Note sulla depressione

 

Ci sono parole che nell’incrocio tra pubblico e privato, tra gergo tecnico e linguaggio comune vengono usate con grande disinvoltura, dilatate fino al collasso, abusate fino a una sorta di rottura interna che provoca alla fine – un’ineluttabile emorragia di significato. In psicologia dinamica e psichiatria, si può trattare di parole come narcisismo, oppure di termini come complesso, o di formule come oggetto transizionale. Spesso magari, la causa sta nella dilatazione di questa o quella teoria come chiave di lettura fascinosa quanto facilitata della realtà, altre invece l’abuso di una parola che proviene dal gergo psichiatrico, risponde a un iniziale desiderio di qualificare in modo più preciso una certa situazione, senza fare però lo sforzo di capire esattamente di cosa si sta parlando, e utilizzando la stessa parola, per un numero tale di situazioni da toglierle quella connotazione precisa, descientificizzarla e giocare non di rado su un’ambiguità che non restituisce nessun favore.
E’ il caso della depressione per esempio, in particolare per come è trattata ed evocata sui media, ma anche per come ne parliamo comunemente. Ha sgozzato la moglie era depresso. S’è lasciata col marito? E’ depressa, Ah che depressione stasera mamma mia, soffriva di depressione, quanto sei depresso!

La depressione sembra essere una forma di tristezza molto forte che certe volte ci vai all’ospedale e certe invece ti annoi solo, certe volte te la risolvi scannando qualcuno. In ogni caso, è una condizione di grande tristezza, e patema, e averci a che fare con il depresso pare essere fonte di sventura.

Per capirci qualcosa, propongo di tornare alle regioni da cui la parola viene presa in prestito nel senso comune, e capire come viene usata da psicologi e psichiatri e individuando subito due usi diversi afferenti a significati relativamente diversi.
C’è un primo uso, classico e preciso, per cui depresso è un soggetto che ha un tono dell’umore molto triste se non tetro, che non ha voglia di fare molte cose, che non sembra provare reazioni forti né in un senso né in un altro, che ha uno sguardo fortemente pessimista su tutte le cose che indaga e di cui prova a occuparsi. Quando la depressione è molto grave provoca una sostanziale incapacità di agire, e uno stato psicologico penoso che si avvicina alla disperazione. La condizione è biologica, ha spesso una matrice genetica ormai assodata dalla ricerca scientifica, e se ha delle cause esterne a strutturarla o a diciamo solidificarla, sono cause profonde, antiche e importanti – non singoli traumi ma esperienze altamente formative della prima infanzia: per capirci, una persona molto depressa che fa un figlio in primo luogo può trasmettere un assetto genetico che rende il figlio vulnerabile alla depressione, ma in aggiunta è un genitore depresso che espone il figlio alla propria depressione, per esempio non ascoltandolo, per esempio non accogliendolo, per esempio costringendolo a essergli da genitore a sua volta. In ogni caso, una depressione grave non ha cause reali in occasioni di vita anche importanti. Una depressione grave può essere risvegliata invece, da una di queste cause.
In secondo luogo – in riferimento a questa prima definizione clinica del fenomeno, quando sui giornali trovate scritto che certo tizio ha ammazzato moglie e bambini – oppure una colf poi decapitandola, perché soffriva di depressione, state leggendo una bestialità. La depressione da sola non ti fa ammazzare proprio nessuno – escluso, purtroppo chi ne soffre, ossia c’è un discreto rischio suicidario– anzi la depressione ti porta proprio lontano dal fare una cosa del genere, essa nasce prima di tutto come patologia del tono dell’umore, anche se facilmente si accompagna ad altre diagnosi: le persone che hanno un problema psichiatrico consistente, per esempio, nello spettro dei disturbi di personalità hanno degli ottimi motivi per essere anche depresse – ma quando compiono dei crimini efferati, più che mai nei confronti di persone molto importanti della propria vita – c’è qualcosa che non va nei loro processi logici, nel loro modo di gestire mentalmente ed emotivamente gli oggetti importanti della loro vita, non nel tono dell’umore con cui pensano alle cose.

Questa prima accezione della depressione, in ogni caso, si adatta più specificatamente agli adulti, e bisogna stare molto in guardia quando comportamenti simili si verificano durante l’infanzia. Nell’adolescenza infatti sono quasi normali, e fanno parte dell’armamentario con cui si affronta psicologicamente l’oneroso processo della trasformazione, anzi, vista da una certa prospettiva, il comportamento depressivo che tanto spesso si riscontra nei ragazzi giovani, è una sorta di conquista, un’occupazione emotiva dell’esperienza del pensiero, del negativo, del malinconico, è una tristezza che se anche travagliata entro certi limiti rappresenta un passaggio sano, e che testimonia l’ingresso di una auspicabile quanto necessaria capacità digestiva del lutto – nel caso specifico, il lutto dell’infanzia che si perde, del corpo che si trasforma, di una leggerezza a cui non si potrà tornare più. Ma quando in un bambino piccolo compaiono fortissimi comportamenti depressivi – che somigliano alla depressione degli adulti, bisogna stare molto attenti – perché fisiologicamente quello non è un comportamento infantile, e non si tratta di semplice depressione. Un bambino molto imbambolato, molto poco attivo, spento, come un adulto oltre alla depressione deve avere qualcosa di altro, e ha una ragione in più per essere portato da uno specialista, che sia anche neuropsichiatra. Quando i bambini sono depressi, infelici, preoccupati, hanno bisogno di agire questo umore triste e i pensieri a cui si collega: e allora è facile che sia un bambino iperagitato, frenetico, o con comportamenti insolitamente aggressivi. Secondo alcuni psicoterapeuti infantili, le forme conclamate del celebre disturbo da deficit e attenzione e iperattività, non sono altro che le forme della depressione patologica dei più piccoli.

E questo ci porta a capire il secondo modo con cui gli addetti ai lavori alludono alla depressione, come a indicare una sorta di radicale psichico che produce comportamenti che non sempre combaciano con la mortifera immanenza della depressione maggiore ma a cui ci si riferisce ugualmente con il termine depressione, o con la formula “fondo depressivo” – questo soprattutto nell’ambito della psicologia dinamica ma anche nell’ambito psichiatrico quando ci si riferisce ai disturbi bipolari o ai comportamenti di tipo maniacale. In questo secondo modo di usare il termine, la depressione è un sostanziale pensiero di fondo, negativo, autodistruttivo, molto sfiduciato su di se e sulle proprie possibilità, anche molto aggressivo e rabbioso, a cui la persona può però anche reagire quasi come fanno i bambini, accelerando molto, facendo molte cose, rincorrendo disperatamente l’umorismo, il piacere agli altri, in un palcoscenico infinito, che all’infinito ha l’oneroso compito di pagare il debito interno, di compensare, e anche di scappare dal ricatto mortale del polo depressivo. Per certi clinici, anche l’ansia è una soluzione diversa del ricatto depressivo, vuoi diversa da un punto di vista neurofisiologico – perché l’ansia coinvolge altri circuiti e non a caso se un farmaco agisce sull’ansia fa danno sulla depressione e viceversa – sono quasi disposti su un asse – vuoi da un punto di vista psicodinamico, ma di fatto la persona ansiosa è qualcuno che negozia un’angoscia su un tavolo delle trattative esterno a se, occupandosi parossisticamente di cose pratiche, di paure possibili, di questioni che sono in realtà la gruccia che porta mali privati interni e intonsi. Facile che questi mali intonsi abbiano il colore basico della depressione, di una scarsa stima di se, di una sorta di disfattismo psichico a cui bisogna adattarsi – certo non con quel carico di aggressività che connota la depressione maggiore, e che rende così difficile alle persone stare accanto a chi ne soffre.

Perché il fatto che la depressione ha spesso, suo malgrado una connotazione profondamente aggressiva. Essa è tale perché per autosostenersi ha bisogno di avvelenare i pozzi, essa vince perché il bilancio della disistima di se deve passare dall’abbandono dell’altro e quindi, capita che la persona che soffra di depressione, senza volerlo, senza intenzione scientemente cattiva, agisca una forte aggressività soprattutto con le persone che gli sono più care – svalutandone le azioni, oppure nell’atto stesso di proporre sempre il proprio inesauribile scontento fino a ferirle con sarcasmo, al fine tutto psichico e spesso inconscio di elicitare quella stessa aggressività ed esasperazione nell’altro, che sancisca il senso di solitudine, di incomprensione, di ineluttabile destino. In questo senso è terribilmente difficile aiutare una persona depressa – e quando la depressione davvero dilaga, per come la vedo io almeno, è assolutamente prioritario associare una psicoterapia a una cura farmacologica – un binomio che, da entrambi i punti di vista è molto pericoloso spezzare, ma che se si mantiene può dare ottimi frutti. Il fondo depressivo infatti, può cronicizzare in una forma maligna che poi alla fine attacca nel suo circuito tipico anche la stessa possibilità di cura, sia per l’ossessività dei contenuti che presenta, sia per la necessità di svalutare il terapeuta, e allo stesso tempo, davvero il tono dell’umore rimane a lungo insostenibile senza farmaci. Ma la psicoterapia aiuta far capire la funzione omeostatica del sintomo depressivo, e sulla lunga durata dare gli strumenti per riuscire a scardinarlo. Certo si tratta sempre di interventi di cura che richiedono tempo.

