Bisognerebbe sempre essere indulgenti quando dal mondo intellettuale arriva qualcuno che animato dalle migliori intenzioni prende delle categorie della clinica, delle questioni che riguardano la clinica, e ne fa una metafisica personale allo scopo di mettere in piedi una teoria della società. E’ una tentazione plausibile, forse persino un compito necessario – perché qualcuno insomma – si dovrà pur occupare di pensare a quello che succede, dovremmo pure tentare una ricerca di senso, e anche una strada per raddrizzare le cose. E quando si critica un simile tentativo – bisognerebbe sempre usare una certa gentilezza se ci si dovesse accorgere di una certa bontà di fondo nell’autore, una sua reale preoccupazione per l’umano, per il vicino, un dolore per il tragico. E tutte queste cose le scrivo perché ho finito di leggere gli Heroes di Bifo, Franco Berardi, che ho avvicinato con un consistente risentimento per vedere reiterato il vizio di un’intera classe intellettuale, e che lascio invece con una sorta di dispiacere perché quel che temevo, il parlare astrattamente della carne che soffre schiacciandola in categorie che la includono solo blandamente, è abbinato a un sostanziale buon cuore. Alato, apolide, ma pur sempre realmente interessato agli altri. Io avevo già intuito, anche perché ne avevo anche avuto qualche boccone anticipato, il nocciolo del libro – ma non conoscendo Berardi, non mi aspettavo quel senso di gentilezza e di buona fede. Per cui, con mia sorpresa, mi sono ritrovata dire:
ma Bifo, macheccazzo.
Mi stai simpatico e mi procuri per questo, un imprevisto senso di delusione.
La teoria di fondo è questa: si sta sempre peggio, in specie in occidente, ma considerando l’occidente una categoria estesa quanto pervasiva, che esclude tipo l’africa e alcuni paesi dell’Asia. Questo occidente gigantesco si è infilato in un nuovo passo del capitalismo che distrugge le persone letteralmente, che le induce a un malessere senza scampo. Le famiglie vengono distrutte infatti, la rete sociale viene frantumata, le persone vengono messe all’angolo di una continua ricattabilità sociale, la costante precarietà economica mina il senso di sicurezza, e contro questa erosione dei soggetti spingono forze che chiedono invece di colonizzare, di dominare, di conquistare, di controllare di farsi vedere in una posizione di falso dominio. La capacità intellettuale è colonizzata da questo contrasto, e il soggetto è – in misura relativamente variabile – dalle Alpi alle Piramidi dal Manzanarre al Reno – scalzato da se stesso. Di fronte a questa prospettiva terribile allora l’atto suicidario diventa un atto di protesta, un atto di sottrazione, persino una sorta di spiaggia nobilitante. Comunque, sempre l’esito delle forze di questo presunto sistema unico dell’esistente.
All’analisi di questo tremendo fenomeno, in parte oggettivo e reale, Bifo dedica trecento e rotti pagine, puntellate di suicidi e di suicidi omicidi, che come stelle irradiano la rete sociale ed esistenziale di provenienza, si specchiano e si confermano l’un l’altro in un’unica lettura possibile dell’esistente. Le ultime cinque invece suggeriscono come rimedio l’autonomia ironica – devo dire lasciandomi discretamente di stucco. Perché insomma dopo trecento pagine di morte coatta dell’individuo, di logiche pervasive che erodono la libertà materiale e spirituale, di vicende mortali e tragiche, scritte anche con una serietà e affettività ammirevole, l’evocazione della autonomia ironica è un’istigazione all’insulto.
E quando ho cominciato a occuparmi di questo libro avevo tacciato Bifo di essere un radical chic. Ma no! Non conosci la sua biografia mi venne accoratamente detto. Eh, però cazzo a fronte di uno che si ammazza dopo aver sparato a una classe di bambini, l’autonomia ironica ecco. Me dovete legà.
