- Qualcosa che parla di noi
In questi giorni è visibile su Netfix un documentario- the social dilemma – che mette al centro molte questioni importanti sullo stare in rete. A me non è piaciuto molto, in prima battuta mi è sembrata per lo più una ottima occasione mancata, perché contenuti validi e importanti sono presentati in maniera semplificata e ricattatoria al punto tale da ingenerare reazioni difensive proprio nelle persone che avrebbero più bisogno di prenderli sul serio. Tuttavia ho notato che si sta rivelando capace di innescare un dibattito pubblico: amiche al telefono, pazienti nella stanza di analisi, e sugli stessi social contatti stimati – molti parlano di the social dilemma. E’ un prodotto brutto, che parla anche male, di alcune cose vere. Ne consiglio dunque la visione, e consiglio di tenere duro davanti all’effetto Kazzenger di diversi passaggi e forse di tutta la regia, la cui intenzione di creare panico e disagio è scoperta, didascalica e forse eccessivamente unilaterale, ma conserva qualcosa di utile.
L’impianto di fondo del documentario che si serve di molte interviste a teste di serie di grandi marchi quali google, facebook, instagram etc. si articola su due punti chiave: il primo è che i social (qui intesi in senso molto allargato) svolgono una funzione determinante giacché capitalizzano informazioni della nostra vita privata che aiutano le campagne pubblicitarie di prodotti, per cui la nostra vita privata diventa capitale di scambio. Il secondo punto della tesi è che il funzionamento dei social è programmato per indurci a starci più tempo possibile in modo da renderci acquirenti sempre più fruibili e svuotabili nelle loro risorse. I social in questa lettura sono in sostanza quel dispositivo che trasforma la nostra privata quotidianità e la nostra relazionalità in un film in cui continuamente ci sono delle inserzioni pubblicitarie scelte in base alle abitudini di consumo che abbiamo dichiarato di avere. Perché il film della nostra esistenza sia ricco e piacevole i social tendono a generare deliberatamente dipendenza. Miei colleghi sono ingaggiati perché creino quelle premesse in molti piccoli modi che per noi sono ininfluenti o anche moderatamente piacevoli. In sostanza esiste una equipe di psicologi presso tutti i grandi marchi da facebook a tik tok da instagram a pinterest il cui scopo è quello di andare in direzione ostinata e contraria rispetto a qualsiasi codice deontologico.
La deontologia impone di liberare dalle patologie, mentre lo stipendio li incoraggia a rafforzare le patologie, nel caso specifico la dipendenza da internet.
Mi sento di sottoscrivere le tesi espresse nel documentario, a cui ero approdata da diverso tempo come capita a molti utenti forti della rete. Avendo dei gusti commerciali – in fatto di vestiti, scarpe ristoranti – piuttosto di nicchia l’aspetto del marketing dei miei dati mi ha sempre moderatamente preoccupata perché banalmente – anche con qualche tentativo zelante – ci fosse una volta che sui social mi si pubblicizzasse un marchio che mi piace che mi seduce che mi riguarda, saranno tanto bravi ma non ci azzeccano mai, o almeno – non ci azzeccano ancora. Capisco che spesso approfittando delle stringhe numeriche del mio ip siti che frequento normalmente di vestiti o scarpe diano a facebook o al mio portale mail, la pagina che ho visitato per farmi rivedere il prodotto che poi non ho comprato – ma a parte questo fenomeno, non mi ritrovo mai a comprare cose o a desiderarle ex novo. Immagino però che se qualcuno scriva che ama le scarpe di tela da ginnastica poi facebook gli faccia vedere le scarpe da ginnastica e insomma poi le compri. Mi ha sempre invece fatto temere il fatto che i social o i motori di ricerca avessero molti dati della mia personalità della mia vita quotidiana, delle mie debolezze e delle mie preferenze politiche e mi ritrovo sempre a immaginare cosa ne sarebbe quando in conseguenza di un colpo di stato o di una minaccia politica una forza giuridicamente ammessa di un eventuale nuovo ordine totalitario decidesse di acquisire queste informazioni per dei suoi scopi.
Questa cosa, ammetto mi preoccupa e non ho molte soluzioni.