 

 

Adolescenti su internet

 

E’ da diverso tempo che incontro persone, preoccupate per quello che può succedere ai loro figli, quando vanno su internet. Alcuni magari mi chiedono lumi e consigli, oppure discutiamo insieme da genitori, perché in effetti la preoccupazione è ben comprensibile: non abbiamo un passato a cui rifarci, siamo i genitori zero dell’epoca digitale, non ci sono ricordi a cui fare affidamento per cui dire, faccio come mio padre, non faccio come mio padre, men che mai nonni da tenere a mente. In aggiunta a questo essere al punto zero di una esperienza, c’è anche la natura stessa del momento preadolescenziale o adolescenziale dei figli, che di per se è sempre problematico per i genitori: con questi figli che si avviano a esplorare nuove regioni esistenziali fuori dall’infanzia, che per farlo devono mettere in discussione l’autorità e per farlo meglio, devono istituire una nuova regione se non per tutti, per molti nuova: il privato, il segreto, che non è più il non detto di un gioco o di una effrazione di piccolo verso il grande, ma del grande nascente, di grande antagonista a un altro grande.

Il grande – che non smette di dover stare al suo posto come diciamo, guardiano della soglia, teorico del confine, fonte di protezione, altro che deve essere sfidato e metaforicamente, prima o poi superato. Ma come si fa, chiede il genitore, quando di mezzo c’è internet?
Hai questo figlio che fisicamente sta a casa, nella sua stanza, nella famiglia. Lo vedi che non fa cose per le quali sei programmato alla sorveglianza e al controllo, ma guarda un oggetto, per molto tempo, che è un campo di interazioni, di informazioni, di esperienze, a te genitore del tutto ignote, con persone del tutto ignote, e ti senti come se ci avessi il figlio che dentro casa ti parte tutti i giorni per un viaggio a destinazione ignota. Come si fa? E se incontra dei malintenzionati? E se si espone a dei pericoli? E se convincono il figlio a fare delle cose pericolose? Ma poi, su questo internet, non ci starà troppo?

 

Io credo che per trovare una bussola su questi temi, occorra prendere in considerazione diverse prospettive, che organizzerei in quattro punti.

– edificazione della relazione prima dell’arrivo su internet
– riflessione su cosa è internet e l’azione social per noi, con conseguenze nel parlarne con i figli
– Eventuale osservazioni su un uso anomalo della rete, che non sia la spia di un malessere di altra natura. Soprattutto un uso prolungato e pervasivo

Molti problemi che si vengono a creare in adolescenza, spesso sono diciamo la naturale prosecuzione di modalità relazionali che sono cominciate molto prima. In questo momento storico in cui la genitorialità non è assolutamente aiutata, incoraggiata, anche positivamente celebrata ve ne sono alcune che sono più ricorrenti. Per esempio, molti genitori fanno molta fatica a essere contenitivi con i propri bambini, con le loro grandi energie, fanno fatica a imporre delle regole e a volte usano dei giochi o dei dispositivi come oggetti sostitutivi, che distraggono i piccoli e li calmano, senza però contemplare l’ipotesi di circoscrivere il tempo di quell’uso, cioè di farsi contenitori per quel contesto. Certamente noi adulti che usiamo molto computer internet e social, non possiamo permetterci di demonizzare linguaggi che utilizziamo per primi, e di cui beneficiamo, ma quando i bambini sono piccoli e credo anche per il bene di noi stessi, dovremmo proteggere in noi e nei nostri figli la possibilità di scegliere, la possibilità di saper entrare o meno in un linguaggio, di saper fare e non fare. Personalmente per esempio, mi terrorizza la subalternità che abbiamo tutti rispetto al mondo tecnologico, quanto affidiamo alla techne della nostra quotidianità, banalmente quanto del nostro tempo libero può essere confiscato. E quindi una sorveglianza su tempi e limiti, esulando dallo sciocco bivio del tutto o nulla, è una buona profilassi – anche per questioni non strettamente collegate alla rete. Dire: puoi stare a fare un certo gioco, per un tempo limitato e solo se hai svolto queste altre cose, o sei in queste circostanze, è una metafora di contenitore interno che diventerà spendibile per il bambino in altre circostanze. In generale io trovo un uso moderato delle regole (che ne so: stai seduto a tavola fino a che noi non ti diamo il permesso di alzarti, non si gioca a pallone in cortile dopo pranzo la domenica che la gente dorme) un viatico perché le persone possano un domani darsele, per portare a termini dei lavori, per abitare dei contesti in cui ci sono delle regole e infine, per metterle al centro e decidere di violarle in nome di un interesse e non di una dipendenza – e quindi, gioca pure con il video gioco dall’ora x all’ora y può avere la stessa funzione. In aggiunta a questi importanti vantaggi per la vita da adulti, c’è un vantaggio per la transizione in adolescenza – nel senso che l’adolescente comunque avrà rispetto di quel contenitore e di quel tuo ruolo che hai edificato nell’infanzia – riconoscerà come pregressi certi ruoli relazionali . E’ difficile invece imporre regole quando prima non lo si aveva fatto, perché all’improvviso si ha paura delle conseguenze. Basta con questo telefonino!

Un’altra questione che si edifica nell’infanzia e poi si materializza con forti significati in adolescenza, è il dialogo con i figli, l’abitudine al confronto con delle esperienze. Con i figli piccoli può pure sembrare poco interessante, magari si lavora molto e non si ha tempo, si fa fatica, ma quella cosa li di parlare delle cose dell’esperienza in una specie di asimmetria addolcita, una quasi parità, è un buon trampolino di lancio. Metaforizzando gli studi sull’attaccamento, una specie di base sicura, ossia un posto relazionale dove non c’è né un genitore ansioso, né uno controllante a cui ritornare quando si esplora il mondo e con cui parlare delle cose che si incontrano. Siccome l’adolescenza è una esplosione che avviene su un territorio pregresso, sarà ben diverso se esplode in un territorio dove si è seminata una relazione reale, e dove invece non c’è stata. (Conosco per esempio una madre che ogni giorno per esempio chiedeva ai suoi figli usciti dalle elementari: ditemi la cosa più bella e la cosa più brutta che vi è successa oggi! Mi sembra un buon esempio di edificazione della relazione). Questa cosa è importante, per internet e non solo. Quando l’adolescenza arriva, vuole mettere tutto per aria, ed è difficile stabilire un contatto allora. Se c’è la relazione solida prima, quella arriva fa un casotto ma come dire, rimane su una base solida. L’adolescenza, è una energia che forza le pareti di casa, e un buon dialogo è la porta di casa dove si può tornare.
Il discorso ci riguarda, perché molto del fuori metaforico per gli adolescenti, è proprio dietro le porte del web.

Se queste coordinate che si creano nell’infanzia, rimangono in adolescenza, arriva un momento in cui in tempi debiti di relax i figli esplorano la rete, tramite i canali che vengono suggeriti dai loro pari. Quindi internet si, ma non necessariamente i nostri siti, i nostri canali, i nostri social. Tuttavia, secondo me almeno, anche se non sono piattaforme diverse da quelle a cui siamo abituati, ci possono essere delle ricorrenze che sono utili, e secondo me una buona frequentazione della rete e dei nostri social aiuta nel parlare della rete degli adolescenti e dei loro scambi.  All’adulto si pongono due sfide più frequenti, una che concerne i contenuti, e una che concerne le relazioni virtuali. Niente è strettamente sorvegliabile, perché l’effetto è anche controproducente. La maggior età – dice Kant in quel breve saggio fondamentale che è che cos’è l’illuminismo – si impara con l’esercizio. Però possiamo parlare con i figli della nostra esperienza in rete, per esempio sul tema dell’affidabilità delle fonti, dell’affidabilità delle informazioni che abbiamo sulle relazioni, e comunicare a loro in un piano che è sempre meno un falso inclinato, quelle che nel tempo sono diventati i nostri criteri e che in passato sono stati i nostri dubbi. Per esempio, io ho fatto un lavoro sulle truffe romantiche in rete, e ho raccontato ai miei bambini ridendo con loro, su che base trovavo quei profili falsi. Loro così hanno imparato che ci sono dei profili falsi, e quali sono le cose che bisogna andare a vedere, non solo nelle informazioni, ma nella qualità degli scambi. Ognuno di noi, specie quelli di noi che hanno una esperienza di rete e di social, avrà una serie di criteri suoi spendibili, e anche di esperienze, e secondo me è interessante parlarne con i figli, che hanno una dimensione social più spiccata ancora della nostra. Non importa se useranno le stesse piattaforme, perché la questione è trasversale, i parallelismi possono essere molti. In generale io credo che i genitori che hanno un uso della rete, in questo senso sono avvantaggiati perché possono condividere un’esperienza e ragionare insieme sui criteri di affidabilità di cose e persone.
Se non si ha esperienza di rete, ci sono comunque delle cose che comincio a considerare trasversali, perché la rete è una trasposizione virtuale dei funzionamenti umani, e quindi si può ragionare molto ugualmente. Per esempio, si può ragionare insieme sui passi e le valutazioni che facciamo quando decidiamo di frequentare delle persone, o processiamo delle informazioni, come rendere perfettibili quei processi? E come applicarli in rete? Se vedi uno sull’autobus che ha un cappello come il tuo ci vai subito a cena? Si no perché?
Una cosa da fare insieme.