Certo il libro merita di essere letto e stimola anche tante utili riflessioni. Esiste davvero un capitalismo stritolante, espropriante, desoggettificante, patologizzante. Esiste una frantumazione della rete sociale che lascia le persone più sole e in difficoltà, esiste certamente un mutamento di prospettive generazionale per cui, il futuro che in occidente si disegna all’orizzonte può avere qualcosa di incerto e mortifero, e sinistro. Esistono certamente circostanze drammatiche che ingoiano la vita di alcuni e anzi di molti. E’ difficile non avere gli occhi per vederlo. Sia nel proprio privato, sia nella vita delle persone a noi vicine, che accendendo un telegiornale. Ma Berardi prende questo turbo capitalismo e per esigenze di sistema teoriche ci ficca tutta la realtà possibile, ci ficca tutto il mondo, ci ficca i giovani i vecchi e i bambini, ci ficca le lotte politiche e gli attentati, i suicidi e gli omicidi. In una premoderna visione della realtà in cui Dio è dato per morto, Woody Allen è spacciato– rimaniamo fermi alla teoria del Capitale. Il totem vetero marxista sbriluccica come non mai e si mangia tutte le chiavi di lettura e di lavoro che abbiamo messo sul tavolo nell’ultimo secolo.
Cosicché il monito che faceva tanto ben sperare all’inizio del libro – gli unici che hanno qualcosa da dire sono gli psicologi! Peccato non li ascolti nessuno – viene tradito con somma convinzione per tutto il resto del tomo. Perché tra gli arnesi e gli occhiali che oggi non possono essere lasciati da parte quando si parla di individui e collettività – quelli della ricerca psicologica sono diventati ineludibili specie quando a sostegno delle proprie tesi si fanno inferenze che riguardano un ambito psicologico prima che sociologico e culturale. Stabilire se una persona si suicida per il turbo capitalismo o per altre cause, e un quesito tecnicamente e prioritariamente psicologico – la domanda per cui oggi siamo di fronte a un numero maggiore di omicidi suicidi rimane una domanda strettamente psicologica – posto che il dato sia corretto. Posto che l’impianto sotteso del libro non esplicitato ma continuamente reiterato – il male arriva con il capitalismo, il capitalismo peggiora l’esistente non sia una favola ottimista – ma di questo parleremo dopo. E forse sarebbe saggio per non dire umile, prendere in considerazione le logiche che di solito connotano la riflessione psicologica, la quale in primo luogo non può permettersi totem di nessun genere.
La psicologia o la psicoanalisi hanno infatti qualcosa da dire, perché non parlano dell’umano, soltanto. Non ne leggono esclusivamente, ma ci si confrontano con lunghi scambi i quali devono prescindere – specie per chi eserciti anche nel servizio pubblico – dall’illusione che altri funzionino come noi, siano permeabili alle nostre stesse categorie. Tradotto. Vedere un paziente – sentire una persona che parla implica riconoscergli una cultura di provenienza, un mondo e una storia. A quella microcultura farà riferimento, a quella sua storia individuale e sociale. Parlerà dei suoi affetti, delle sue origini e persino, volontariamente o meno di quell’alterità irriducibile a nient’altro che è il suo corpo. Si dovrà riconoscergli la strutturazione di qualcosa che è avvenuto in tempi passati e che ora è anche più o meno dolorosamente stabile. In quell’intreccio dolorosamente stabile sta la spinta eventuale a un atto omicida o suicidario. Qualche volta, potrà capitare che nel parlare di se e trovare un bandolo, le persone lamenti le strettoie esistenziali della logica moderna, altre capiterà che il clinico addirittura le veda per lui. Ma tanto tanto tanto spesso, Bifo mio, non gliene frega niente. O meglio, accade che riconoscano gli oggetti di cui parla Bifo – anche se non sempre – come complementi oggetti delle loro azioni, ciò che la psiche usa. E più le persone stanno male, e sentono la sirena della morte, inflitta e autoinflitta più la questione è secondaria o tuttalpiù strumentale, non per inconsapevolezza – ma per epistemologia individuale.
