena di trame, l’anello di congiunzione tra due piani della riflessione, quello del contesto onirico chi da la foto a chi, dove si trova la foto, come entra in scena, il che riguarda quali parti psichiche e della personalità sono in grado di mettere al centro della riflessione analitica un certo tema, e il rappresentato, che è sostanzialmente ciò che retoricamente si è deciso di analizzare, il vero centro del sogno. Il fatto che il sognatore decida di usare la foto, indica la possibilità di ragionare intorno al tipo di sguardo, alle difese che utilizza per isolare i suoi segmenti di senso.

Chiudo qui, sperando di non essere stata troppo nebulosa.