Questi accorgimenti, potrebbero non sedare tutte le preoccupazioni e non eludere problemi eventuali. C’è un margine di ignoto che mi rendo conto è insopprimibile, così come capisco che internet è una nuova proposta sintomatica a basso costo energetico, per le risoluzioni di svariate situazioni problematiche. Può causare dipendenza, ma è una dipendenza priva degli effetti collaterali delle altre, può diventare una droga trasparente, molto accessibile, e meravigiosamente adattabile alla personalità di chi ne fruisce. E’ una droga su misura, perché tu cerchi il prodotto a te affine, e consumi solo quello, comodamente da casa tua. Come tutti gli oggetti che creano importanti dipendenze – anzi meglio direi persino di altri, diviene un cuscinetto tra se e gli altri, che impedisce la relazione, ma garantisce una relazione che sembra controllabile. Anche la dipendenza da internet ha il vessillo di “smetto quando voglio”.

Allora può succedere che se l’adolescenza arriva su delle questioni pregresse irrisolte, faccia da pettine che mostri i nodi, la persona si trovi in un enpasse, e si ritiri dalle sfide che gli si pongono davanti, e che possono essere molto faticose. E’ inutile qui generalizzare su quali possano essere, perché questa dello stare attaccati al computer o al telefono senza far altro, è un po’ come la febbre alta, un sintomo generico che può essere causato da molte e diverse questioni, storie personali. Fatto sta che quando brucia tutto e diventa difficile strappare il figlio dalla rete, no amici, no studio, niente, è piuttosto evidente che il problema non sta nella passione per il mezzo, ma in un terrore per la vita che bisogna curare.

Sinistra bene

Più volte da ragazzina, sono stata costellata nella rubrica dei radical chic o della cosiddetta sinistra bene. Questo naturalmente in primo luogo, per le mie coordinate di classe, piuttosto riconoscibili. Da adulta mi è invece capitato molto di rado, nonostante un certo virus, una certa malattia a cui faccio fatica a trovare un nome e di cui voglio parlare, sia diventata preoccupante ed endemica. Spero di non averla contratta fino adesso – ma mai dire mai – più si invecchia e più si è vulnerabili a questo tipo di morbo –certo temo di averne avuto qualche linea in qualche occasione – diciamo che spero che una serie di scelte mi abbiano protetta – oltre qualche nevrosi. Scelte professionali per un verso, ma soprattutto scelte relazionali. Senza scendere nel dettaglio, il mio matrimonio, gli amici che circondano il mio matrimonio, sono un potente antidoto: molti di loro non vengono dalla mia landa di provenienza, ma da regioni direi antitetiche, oltre che dicevo una certa vocazione al conflitto con le appartenenze e una all’innamoramento delle lontananze. Sono comunque – vulnerabile. Ho visto i migliori della mia generazione – ma anche di quella precedente, cedere per debolezza alle sirene del conforto di classe e vengo come dicevo, proprio da quelle coordinate : un dirigente statale per madre, un libero professionista per padre. Io stessa oramai, svolgo un lavoro molto sinistra bene.
Parlo diciamo dall’interno di una zona di pericolo, il pericolo della sinistra bene non come posizione materiale, ma come posizione mentale.

Esiste un insieme di competenze e agnizioni che sono state lunghe da acquisire e che hanno oggettivamente un loro pregio, sono l’esito di un’eredità culturale ed ideologica e che ricorrono frequentemente nell’area di sinistra. Erano nate perché ne beneficiassero tutti soprattutto perché erano ( e sono) modi per far , guadagnare potere a chi non l’aveva (e non l’ha: ma la parola è sempre potere) ma sono diventate ora, una sorta di gergo che in certi ambienti assume una connotazione particolare. La consapevolezza per esempio che la cultura è un valore, che studiare porta a un vantaggio sulle cose e sugli altri, la consapevolezza per cui una certa posizione di classe è un vantaggio, mentre un’altra è uno svantaggio, ma anche una certa consapevolezza di essere situati in una posizione, osservatori condizionati diciamo, è oramai un appannaggio tipico. Poi però, quando la persona di sinistra abita le lande di una solida borghesia – ha una casa di proprietà senza mutuo, un buono stipendio – da questi assunti derivano dei corollari che diventano insieme di difficile gestione: per esempio derivata dall’importanza della cultura e dello studio c’è tutta un’estetica raffinata e nobile del bello: sinistra bene come posizione di classe è spesso, bei libri, buona musica, persino un approccio intellettuale al buon vino, il che però va spesso a cozzare con i corollari della consapevolezza di classe, per cui se studio e censo sono in una posizione di privilegio, studio e censo sono una colpa da occultare se non uno strale da lanciare. Quindi bere buon vino è insieme vanto e colpa, leggere buoni libri virtù e vergogna. Il conflitto di interessi tra corollari ideologici, è un ricorrente strumento di insulto, per la persona di sinistra specie in questo periodo di grave crisi, per cui sopravvivere a essa, è ipso facto un peccato imperdonabile.
Uno è già dalla parte del torto perché non è il cassintegrato di una ditta fallita, figuriamoci se ci si ha un abbonamento a teatro.

All’interno della sinistra il richiamo al peccato originale di classe, è un insulto ricorrente. E’ interessantissimo constatare come, le sinistre del pd diano del radical chic a quelli per esempio di potere al popolo, o liberi e uguali e quell’altri facciano viceversa il simmetrico e opposto con quelli del pd, tutti presi rincorrere una verginità che magari hanno tradito in altri contesti macchiandosi nella vita materiale degli stessi peccati, ma credendo che il loro voto sia la prova di un’immunità mentre quello dell’altro la prova di una zozzeria, quando vorrei dire a beneficio di tutti che no, la vicinanza reale a quel collettivo interclassista che dovrebbe essere l’atteggiamento emotivo necessario, la premessa di fondo, non lo garantisce il voto. Il virus di cui parlo è in fondo, nient’altro che il classismo di sinistra, qualcosa che è proprio di una certa fetta sociale, ma che non si identifica completamente con essa, piuttosto con una sua deriva, con una patologia del pensiero e dell’affetto e in qualche caso dell’azione.

Il vocabolario treccani spiega il termine classismo, con un doppio significato. Il primo afferisce al classismo come lettura della società come divisa in classi in conflitto tra loro, un conflitto che Marx avrebbe considerato risolvibile con la dittatura del proletariato. Il secondo, come una tendenza di singoli o gruppi a difendere gli interessi della propria classe di appartenenza, nel linguaggio comune di solito ci si riferisce alla classe dominante, ai vertici cioè, della piramide sociale o almeno delle mezze altezze. Io però penso a un altro tipo di classismo, che in effetti a sinistra è molto diffuso ed è la patologia endemica della sinistra bene, questo classismo parte dal presupposto di una potente asimmetria potere – in termini di censo, posizione, soldi, cultura, e non ha alcun bisogno di difendere i propri interessi di classe, perché li sente piuttosto al sicuro, anzi dichiara in assoluta buona fede di promuovere l’interesse dell’altro, della classe che non gli appartiene, perché quella asimmetria non è mai del tutto azzerabile, e lui o lei, sarebbe davvero contento di vedere un povero diavolo essere un po’ meno povero diavolo. Volendo anche diavolo del suo stesso livello, perché questo tipo di classismo davvero non teme niente, dal punto di vista economico, per questo alligna a sinistra anche tra persone per tanti aspetti anche rispettabili. Diciamo, che a volte ecco non è proprio veramente interessato e questo declina in una sottospecie ibrida di conflitto di classe.
Il fatto è che la redenzione del povero, anche totale, non gli toglierà mai i suo lusso irrinunciabile, che è il diamante della magnanimità.