Al mondo intellettuale piace sempre mettere in discussione l’agency degli altri per portare avanti l’idea che siano sempre completamente agiti da quelle stesse forze culturali che il filosofo o lo scrittore vanno invece disvelando con narcisistico vantaggio – io si che ti ho capito! Tu di te non ci hai capito un cazzo. In questo il lavoro di Bifo è nel solco e in questo ha i suoi meriti e grandi limiti. Stabilisce infatti un’idea di condizionamento che è fallace sia perché non vede le diverse priorità che hanno le diverse contestualità culturali e psichiche, sia perché da molta importanza al commercio costante tra soggetto e mondo esterno pensandolo sempre uguale nelle diverse età della vita, sempre ugualmente strutturante, e senza la minima partecipazione dell’identità corporea. Il suicida o il pluriomicida interagiscono nel loro presente con una contestualità culturale, le rispondono riconoscendo una disperazione indotta e protestano a modo loro tutti invariabilmente agiti e in preda allo stesso tipo di protesta. Tuttavia la ricerca psicologica di tutti i fronti va convergendo, anche dalle opposte fazioni della psicoanalisi freudiana e del cognitivismo, sull’idea che siano le relazioni della prima infanzia insieme alla strutturazione biologica della persona a formare le sue strutture difensive e adattive, e a costituire successivamente la sua dimensione problematica. E quello che accadrà dopo riguarderà molto l’efficacia delle strutture difensive e adattive, e la risultante di quella orchestrazione esistenziale che è l’intreccio tra biologico e psichico che si reifica nel concetto di plasticità neurale. La biologia ha tanto da dire in queste cose, che ci piaccia o meno. E in sede di colloquio clinico le persone spontaneamente mettono su questa strada. L’organizzazione patologica – una formula che forse a quel mondo intellettuale suona politicamente scorretta ma che testimonia di una necessaria assunzione di responsabilità – è spesso allora il risultato di un intreccio tra vulnerabilità biologica e un primo ingresso nella vita accaduto in circostanze deprivanti o variamente traumatizzanti che mettono in mano alla persona un armamentario esistenziale insufficiente, la cui insufficienza salta particolarmente all’occhio quando si constata la difficoltà a scambiare con il mondo esterno, a comunicare a percepire, a essere appunto influenzati, sommersi o salvati. E quando si parla con chi è più sommerso, si è dolorosamente colpiti dalla prigione comunicativa in cui sono caduti, dall’inamovibilità scarsamente adattiva delle loro categorie relazionali. Dal fatto che un antico mondo interno è rimasto come era nei primi anni di vita, perché nessuno ha messo in mano gli strumenti per modificarlo. Ora io non ho incontrato né Breivik né nessuno dei personaggi di cui parla Berardi – ma anche quando si incontrano persone che fanno atti relativamente più modesti per esempio tentare di uccidersi con i proprio figli piccoli come fece una mia paziente, o dare fuoco a un appartamento con delle persone dentro come fece un altro che seguii per un breve periodo – ci si scontra con una più o meno lunga difficoltà a trovare i canali di scambio e di permeabilità con l’esterno. In quella difficoltà e in quella scarsa permeabilità stanno molti dei problemi di quei pazienti e molti dei problemi della costruzione teorica di Bifo. Quel tipo di trame esistenziali non solo è scarsamente permeabile al peggio della vita, ma anche al meglio, anche a un presunto mondo magnifico e meraviglioso che non stritola non chiede e non toglie. Quel tipo di trama esistenziale riesce a nutrirsi molto poco – lo dimostra la maggiore percentuale di insuccessi rispetto a tante altre dimensioni problematiche che hanno le psicoterapie con questo tipo di assistiti (nel fortunatissimo caso riescano ad essere assistiti).
E’ un gran guaio. Per usare un eufemismo.
La questione che la psicologia pone riguarda il successo dell’essere umano rispetto alle altre specie – ed è la sua incredibile adattabilità alla peggio merda. La quale, se diamo uno sguardo al passato e alle circostanze in cui si dibattono gli uomini fuori dal capitalismo, è sempre stata a un livello costantemente alto. Qui entriamo nell’arbitrario, e io mi rendo conto che questa è una mia visione personale antagonista a quella di Berardi, ma fondamentalmente non penso che prima dell’avvento capitalistico era tutto bello e carino e la gente non si ammazzava perché che bella la rete sociale. Ah e c’era la famiglia, patriarcale ma vabbè! Si stava tutti sotto lo stesso tetto che letizia! Io penso in tutta onestà che il Mondo abbia fatto sempre piuttosto schifo per la maggioranza delle persone, e che il vecchio impulso di morte – thanatos – la radice maligna e autodistruttiva si esprimesse con altri linguaggi. Che bisogno c’è di compiere il rito suicidario se dispongo di altri riti suicidari implicitamente istituzionalizzati? Che bisogno ho di proiezioni psichiche collettive – al di la dell’efficacia invogliante di una riproduzione mediatica – se ho queste occasioni quotidiane di ammazzare qualcuno? Non schiantavano aerei, ma uccidevano bambini, fedifraghe, condannati a morte, nemici, ladri dentro casa, pirati in mezzo al mare E prendevamo a sassate infedeli e omosessuali – cosa che per altro nel turbo capitalismo ancora si continua a fare e provoca un dolore che con il capitalismo non ci entra niente In ogni caso morivano di merda e di malattia, stupravano come prassi giuridica, vendevano figli. Il femminile era la palestra di esorcizzazione quotidiana per qualsiasi maschio medio, e quando c’era da esercitare il dominio di parti di se indesiderate e proiettate altrove ti stupravi la novella sposa del bracciante e apposto così. Non c’era proprio bisogno di andarsi a cercare thanatos con tanto sofisticato accanimento – thanatos era all’ordine del giorno. E la malattia ti portava via prima che ti stancassi di te stesso.