Di contro penso che sia saggio riflettere sul fatto che questo ingaggio alla dipendenza non funziona con tutte le personalità e con tutti gli stili di vita. Personalmente constato che nella mia bolla di persone per esempio amici, parenti, sono ben pochi a usare la rete, a starci e ad amarla quanto la amo io. Sui social ho molti contatti che vengono dalla mia vita quotidiana ma le loro pagine sono per lo più ferme, producono saltuariamente contenuti o non ne producono affatto. Narcisisti si nasce e non si diventa, per esempio e la leva narcisistica funziona solo su alcuni soggetti mentre altri ne sono assolutamente impermeabili. Noto che persone riservate, poco inclini all’esposizione di se, tendono a vivere con scomodità i social: tuttalpiù vengono per usarli come un medium non sociale: non commentano mai, non lasciano reazioni, leggono e basta. In secondo luogo constato che mantengono una salubre autonomia dai social persone che per motivi di lavoro non possono trascorrervi molto tempo anche volendo: pochissimi medici indugiano su facebook, pochissimi tassisti. Io stessa ho notato e questo è stato utile per me, che imponendomi di usarli solo dopo una certa ora, la mia dipendenza dalle dinamiche dei social si riduceva moltissimo.
Tuttavia questa cosa, questo ingaggio alla dipendenza, al punto di modificare gli stili di vita mi sembra un dato importante e per i soggetti vulnerabili per personalità ma anche per momenti di fragilità di difficoltà nella loro vita privata. Perché la rete funziona per molti aspetti come le sostanze che elicitano dipendenza, con alcuni vantaggi aggiunti. Mentre le droghe o l’alcool sono oggetti intermedi che arrivano a essere moderatamente neutri e ad alti tassi di dipendenza a funzionare a prescindere dalla qualità – all’alcolista grave non serve necessariamente il barolo, l’alcolista grave regredisce a uno stadio orale per cui la sostanza è spesso interscambiabile o eventualmente di qualità scadente – la rete mantiene una capacità di offrire un oggetto di dipendenza altamente soggettificato: le tue persone, le tue relazioni, la tua musica i tuoi i film, il tuo surrogato di identità solo smaterializzato. Offre inoltre altri vantaggi aggiuntivi, avendo una moderata ricaduta sul corpo, niente crisi di overdose, niente cirrosi epatica, niente tumore ai polmoni, la dipendenza dalla rete provoca più che altro un buco nella materia della vita privata, nella pasta del quotidiano. Mangia spazi dialogici, spazi di consumo culturale, spazi di relazioni incarnate – tutto questo senza che necessariamente capiti perché senza la rete sarebbero vuoti. Anzi soprattutto i social, dal momento che premiano molto i funzionamenti narcisistici tendono a sedurre con successo persone molto seduttive e capaci di creare relazioni sul piano di realtà.
L’agio di una rappresentazione della comunicazione che copia la comunicazione senza avere l’interezza della comunicazione, pensiamo per esempio al sexting o anche alle discussioni politiche in rete, tende a rendere lo stare in rete un posto più attraente dello stare fuori, perché elude una serie di fatiche a carico delle relazioni, e che sono intimamente connesse con i piaceri della relazione. Onde evitare di correre un rischio si può decidere di eludere la sfida e di preferire la comunicazione asciugata dal contatto materiale. Può anche capitare che, molto banalmente il rinforzo della quotidianità allarghi l’abitare dello spazio della rete a discapito dello spazio del reale. Se nei sistemi familiari per esempio ci sono delle piccole aree di nevrosi di disfunzionalità, la rete, i social rappresentano una sorta di zona rifugio un quarto elemento dove scaricare l’inespresso, una specie di buco funzionale alla patologia del sistema familiare – garantendo l’immobilità che è – almeno per me – il clouster principale di ogni diagnosi a qualsiasi livello.
Dunque:
Mercificazione dell’identità, manipolazione dell’utenza, incoraggiamento delle patologie della dipendenza marketing della personalità, insomma messa così è comprensibile che si destino delle preoccupazioni. Ma io proporrei delle riflessioni aggiuntive che correggano un po’ il tiro.