Questo è il tremendo virus della sinistra bene: la magnanimità asimmetrica, che a volte, in momenti do distrazione sfuma in altre modalità egualmente perniciose: come il paternalismo, e certe livorose supponenze, e scandalizzate irrisioni. Tutte operazioni che si fanno garantite da un atto pregresso che dovrebbe fare da passaporto. E’ molto sinistra bene compiacersi come tacchini dell’ascesa sociale di un brillante accademico, così come raccontare con sussiegosa competenza antropologica e stizzito fastidio come sono i poveri che si ha avuto la ventura di osservare da vicino in una vacanza estiva un po’ troppo a buon mercato, perché siccome essere di sinistra vuol dire essere studiati sulle variabili del reale, e dei subalterni che è etico aiutare, sporadiche incursioni nelle lande del nazional popolare sono spacciate per dottorati in antropologia culturale. Io so come sono i poveri veri! E nel raccontarlo rinnovo la mia posizione asimmetrica di superiorità morale. Io mica come te, io so come sono i poveri veri. La gente autentica, e segue un ritratto che può oscillare tra l’oleografico e lo spregevole.
La rete è per questo virus, del complesso di superiorità con derivazione di classe, anche se sotto mentite spoglie, meglio di una colonia di zanzare, meglio di un acquedotto infetto. Ci sono pagine che sono abbeveratoi di complessi di superiorità. Il signor distruggere per esempio, è un’ paradigma dell’istigazione a delinquere per la sinistra bene e anche benino. Riporta stralci di conversazione dove qualcuno, in genere una donna dice qualcosa di soavemente ignorante, soavemente volgare, soavemente ingenuo, che legittima i bassi istinti asimmetrici di qualsiasi lettore che può sentirsi migliore, in quanto colto, ricco, bene educato, informato, di questo personaggio sognato che è il bersaglio del signor Distruggere. Il suo essere sinistra bene e conoscitore del reale, ancorché essere sinistra bene e preparato sulle cose della scienza, i vaccini, l’allattamento, quello che preferite lo redime nello spacciare per indignazione quello che invece è molto più immorale volgare e gretto, l’irrisone del povero, del basso, dell’assenza di strumenti, fino alla manipolazione del dato di realtà. Ma cara, mi ha detto un mio contatto Facebook – sono stata or ora in una spiaggia popolare! E sono proprio così! Come la signora Elisabetta del signor distruggere.

Ma d’altra parte tutto lo stesso Facebook una cloaca dei peggiori sintomi della sinistra bene. I post fatti con le foto degli errori altrui al mercato della frutta, della chat copiata a tradimento, di quello che fa l’errore di matematica, dei ministri con la scuola superiore, fino alle prose delle eroine wasp della sinistra bene, che scrivono con disprezzo in modo molto brillante di due terzi dell’umanità tutta, salvo poi dichiarare eterna ammirazione per una signora con una borsa ben fatta, poco importa di cosa abbia combinato in quanto personaggio pubblico. La devozione al lusso estetico, d’altra parte per la sinistra bene è il correlativo femminile del vino per i maschi.   Mi è capitato persino di leggere, che il cattivo gusto di una donna in politica era la prova del suo cattivo gusto nell’etica.
Molte di queste cose sono dette, in teoria per il piacere narrativo della boutade, dello scandalizzare, l’épater la bourgeoisie  che piace sempre ai bourgeois, ma che serve prima di tutto a rinfrancarli, a darsi pacche sulle spalle starnazzando come galline, anche quando la teoria sono degli sguardi gentili. Ho letto il ritratto di una persona anziana di un paese italiano qualsiasi, che doveva essere tutto un pensiero gentile per la gente povera e semplice, che era descritta come ignorante, rozza, che non si fa domande sulla sua vita privata e mai se ne è fatte, che non ha cura di se ed è presa dalle solite antiche invidie.
(Bisogna dire, che tutte queste operazioni con le femmine come complemento di argomento sono sempre più frequenti – discorso a parte)

La questione diventa drammatica quando al pensiero gentilmente magnanimo corrisponde una linea d’azione. Un grande classico sinistra bene è infatti: considerare la cultura un bene preziosissimo, e l’aiuto dei più deboli un altro bene preziosissimo per cui, succede che per la medesima sinistra bene, lavorare nella cultura, o lavorare nel sociale, siano delle cose nobilitanti per te, e il lavoratore di questi contesti deve mangiarsi il prestigio e non il pane, per cui moltissime agenzie della cultura fanno lavorare gratis o con contratti che fanno accapponare la pelle, moltissime agenzie del sociale fanno lavorare gratis o con contratti che fanno accapponare la pelle, e si cade in una sinistra cattiva infinità, qui viene il bello, perché le persone che lavorano in questi contesti, per poterlo fare devono a loro volta, nove volte su dieci provenire da una borghesia che in qualche modo deve essere ancora in grado di sostenerli benché adulti, se no devono fare un doppio lavoro, ugualmente per ricoprire quei ruoli devono essere molto ben preparati e avere un alto titolo di studio, e quindi, come ultimo baluardo per un ego alla canna del gas non rimane che un nuovo elitarismo, solo molto più incazzato: non c’è sinistra bene più sinistra bene, della vittima della sinistra bene: il nostro arrabbiatissimo precariato intellettuale, che non riuscendo a procurarsi una casa, e a mettere su famiglia, si riscatta con la supponenza, mi diverte molto sentire quanto si da dei radical chic a giovani intellettuali di spicco, la cui boria espressa con lessico forbito è considerata prova di nobili lombi, e invece io magari li conosco di persona, e so che so’ figli di operai, maestre elementari, cose così.

Sono naturalmente queste, le battute di chi ci è passato. Di chi ha lavorato in une delle librerie più sinistra bene del centro storico di Roma –all’attivo se non erro anche una vertenza sindacale – che mi propose di pagarmi con due libri dopo un mese di lavoro per Natale, o di chi ha ricevuto come offerta di collaborare per una rivista coltissima e molto chic, che le disse, dacci cento euro al mese, costa meno di una palestra. O anche di chi ha pensato di lavorare nei centri antiviolenza (all’epoca: 450 euro al mese per 36 ore settimanali oggi mi pare che si raggiunga il cifrone esagerato di 900) o anche di chi ha svolto un qualche migliaio di ore di lavoro gratuito come psicoterapeuta tirocinante, mentre lo stato intascava ticket e via di seguito, nella carriera estenuante tipica delle persone di sinistra che vorrebbero fare un lavoro coerente con il loro essere di sinistra – sempre che ti paghino quelli di sinistra, i quali in generale pensano che la cosa bella sia più importante di pagare chi lavora nella sua realizzazione. Ricordo ancora con raccapriccio ma preoccupazione per il dilagare, questa volta politico del sintomo, il leader maximo della Sinistra Bene Dario Franceschini, proporre ai lavoratori dei beni culturali di spendersi gratis. Così come ricordo lo scoramento che provai, già vent’anni fa quando la cosa si andava edificando, il mio amico di sinistra scrivere gratis per la nota testata di sinistra, mentre il mio amico di sinistra che scriveva sulla nota testata di destra, veniva regolarmente pagato.

Così come ho ricordato, in tempi più recenti la sintomatica e per me sconvolgente polemica sulla proposta cinque stelle, che non sono stati poi in grado di mettere concretamente in pratica, delle chiusure domenicali dei negozi. Con la sinistra bene che diceva, eh ma in una metropoli ammodino i negozi sono sempre aperti, senza minimamente farsi due domande sulle attuali condizioni contrattuali dei lavoratori del commercio, sugli straordinari non pagati che sono all’ordine del giorno, sull’enorme sommerso nel settore, con persone proprio non contrattualizzate, di contro anche senza farsi domande sui vincoli fiscali che inducono i datori del lavoro nella piccola impresa a stringere la cinghia. Il reale, per la sinistra bene che cade nella patologia della sinistra bene, è una questione di gita al mare, e pensierini.

La questione dei lavoratori del commercio, è analoga a molte altre questioni che la sinistra bene ignora o sfiora in superficie. Quando si parla di criminalità la sinistra bene dice, eh mica è vero che è aumentata, questo perché il tema caldo della sinistra bene è l’immigrazione, per diversi aspetti. Siccome a destra il tema è utilizzato per sdoganare il razzismo, la reazione da questa parte è sminuire il problema per togliere argomenti al razzismo. Il che, alle persone che vivono contesti abbandonati dallo Stato, dove si è continuamente esposti ad angherie e ad assenza di tutela, deve un po’ suonare come quando alle donne femministe dicono, di che ti lamenti, pensa a tua nonna che non poteva uscire di casa. Così come tutti i temi importanti di altre componenti della società civile di cui si dovrebbero in teoria tutelare gli interessi, rimangono come sfiorati, aerei sentiti in maniera parziale. In questo, le risposte emotive secondo me sono indicative: più la persona di sinistra è afflitta dalla patologia della sinistra bene, più si avvertirà una specie di disagio quando parla di disoccupazione.