Il capitalismo col turbo o meno, cavalcando ambizioni smodate insieme a una vasta coltre di sentimenti ignobili – la competizione, la paura, la rivalità, la vanagloria – cerca reiteratamente di espungere thanatos, per poi ritrovarsela invitta e gloriosa riemergere tra le maglie delle sue relazioni interne. Thanatos non si serve solo del capitalismo, come sostiene Bifo, ma di una vasta intelaiatura di significanti e narrazioni che sono iscritte all’interno di esso e possono esserne bandamente condizionate, o non esserlo affatto, o anche esserlo molto. L’organizzazione politica ed economica di un gruppo sociale viene sempre dopo gli esseri umani che lo costituiscono –l’organizzazione politica è l’esito di un contratto sociale. Thanatos arriva prima, thanatos è prima del bellum omnium contra omnes, è ciò che lo fa è l’umano. Dire perciò che è il capitalismo a generare thanatos è illusorio – almeno per me.
Possiamo però dire che in diverse circostanze ci si allea, e – magari lasciando da parte l’autonomia ironica ma invece facendo ognuno la sua parte – possiamo rimboccarci le maniche e compiere la nostra lotta, che spesso ci fa strappare dei bei punti. Bambini che vanno a scuola. Una coppia che si forma. Una specie la cui estinzione è rinviata. Un parco pubblico. Una scarcerazione. Un progetto di reinserimento nel mondo del lavoro per ex tossicodipendenti. Una casa. Una psicoterapia. Un libro. Ognuno ha il suo braccio, il suo carattere e la sua vocazione per acciuffare il prossimo, e pure un libro su come il capitalismo accelerato taglia la strada può andar bene.
Ma se si vuole dimostrare come ciò arrivi a performare la vita dei singoli e a strutturare funzionamenti patologici sulla lunga durata, se si vuole fare una relazione tra il pluriomicida e la matrice sociopolitica, ci si deve concentrare sui modi in cui la matrice sociopolitica agisce sulla matrice relazionale. Con l’onestà intellettuale di valutarne i doppi effetti però – nel bene cioè come nel male. Questa possibilità è solo sfiorata in alcune ottime occasioni mancate del volume. Si parla di una generica crisi del padre, di un’eclissi del paterno in termini di lessico e di valori, si allude con qualche biografia smozzicata e qualche commento consapevole alla distruzione della cornice familiare in un modo che finisce coll’essere solo retorico, ma che non spiega bene invece cosa succede psicodinamicamente a un bambino che nasce in carcere e che viene separato dalla madre a forza quando ha tre anni – come funziona attualmente almeno in Italia. Non prende in carico la disamina degli effetti sulla strutturazione dell’io e del superio del dilagare dell’alcolismo o della tossicodipendenza in certe regioni del turbo capitalismo e il mancato investimento nel recupero dovuto al fatto che è considerato probabilmente poco redditizio. Cosa succede alla strutturazione della personalità di un ragazzo il cui genitore parisesso è alla deriva? Cosa succede alla personalità di un bambino a cui il padre, o la madre, dimenticati dal capitale in quanto scarsamente remunerativi, spengono le sigarette addosso? Che farà la ragazzina a sette anni messa in strada da sua madre e picchiata perché non partecipa alle logiche del capitale con il dovuto zelo? Che succede ai ragazzini che vedono il padre accoltellare la madre? Che succede se invece un ragazzino viene lasciato da solo a un anno, due anni, tre anni, per lungo tempo? A quello a cui nessuno da niente per lungo lunghissimo tempo? Queste sono le cose che quando vanno male, danno all’individuo un equipaggio inadeguato anche al migliore dei mondi possibili.
Sarebbe bello – un prossimo libro su questo.