- Qualcosa che manca di noi
La cosa che più mi ha lasciato perplessa di the social dilemma – sta già nell’impianto del titolo. Il dilemma infatti è quella situazione che si pone quando ci si sente posti tra due alternative antitetiche tra loro senza che si pongano terze vie. Nel caso specifico il tema diventa social si o social no, rete si o rete no perché la retorica del discorso parla di un sistema unidirezionale dove c’è un’unica forza che è il potere del capitale di fronte a soggetti inermi divisi tra loro e confiscati nella loro capacità di discernimento e giudizio. Nella sua estrema semplificazione è una specie di versione coatta della prospettiva marxista del capitale, laddove capitalisti e proletariato sono entrambi posseduti dal capitale medesimo, che ne determina comportamenti e destini in virtù del suo continuo accrescimento. E in effetti lo sguardo veteromarxista è giustificato perché attualmente l’economia del web ricorda certe fasi emergenti della rivoluzione industriale quando emergevano grandissimi capitali, alleanze tra grossi industriali che ammazzavano qualsiasi forma di concorrenza e inglobavano qualsiasi forma di guadagno. Andrebbe fatto cioè un discorso su come le logiche del capitale concentrato nelle mani di pochi a discapito di molti riguardino anche il mercato degli introiti per cui merce è l’acquirente merce è il venditore l’unico vero grande capitalista è la piattaforma che propone gli scambi vendendo caro il proprio potere: gli acquirenti merce lo pagano con l’identità, i venditori merce con la svendita dei loro beni, e quello che fa davvero i soldi a palate è la piattaforma che ricatta gli altri due in assenza di una normativa adeguata. Secondo me tutto si capisce molto bene se si pensa a un servizio come spotify, che: agli utenti costa o zero o una cifra prossima allo zero (9 euro è una cosa ridicola) i musicisti che ci mettono le cose sopra ricevono un compenso decisamente inadeguato rispetto alla normativa pregressa sui diritti d’autore, e divengono ancora più penalizzati se non sono molto noti (leggere per esempio qui) tuttavia ci vanno per la maggior parte lo stesso, perché essendoci una sorta di oligopolio in materia, è l’unico modo per esistere per avere visibilità. Quindi la prima cosa che mi viene in mente è la necessità di una serie di normative che in qualche modo regolamentino giuridicamente il giusto valore delle cose … Il che in materia di beni artistici dovrebbe andare anche a intervenire sulla pirateria di qualsiasi cosa libri, film, oltre che musica. Perché ecco tra la gratuità dei libri scaricati, la gratuità dei nostri interventi sui social, c’è qualcosa che si va perdendo ed è il giusto spessore dell’identità, il giusto riconoscimento degli oggetti. E se la gratuità dei beni a disposizione ricorda un po’ il grande sogno comunista della collettivizzazione delle risorse, il conto in banca dei magnati del web ricorda le ville esageratamente lussuose degli alti papaveri sovietici. Mentre le case dei fruitori, sono piene magari di musica gratuita, di film piratati, ma aumentano pure i cassintegrati. Posti di lavoro continuano a saltare.
Mi rendo conto che questa è una divagazione, ma ha a che fare con il problema)
La seconda questione che mi viene in mente riguarda lo stesso funzionamento dei social presentato dal documentario come unidirezionale, e che io invece avverto come multifunzionale e polifonico. Questa è stata la parte che più ho avvertito come trascurata nel documentario, al fine di manipolare lo scandalo dell’utenza dei social. Nel documentario infatti si pongono due oggetti: i social e chi ci lavora – che hanno una sola intenzione monolitica, che è quella di garantire profitto all’azienda – e gli utenti che hanno una sola intenzione monolitica che è quella di stare in una generica relazione. Nell’impianto del documentario ci sono quindi due movimenti: uno pulviscolare dal basso debole e continuo degli utenti dei social che vivono la loro socialità in rete scambiandosi informazione e mostrando nel frangente in cosa spenderebbe volentieri soldi, e una potente dall’alto che manipola e controlla e determina il pulviscolo relazionale del primo gruppo, forzando passaggi e determinando le spontaneità, il tutto senza che nessuno se ne accorga.
Io credo che non è esattamente così per una serie di questioni trascurate cioè di nuclei di potere e di valore sono costellati al sistema. Ora io qui li schematizzerò con :
1.. il potere dal basso che ha da sempre nella dialettica economica l’acquirente di un bene potere che rende il padrone, sappiamo, servo quanto il servo
2. il potere intrinseco di generare movimento da parte dei contenuti che sono comunicati negli scambi
3. il potere delle agenzie esterne ai social che interagiscono con chi abita all’interno.
4. il potere dei soggetti di immunizzarsi con comportamenti che controllano il loro stare in rete.
Dal momento che l’interesse delle piattaforme è fondamentalmente il profitto, e la comodità in cui ci si sta dentro è quella che permette alle piattaforme di avere un maggior numero di iscritti possibili, i desiderata degli utenti diventano una domanda che manipola la domanda del gestore della piattaforma. E’ per questo motivo che per esempio, un social come Facebook – la piattaforma che uso di più io e che quindi conosco meglio, ma anche un grande istituto come google che a sua volta ha anche una corposa funzione social assumono vestiti ideologicamente tolleranti e libertari, inclusivi e politicamente corretti, platealmente indirizzati all’attenzione delle fasce più deboli, e si fanno anche titolari di esplicite operazioni che aiutino le persone in difficoltà: questa cosa capita perché l’utenza ha bisogno di stare eticamente a suo agio in un dispositivo che tendenzialmente premia l’inattività e perché quel dispositivo teoricamente deve poter raccogliere utenti di ogni tipo, ma soprattutto perché il gruppo di quelli che occupano i social in modo più attivo e tenderanno a parlare dei social dentro e fuori i social medesimi sono quelli che vogliono quelle logiche inclusive vogliono quel tipo di stare al mondo. L’utenza della rete, in qualche modo determina le forme della rete. Non è una novità dei social, volendo è una vecchia storia che riguarda anche lo stato attuale dei media, i cui formati sono stati dettati da una manipolazione dell’utenza persino – a parere mio – a discapito della stessa. Pensiamo a quell’aberrazione che capita oggi di trovare in fondo agli articoli: tempo di lettura 7 minuti.