Di contro, la persona di sinistra bene, è molto coinvolta nella questione degli immigrati. E’ un tema davvero complicato, almeno per me perché le storie a cui stiamo assistendo sono terribili e io me ne sento molto chiamata, necessariamente chiamata. Perché sono terribili, perché non si può non sentirsi coinvolti, nel mio caso anche perché l’esperienza dell’ebreo si accende quando vede altre storie di discriminazione. Ed è così per tante persone ed è giusto. Ma le coordinate di classe e gli stili di vita della borghesia di sinistra mettono un carico in più. La persona di sinistra bene affida una persona di casa, cara, con altissima probabilità a un immigrato,spesso anche le pulizie di casa, o la cura di un infante e siccome può avere delle miopie ma non è cattiva, capace che ci intesse una relazione reale, di affetto, di amicizia, di gratitudine, anche di protezione in un mondo difficile – si stabiliscono quelle relazioni complicate che – non la ringrazieremo mai abbastanza – per esempio Toni Morrison aveva descritto di già nel bellissimo Paradise. Si creano strane amicizie su dei complicati piani inclinati, che possono durare decenni e in qualche caso rivelare qualche doloroso ribaltamento, perché le dinamiche di classe rimangono in agguato. Oppure comunque, la vicenda dell’immigrato lontano che cerca di arrivare, del bimbetto che può affogare, è un estremo emotivo, narrativo, potentissimo che catalizza, ma la cui lontananza garantisce una certa astrazione. Non si va tutti a Lampedusa, Sinistra bene o meno bene o malino. Questo è un fatto.

Questo post per me è molto faticoso perché diciamo junghianamente è un post sulla mia personale Ombra politica. Su ciò che so rischio sempre di diventare, da un momento all’altro. Ma anche di riflessione, perché questo virus al momento, nella percezione esterna sembra essersi impossessato dell’identità della sinistra. Esistono ancora moltissime persone che NON sono sinistra bene o borghese, e quando capita di descriverle, siccome sono piuttosto assenti da qualsivoglia dibattito pubblico o di rete, tutti dicono che no non è vero: a sinistra sono tutti borghesi, e gli altri votano tutti cinque stelle o Salvini. D’altra parte però, è vero che c’è stata una sorta di mutazione prima che della sinistra, di tutta la società civile, e secondariamente anche della sinistra. Ora non posso parlare anche di questa cosa, perché il post è molto lungo, ma questo è un dato di fatto, che si riscontra anche vedendo le distribuzioni di voto alle elezioni – per esempio con il pd che sfonda al centro storico di roma e la periferia no mentre i partiti che si candidavano a essere meno sinistra bene non hanno proprio sfondato da nessuna parte – né io sono così masochista e antistorica da considerare un dato di partenza – una colpa. Però penso che abbiamo un discorso da fare su una sorveglianza di lessico mentale, non verbale, emotivo prima che retorico, riguardo alle cose per cui è vero che sulla carta non vengono avvertite come oggetto di conflitto, ma neanche come reale oggetto di interesse. Perché ora la situazione è che la destra fa degli interessi di classe, una specie di piccola borghesia gigantesca che abbia vantaggi per cui i più poveri si sentono nobilitati, e i più ricchi fanno finta di doverne essere inclusi per trarne profitto (vedi flat tax) mentre noi alla fine ci abbiamo una sorta di disinteresse di classe, non sembra che ci sia insomma un interesse reale, per il tessuto del paese reale. L’unico momento di autenticità riguarda l’immigrato. Qualcosa qui non funziona.

Prospettiva d’insieme

Tenne un diario per moltissimi anni, questo diario aveva un nome. Da ragazzina era femmina questo diario, e pieno di entusiasmi e impavidi narcisismi, poi era diventato maschio, forse di orientamento sessuale incerto, ma sempre a quadretti, sempre acquistato in un negozio del centro che poteva fornire una serie di specifiche credenziali in fatto di cartoleria – e in questo diario, gli impavidi narcisismi s’erano indubbiamente incrinati. Il diario maschio era grande, con trecento pagine, e siccome lei aveva un disturbo, durava a stento un anno. (Ci scriveva più volte al giorno, registrando l’elettrocardiogramma di tutte le sue storie d’amore – ma anche un gran numero di immodeste velleità speculative – fino a che le sue nevrosi non riuscirono a vincere contro uno che gli venne addirittura ad abitare a casa – il massimo della loro disfatta sarebbe stata la fede al dito- e lei aveva sempre trovato il lucchetto puerile.
I volumi erano archiviati per numero, e ne sarebbe mancato solo uno.

Era infatti successo, intorno al nono volume, che fosse andata a Parigi, si fosse recata in un bistrot, avesse poggiato la borsa sullo schienale di una sedia, si fosse messa a parlare con un amico, un ladro le avrebbe preso la borsa con il diario dentro, le prime cento pagine scritte sul tema centrale di una vicenda amorosa alla sua definitiva conclusione, probabilmente la medesima di cui parlava al tavolo con quell’amico, il quale c’era da dire l’aveva guardata con serietà e abbassato il mento con gravità. Era la prima volta che uscivano insieme, non potevano per nessun conto definirsi amici, assolutamente imponderabile l’ipotesi di colleghi, l’archetipo chiamato in causa sarebbe stato quello dello zio, forse persino del nonno: lei era intorno ai vent’anni, lui intorno ai settanta. Ora pensa, che se il ladro francofono capiva quello che leggeva, magari in un momento di curiosità sapeva di cosa stessero parlando, lei e il suo futuro amico, collega, e magari testimone di nozze).

Dunque la sua collezione di Diari, l’opera omnia delle sciocchezze commesse, ordinate per anno, con una estetica rotazione di colori nei dorsi delle copertine, pensa ora, ha un buco. Un buco di cento pagine, il cui destino le è ignoto, e che segna una specie di fuoriuscita selvaggia di parole private, di viscere e digestioni, di quando era ragazzina e si supponeva avesse uno stomaco forte, e invece tutt’altro. E pure delle cronache ci devono essere – e per quelle prova una stizza ancora maggiore.
Ci si ricorda facilmente quanto si è stati stupidi, è più difficile tenere a mente la regia delle occasioni in cui lo abbiamo dimostrato.

Tuttavia, siccome la grafomania come tutti i sintomi porta pur sempre a dei vantaggi, riconfigurando significati talora latenti talaltra francamente inesistenti. ma che importa, si è affezionata a quel buco della testimonianza, che le sembra una porta tra mondi. Per un verso pensa che il suo diario, con tutte le domande fisiche e metafisiche dell’epoca, possa essere diventato, un comodo supporto per un tavolo, o anche nelle pagine ancora non scritte, l’ideale per la lista della spesa, o anche, una discreta palestra per l’apprendimento dell’italiano con i fascicoli del giornalaio, oppure, aereoplanini per i figli di un ladro francofono, o anche, pane per i topi della Senna. Dall’altra pensa, che mentre consegnava la sua vita privata al ladro francese e i tormenti di un amore perduto, cominciava a parlare con questo suo amico vecchio, che le avrebbe comprato una borsa nuova, che avrebbe sorvegliato la sua vita tutta per molti anni a venire, e ora che ci pensa, cioè fino all’esistenza stessa del diario medesimo, tutte i suoi studi avrebbe seguito, i primi passi nel lavoro, e il complicato lavoro di usuramento della sua falange nevrotica, e quindi le terribili battaglie sentimentali degli anni a seguire, fino a quando il diario era stato definitivamente interrotto, e lui – sarebbe morto.

Tutte  queste cose in effetti lei  le aveva trascritte, , quindi diciamo quel buco nella successione dei suoi diari, aveva anche a fare con un ingresso nella sua vita, di parole di un tipo che escono, e di un altro tipo che entrano. E ora vorrebbe onorarlo, mettendo i diari insieme l’uno dopo l’altro in uno scaffale, ora che con coraggio li ha riletti tutti, li ha diciamo sopportati, aiutata però con le parole che le ha insegnato l’amico ecco, quelle parole che ora sono il suo lavoro, e vorrebbe lasciare lo spazio vuoto, per quel buco vitale che ha migliorato la sua vita.

(Ciao Luigi mi manchi, anche se – senti

qui )

 

Una metafora per la clinica

 

 

Comincerei questo post con un esperimento di scrittura clinica.
Una persona fa questo sogno. Sogna di trovarsi in mare, con la sua barca, a un certo punto sente le voci di alcune persone in difficoltà, piangono e urlano. Stanno affogando. Nel sogno, la persona si sente infastidita da quelle urla, gli mettono una grande angoscia. Pensa che se portasse sulla sua barca quei naufraghi, poi dovrebbe dare loro da mangiare e da bere, dovrebbe portarli a riva. Allora decide che non è il caso, e nel sogno li lascia affogare. Quando torna a casa, riceve i complimenti di suo padre, che gli dice – ho saputo cosa hai fatto, è stata una cosa buona. Per la verità il protagonista del sogno dice, c’erano dei bambini, a il padre insiste. E’ una cosa buona. Sai che poi non mi piacciono i bambini.

E’ un sogno che potrebbero fare molte persone, forse con maggiore frequenza quelle che hanno il problema di un femminile interno, un materno di scarsissimo aiuto, per esempio una madre che è stata gravemente depressa, e che ha lasciato il sognatore esposto a dei bisogni terribili e difficilmente gestibili. Potrebbe essere per esempio il sogno di un paziente che da bambino ha pianto molto a lungo, per mangiare, per dormire, ed è stato a lungo inascoltato. In questo deserto degli affetti, un maschile forte potrebbe essere rassicurante. Lascerebbe sparire i bisogni disturbanti, li farebbe affogare, e in cambio offrirebbe alla persone una identificazione rassicurante. Se questo sogno non è però raccontato a nessun analista, che potrebbe chiedere al sognatore o alla sognatrice, cosa proietta su quei bambini, i bambini naufraghi risorgerebbero per affogare nel sogno successivo, ma il padre interno direbbe che si sopravvive lasciandoli affogare, e quindi, il sognatore sarebbe condannato a una eterna cattiveria, che forse potrebbe tracimare in un passaggio all’atto, dal momento che nel suo inconscio il padre che li fa affogare è l’unica via di sopravvivenza alla tortura del loro pianto.

Se invece pensiamo a questo sogno, non come al sogno della specifica psicologia che lo produce, ma alla proposta simbolica e onirica proposta a un altro potenziale sognatore, con un curriculum familiare ed emotivo meno grave di quello ipotizzato qui sopra, ne dobbiamo sottolineare il potere seduttivo, perché ci sono molte persone che invece hanno diverse risorse interne da opporre a un padre infanticida, ma sono poco sviluppate, sono a bordo campo, sono in termini di processo di individuazione molto acerbe. Allo stesso tempo per queste altre strutture psichiche i naufraghi simbolici potrebbero essere degli adolescenti, o delle madri, o qualcuno che sa pure nuotare, o persino adulti che una volta salvati saprebbero fare delle cose. Ma siccome girano molte nevrosi, ossia patologie modeste, situazioni di modesta nevrosi, la soluzione proposta da questo sogno, è estremamente seduttiva. Perché dice, non stare ad ascoltare la seconda voce che ti dice di salvare i naufraghi, perché se non ci riesci? E se chiedono tanto? E se ti dicono cose che non vuoi sapere? Falli affogare.

Salvini vince, perché fa questa cosa, per altro non proprio nuova. Promette una catarsi simbolica di oggetti patologici e dolorosi, sia sul piano intrapsichico che extrapsichico, tramite l’identificazione con un’idea estrema, virile, animalesca di maschio adulto e ferino. Sii cattivo e scopa, dice in sostanza mettendo insieme la lingua di fuori davanti al ventre di una donna – scelta oculatamente piuttosto semplice e comune – torna un po’ bestiolina stanca, fatti un po’ capobranco come me, comanda e scopa, sii cattivo (naturalmente, in questo tempo di donne a cui la maternità è ostacolata, sanzionata, poco incoraggiata – vale anche per loro. Mica vorrai attivare una funzione materna, mica vorrai essere madre dentro di te e fuori da te, fai una bella cosa, torna bestiolina, scopa col capobranco quando fischia, le parti infelici della tua storia potrebbero smettere di chiedere di essere salvate).
Dammi i pieni poteri. Così i bambini moriranno e non avrai più morsi.

E se c’è un motivo per cui le dittature eventualmente durano poco, è perché i bambini continuano a piangere. Endopsichicamente non basta una guerra intera a trovare una catarsi se non li salvi, extrapsichicamente, azzerare le domande delle parti deboli, non è mai risolutivo. La domanda aumenta, i soldi finiscono, e i naufraghi aumentano a dismisura. Specie quando al talento per il carisma politico, e per il conseguimento del potere non si accompagna un talento per l’amministrazione. Come pare sia il caso, se non altro perché di solito chi questo talento ce l’ha ama esercitarlo, mentre Salvini è un politico di razza per la strategia, e la comunicazione, molto meno per il pensiero sull’amministrazione. Disprezza l’atto politico amministrativo, disprezza l’esercizio della carica che va ricoprendo. Mi sembra difficile che possa far bene, chiunque disprezzi la materia di quel fare. Qualcuno lo equipara a Mussolini, ma mi sa che Mussolini era un po’ meglio.

Vedere quello che sta succedendo in questa prospettiva, potrebbe dare delle indicazioni alle forze che si decidessero ad opporsi a Salvini. Perché la questione umanitaria è umanamente importante, ma bisogna anche capire, brutalmente, che investe soggetti non aventi diritto al voto, e quindi io non so se occuparsi esclusivamente del tema immigrati, sia la strategia migliore anche per tutelare gli immigrati stessi. In una prospettiva psicologica, attenendosi insomma a un piano simbolico metaforico, noi abbiamo un elettorato che ha questo problema di parti deboli che piangono, e che sono in grande difficoltà. Possiamo interpretare questa immagine suggerita dalla storia, e da quello che succede, qualcosa che è insieme, mondo interno e mondo esterno. I mondi interni possono essere diversi, e derivare dalle storie personali degli elettori, che non possiamo qui né conoscere né riproporre. Però possiamo anche considerare, la discesa economica e politica di questo paese, come una spirale di bisogni gravi espressi e mai raccolti, e se vogliamo mantenere la metafora analitica, dove lo stato e la legge sono una coppia genitoriale, vediamo che le cose che loro propongono non riescono a essere efficaci. Le leggi ci sono, ma non riescono a essere applicate, i soldi ci sono, ma non riescono a girare, e in questo paese pieno di leggi e di risorse, non riuscendo a rendere fattuali le une e le altre, con un abbassamento della qualità di vita per tutti, la risposta è quella di, fare altre leggi peggiori di quelle che ci sono. Il decreto sicurezza bis, è la legge che rinuncia a risolvere il dovere delle altre. La criminalità aumenta? Ammazza i naufraghi. Il lavoro non c’è? Ammazza i naufraghi. Ha anche una serie di corollari, che sono piuttosto sinistri, qualora tu volessi opporti allo strapotere della legge. Non ti azzardare, dice il decreto sicurezza bis, a opporti alle forze dell’ordine in una manifestazione.
Sarà interessante vedere come si presenteranno bardate le forze dell’ordine nell’era Salvini, considerando che adesso già fanno togliere gli striscioni.

Comprensibilmente questa strategia, che è efficacissima genera angoscia e spavento, e io ammetto di provarli. Avverto una sensazione di perdita di controllo, guardando la fatica esistenziale delle persone e il loro anche comprensibile desiderio di capitolare. A volte mi arrivano, come a tutti noi, aneddoti che mi lasciano senza parole e piena di preoccupazione. A volte certamente mi arrabbio e litigo, per degli atti di razzismo, o per quell’altro grande problema che si profila sempre più incalzante all’orizzonte e che riguarda la situazione delle donne, in questo paese, che andrà sempre peggiorando. Ma credo anche che ci sia un oggettivo problema di lavoro, case, welfare, e sicurezza pubblica,  ma non perché manchino progetti o dispositivi, ma perché non riescono a essere applicati. Io non so se la criminalità sia aumentata, per esempio. In certi contesti penso purtroppo di si. Ma indubbiamente, non è diminuita.