Se i social hanno questa forma, vanno incontro a certi cambiamenti, premiano la circolazione di certi contenuti, hanno dispositivi per cancellarne di altri (“questi contenuti non sono compatibili con le regole di facebook”) queste cose non ci sono per il potere dell’alto, ma per l’ideologia dal basso che l’alto asseconda. Quando sono differenti, facciamo caso ai cambiamenti sociali che rispecchiano, più che gridare al Grande Fratello.
In secondo luogo il documentario spinge moltissimo sulla tendenza dei social a rendere i soggetti dipendenti dall’atto di essere in relazione per il tramite dei contenuti in una modalità – qui veramente la parte più mediocre del lavoro – che arriva a depauperare completamente i contenuti. Nella mia esperienza di utente forte della rete, ma anche di terapeuta che si interfaccia con persone variamente connesse, i contenuti rimangono un oggetto carico di significato di esperienza e di intreccio con la vita reale, che mantiene un potere autonomo che diciamo, si irradia sull’atto comunicativo. La dipendenza dalle notifiche sussiste, ma il potere di ciò che è notificato per molte persone deriva dal potere reale attribuito a quella relazione, non all’atto comunicativo tout court. E’ piuttosto cretino – come sostiene il documentario – sostenere che il ragazzino è felice di avere un messaggio dalla ragazzina perché è contento di avere un messaggio e non per il fatto che la ragazzina sarà evidentemente molto carina.
Ugualmente, in rete, non si scambiano atti comunicativi vuoti e privi di azione con ricadute nel reale, e se c’è una cosa che il documentario elude, sono gli scambi relazionali e le azioni politiche che dalla rete si ingenerano e modificano il reale, da questioni di microfisiologia delle relazioni a questioni di macrofisiologia degli atti politici. La banalità per cui sui social si riprendono amicizie perdute nella vita, o anche la banalità di persone che diventano amici sui social e continuano fuori, o si sposano fuori, ma anche la banalità di proteste collettive sui social che determinano licenziamenti di persone, o anche la banalità di leader politici che usano i social e poi riescono a farsi votare, sono tutte cose che allargano lo sguardo da quella unidirezionalità del marketing tra i cattivoni che usano gli utenti e gli utenti inermi, e caricano il sistema social di una pluralità di elementi pieni di potere che cambiano parzialmente il panorama.
Infine. Io credo che oltre a lavorare per una normativa diversa degli oggetti che animano internet – credo che possa esistere un modo avvertito e parzialmente immunizzato di usare la rete, e questo modo per me passa da due elementi. Il primo riguarda un controllo banale del tempo che si trascorre sui social, perché devo ammettere che proprio nella mia esperienza personale, essermi data una regola, anche se solo di massima, non sostare mai sui social prima di una certa ora, mai nelle ore di lavoro, mi ha tolto molto di quell’onanistica dipendenza dall’oggetto a prescindere dai complementi oggetti, perché il tempo del reale la pienezza del reale, si tengono la scena e quando si sta di meno in rete è come se mantenendo lo sguardo dalla prospettiva della vita materiale le comunicazioni più vuote, i gesti più coatti, costretti, svuotati perdessero maggiormente di senso. Mentre quando si fa il contrario stare tanto tanto sui social finisce per depauperare l’orizzonte di senso del reale, rendendolo faticoso, oneroso.
Il secondo però riguarda il pensare la rete come un oggetto del reale, in continuità con il conto reale, funzionale al reale, per cui tutte le parti in causa non stanno giocando al reale, ma stanno agendo realmente. Loro che chiedono i soldi, tu che li dai a qualcuno, tu che flirti con uno, tu che decidi di vederlo fuori dalla rete, tu che decidi di non vederlo, tu che dici di una persona che deve essere licenziata, tu che organizzi un comizio. Quando non stai agendo realmente, ma stai giocando al reale, quello è il momento in cui devi capire che qualcuno sta realmente facendo qualcosa con te.