Per quanto la sinistra sia in un momento di grande difficoltà, di acuta nevrosi interna, con una serie di conflitti che sembrano lontani dalla soluzione, è un momento in cui esiste una base disponibile per essere riunificata, e che per questa preoccupazione è disposta a votarla. Quindi,  personalmente almeno, ritengo che la prima cosa che debba fare una campagna elettorale di una forza politica antagonista a Salvini, è liberarci da questa angoscia, che è in realtà un pezzo coerente di quel sogno iniziale, il sogno del padre che dice, sii come me ammazza i naufraghi. Il timore, è la testimonianza della nostra possibile costrizione a quella identificazione, o possibile costrizione all’esercizio di quel potere, pure lesivo delle nostre personali istanze. Ma non siamo costretti, la democrazia esiste ed è quel dispositivo così simile alle organizzazioni psichiche mature, dove devono stare insieme diverse istanze e dare tutte il loro meglio. La comunicazione che dovrebbe venire perciò da questo antagonista, dovrebbe – senza parlare dei naufraghi soggetti non aventi diritto, ma spostandosi su altri campi simbolici – proporre una comunicazione dove si spiega quella che secondo me è una verità clinica e politica: c’è benessere dove si salvano le parti deboli, dove le si fanno salire in barca, dove le si fanno stare bene. La differenza tra sinistra e destra, a essere precisi, è sul come, non sul fatto che questo vada fatto. E a essere ancora più precisi, molti dispositivi sono pronti, è la loro applicazione che è inceppata. Ma se riuscissimo a trovare un leader, capace di comunicare anche emotivamente, la potenza tranquillizzante di questi concetti, ci libereremmo di questo problema. Ci vorrebbe cioè un modello di leadership, che sia capace di proporre su un piano simbolico, ancora più che materiale, un principio femminile, materno, che completi quello maschile e fattuale. La voce di madre, che nel decreto sicurezza bis manca e conduce alla psicosi del paese.

Questo oltretutto,  non perché non si voglia la Lega tout court nel consesso parlamentare, ma perché le si potrebbe chiedere di tornare, lei e il suo leader, a fare quello che sono chiamati a fare, ossia rappresentare delle domande, delle istanze, e proporre dei modi con cui quei bisogni possono essere risolti. Il che però vuol dire, esercitare amministrazione, non comizio pubblico. Una cosa che per altro, sul piano dei comuni e della regione, nel nord est spesso hanno portato avanti in una maniera migliore di quanto altrove siamo stati disposti a credere.

Toni Morrison, fai qualcosa tu per questa cena (2014)

 

Il ristorante vanta dell’ottima carne, dei prezzi contenuti, e quel che di moderatamente domestico che tranquillizza, che nasconde le pretese, ma che ugualmente non tracima nell’eccessiva intimità di certe osterie della città, piene di rumore e sature di olio- troppo carnali. Qui ci sono le tovaglie a quadretti bianche e rosse ma i tavoli sono distanziati, e la gente parla piano, e tutto è pulito.

Lei non è esattamente una Venere nera: rispetto alle ambizioni del suo erotismo è più tarchiata, il naso è più schiacciato, ha qualcosa di troppo popolare, materno, sessualmente definito.
 Tuttavia il colore della pelle rimane magnetico, i lunghi capelli stirati addolciscono le ruvidità di classe e anche quel modo di gesticolare con le mani affusolate e le unghie lunghe, un’esagerata ricercatezza a metà tra la donna raffinata e la mignotta, gliela rendono appetibile.
Lui per parte sua, è uno stronzo qualunque.

Le è più giovane, di carattere docile, e di amor proprio contenuto. Gli sta seduta davanti pervasa da quella che sembra – una serena vacuità. Non lo guarda con eccessiva amorevolezza o dedizione, non sembra avanzare delle pretese o avere dei desideri, neanche dei disagi o degli imbarazzi. Non parla mai.
Lui è il topos di un poliziesco italiano. Con quella spocchia di provincia, quell’amara vanteria che conosce i propri limiti e non sa come nasconderli, quella tracotanza tipica dei deboli. I lineamenti decisi, i gesti del maschio seriale – gettare le sigarette sul tavolo, toccarsi il mento per godere della ruvidità di una barba incipiente, sedersi prendendosi con vigore il pacco dai calzoni.
 Non le parla mai.

Mangia piuttosto con il viso nel piatto, e spesso telefonando a qualcun altro. Quando non parla, gioca col cellulare, guarda facebook, fa delle partite a qualcosa, ogni tanto le regala uno sguardo di sufficienza. Di solito parla davanti a lei, solo una volta è uscito. Si capisce che non si conoscono da tanto, si capisce che lui si sente anche speciale perché fa questa cosa molto originale e buona di portare fuori a cena una ragazza nera, si capisce che la cafonaggine indubitabile è corroborata da una qualche forma di timidezza.
La serena e sopita sensualità di lei gli mette paura – dunque si rifugia nelle cattive maniere.

Lei non ci fa caso. Sta acciambellata in una disponibile passività, che forse è l’insegnamento di una collana di generazioni. Vorrebbe che lui se la portasse a letto, e forse dal letto nella vita, dal letto all’ombra di un’ala, in una cuccia piena di rossetti e paillettes, a telefonare alle amiche e aspettarlo con lucide vestaglie di nylon. Qualche volta fa dei tentativi di timidezza calcolata. Delle carezze inavvertite per esempio, dei sorrisi controllati.
Ma lui ha fatto un atto di dovere, non di piacere, anche se a lei non pensa in altro modo che all’oggetto di piacere. Lui sente di dover assecondare un’idea di rispetto che non condivide certo per pensiero e civiltà, ma per ritrosia, per pigrizia, per stanchezza.
 E perché davvero, cara mia non so come dirtelo, fai meglio le tue puntate
E’ proprio uno stronzo qualunque.

 

 

Postilla.

Per molto tempo ho avuto l’abitudine – quando ho incontrato scrittori di cui mi mi sono innamorata, di fare dei personali corsi monografici, e dunque, di leggere tutto quello che mi capitava a tiro della loro produzione, fino al raggiungimento di un certo punto di flessione – di solito intorno al settimo romanzo, che combaciava con l’acquisizione dell’ossessione, della ricerca di senso ma soprattutto, dei dispositivi sintattici e narrativi che ne connotavano la prosa– benché, abbia sempre letto in traduzione. Tesaurizzavo il gioco stilistico e poi li lasciavo, da parte. a sedimentare.
Quando ho scritto questo pezzo, 5 anni fa, avevo finito il mio corso monografico personale su Toni Morrison da molto tempo. Lo ritiro fuori, non perché sia un pezzo particolarmente bello, ma per salutarla e ricordarmi tutte le cose che mi ha insegnato, perché per me Toni Morrison è stata una rivoluzione copernicana, un ritrovamento dello sguardo. L’incontro con una maestra.  In questo piccolo pezzo naturalmente, non ci può essere la testimonianza di quella prosa incredibile e carnale, o di quel talento per la narrazione storica del mondo e del privato, quel talento per il simbolico –  perché quella ha vinto il nobel, non a caso. Ma Toni Morrison, anche con libri meno noti di Amatissima come Lula, o l’imperfetto Paradise, mi ha insegnato delle cose sull’essere donna e intellettuale, donna che scrive, donna che pensa politicamente alle donne e agli uomini.   Toni Morrison forse è stata la mia autrice della differenza, la mia personale Irigaray. Quella che mi ha spiegato che bisogna da donne saper parlare della voce del corpo, della carne, del desiderio, saperne riconoscere il diritto e l’estetica, quella che mi ha detto cose importanti su come scrivono le donne quando scrivono bene dello stare male al mondo, e quell’anelito alla revanche, al godimento, al trionfo di se, e di ciò che si vuole per se, come femmine, come madri, come soggetti politici. C’era nei suoi libri, uno scopo tignoso e caparbio, di restituire la miscela della vita di tutti questi riscatti, e di tutti questi desideri, un uso  politico ed estetico dell’essere situati, della storia sua di donna e di dinna nera. Qualcosa che io, forse sbagliando, ho riconosciuto come il vertice possibile a cui una certa consapevolezza di genere può portare. Le ragazzine di Lula che desiderano scopare con dei giovani maschi, no romanticisimo, e neanche lotta generazionale, mero desiderio.  La madre – spero di non sbagliarmi –  del Canto di Salomone che aiuta il figlietto con le proprie mani ad andare di corpo, a fare la cacca, perché se no sarebbe morto.  La regale immigrata che rimprovera la giovane modella nera, con i capelli stirati.   Tutte queste cose, che sono corpo e politica me le ha insegnate con una prosa bellissima. E io cercai di rimetterle in questo pezzo, come ideologia almeno.

Tutto in lei era di un femminile regale e bellissimo, e un modello per essere donne adulte, in la con gli anni. I tanti capelli e le collane importanti, e le migliaia di scarpe. Toni Morrison era meravigliosa. Tutte dovremmo leggere, almeno una volta, un libro di Toni Morrison. O più d’uno. Tutte tutte. Grazie davvero.

 

Salvini, Papeete, internet, pentastellizzazione della sinistra

La reazioni sui social all’immagine di Salvini che balla al Papeete con delle cubiste l’inno di Mameli, mi ha suscitato una serie di riflessioni, su quello che per me è un problema di agency e di gestione della politica, con il tramite della rete.
E’ accaduto infatti questo. L’attuale ministro dell’interno, Matteo Salvini, ha fatto una serie di mosse, in linea con la sua occupazione principale degli ultimi due anni, ossia prepararsi a diventare primo ministro. Questo obbiettivo, in politica sarebbe tutt’altro che anomalo e disonorevole, almeno quando sia portato avanti con la qualità dell’operato: in generale i politici lavorano bene come politici per poter diventare politici ancora più potenti, laddove però il potere è una strana mistura di amore per se, amore per il dominio ma anche per l’oggetto che si vuole dominare. Il più narcisista dei politici – almeno di quelli capaci – è uno che ha anche un senso di responsabilità, e che vuole fare delle cose, vuole avere potere per dare una forma migliore all’oggetto che amministra. Un buon politico, è insomma, uno che possa vantarsi e essere riconosciuto per degli atti importanti e trasformativi per la comunità. Provvedimenti. Proposte di legge.
I ministeri poi, sono cariche politiche particolarmente tecniche, amministrative: si occupano di cose materiali: di stipendi, di funzionamenti, di agevolazioni, carenze da colmare, di cose di vita banali e materiali.

Invece da quando è in carica, il ministro dell’interno ama l’esercizio del potere, come potenzialità, e come arbitrio, ma non ama l’oggetto su cui deve esercitarlo, ossia la cittadinanza che deve rappresentare e difendere, e per la quale deve lavorare. E in effetti, stricto sensu, Salvini al lavoro non ci va mai. Il suo lavoro di ministro dell’interno, il suo occuparsi delle rogne interne dei ministeri, non è cosa che lo riguardi. Al ministero non si vede mai, in parlamento non è quasi mai pervenuto. Il lavoro di Salvini al momento, è dire come lavorerà quando sarà potentissimo e li eventualmente da potentissimo potrebbe forse fare delle cose. Quindi racconta come si approccerà con i cittadini (vedete? Mi faccio la foto col ristoratore) con le donne (vedete? ci ho una fidanzata con cui sono tenero) le idee che avrà ma di cui si occuperanno altri (perché appunto a lui dell’oggetto del lavoro politico non gli importa). E in questo lavoro di eterna propaganda con i soldi dei contribuenti a suon di comizi e festicciole, lui va al Papeete e fa una rappresentazione del potere che un domani vorrebbe avere e come lo intende lui. Io devo dire, ho trovato l’inno di Mameli col dj e lui grassone e unto che balla con le gnocche, una grandissima trovata comunicativa, un upgrade simbolico rispetto a certi precedenti illustri – i quali proponevano di certo una semantica del potere come svacco bizantino e reazionario, ma spacciandolo come atto privato, che diventava simbolico come dire – solo per sbaglio. Non c’è stata una conferenza stampa al tempo delle farfalline. Non c’era una regia a priori destinata al grande pubblico, e dichiaratasi come tale. Ed è interessante che ora ci sia questo cambiamento, e credo anche che la prima cosa da fare, politicamente è non allarmarsi troppo. O più specificatamente – non per questo.

L’operazione infatti è un lavoro di distrazione della sinistra, molto distraibile, e simultaneamente un lavoro di cementificazione della destra, molto plagiabile. Tutti si concentrano su questa chimera dell’esercizio del potere, non particolarmente innovativa, quasi archetipica – se ne fanno incantare, senza occuparsi della faticosa disamina di quello che fanno i politici quando non stanno in costume da bagno. Tutti guardano lo spettacolo pensando a una simbolica delle immagini del presente, e certi vi vedono sinistri presagi, anche persecutori (ammetto di essere tra questi, appunto i distraibili della sinistra) mentre altri vi trovano una conferma di potere e levità, di un’arroganza democratica e populista che li solleva e li allieta (i plagiati di destra, a cui stanno togliendo la sedia dal culo, e mi pare stentano ad accorgersi della qualsiasi)-
Poi però mi è successo di fare delle riflessioni

In quanto distraibile della sinistra, ho avuto la tentazione di scriverne sui social e ho anche compreso, empaticamente quelli che condividendo con me un’affinità ideologica o che ne so, estetica, hanno pensato di contrapporre sulle loro bacheche l’immagine di Moro con la figliola sulla spiaggia, in un completo da ufficio.  E’ stata una scelta cioè che ho capito, e ho pensato che era l’equivalente di quello che capitava al bar prima dei social, dove uno sarebbe andato, e avrebbe detto a un altro, hai visto che tempi? C’è da rimpiangere la democrazia cristiana. Poi ho pensato che c’era anche qualcosa di più, che ha a che fare con la natura dei social, perché sui social si scrive, si viene letti e questo circuito fa si che le proprie bacheche siano percepite come piccole traduzioni materiali della propria identità, del proprio modo di vedere le cose, spesso a trecentosessanta gradi, e la critica a Salvini sta insieme alla nostalgia di Aldo Moro, insieme alle foto dei bambini, insieme alla pastasciutta del lungo mare. Ed   anche piacevole, da un che di costruttivo, l’idea di scrivere il proprio dissenso, da un ritorno di se che prima, prima dei social non avevamo. Tutte i nostri messaggi, pro o contro questo governo, messi insieme ci danno un’idea di ordine di pensiero, e di linea politica privata. Abbiamo un’immagine coerente dei nostri giudizi che è controllabile, mostrabile con delle coerenze e degli scambi. Ci sentiamo visibili e presenti a noi stessi. Per pensare alle nostre scelte politiche, questa cosa ci è utile.
A me è utile.
Tuttavia mi rendo anche conto che si sta creando un problema, che questo problema è al momento il massimo svantaggio della sinistra, ma simultaneamente il provvisorio falso vantaggio della destra, e che se riuscissimo a superarlo potremmo arrivare a ribaltare le cose.

Perché succede che tutte queste opinioni spicciole, stanno reificando le due tendenze dei due fronti culturali in cui è spezzato il paese ma in una maniera solo apparentemente democratica. Una parte del paese, usa i social per rafforzare una vocazione gerarchica e gregaria, e dunque la manovra propagandistica di Salvini funziona perché cemente ulteriormente un elettorato per sua natura portato a cementificarsi di fronte a un uomo forte (certo se era capace, non era meglio? Ma chest’è) dall’altra a Sinistra si alimentano le forze centrifughe, le prese per i fondelli reciproche, le impossibilità di coalizzarsi in una domanda politica, tutti pronti a dare sapute risposte nel proprio piccolo. Salvini pubblica la foto di lui al Papeete, poi arriva quello che pubblica la foto di Moro in grisaglia, e alla fine tocca persino sorbirsi il terzo, che pubblica quella della figlia di Goebbels, che equipara il povero Moro a Goebbels, che il Signore gli metta una mano sui neuroni.
Questo problema è la pentastellizzazione del dibattito pubblico. Ci siamo pentastellando tutti.

Ossia, tutti partecipiamo a un dibattito politico tra noi, fraintendendo le nostre posizioni come se fossero il segno ultimo di una rappresentanza politica, alle volte anche ricattandoci biecamente l’un l’altro dandoci perciò molta importanza (pentiti, hai visto che Goebbels pure aveva i completini) come se fossimo tutti segretari di partito, livellandoci tutti, e parlando tra noi (quanto è bella la democrazia eh) disconoscendo le singole nostre funzioni, giornalisti con elettori, elettori con consiglieri, bibliotecari con amministratori, etc, e perché questo sia fatto, tutti, destra sinistra e centro, tutti, ci intratteniamo con temi come, mamma mia com’è scostumato Salvini con la panza de fori (o anche come è spiritoso e bello eh, non fa proprio nessuna differenza) livellando il dibattito politico su scemenze che per le nostre scarse competenze tecniche almeno siamo in grado di dominare, e occultando infine, in maniera gravissima per me, il problema invece serio, questo si a sinistra di una domanda di una rappresentanza responsabile, attiva, che si espone. Il massimo che riusciamo a fare, è blandamente, frignare dicendo che non ci sono idee, ma questo spesso anche in una notevole disinformazione di quello che invece si sta facendo all’interno di un partito.

Internet ci sta facendo disconoscere il senso del meccanismo della rappresentanza, e degli obblighi politici a cui è vincolata. Sta diventando più importante per noi cosa pensa il nostro contatto delle braghe del ministro dell’interno, che la posizione che ha preso il soggetto politico che abbiamo votato rispetto alla nuova tassazione e le conseguenze sul wellfare, o anche rispetto alle politiche per esempio riguardo gli immigrati regolari e via discorrendo. Quel processo di tridimensionalizzazione del nostro pensiero politico, sta cioè sottraendo pensiero politico, e la triste parabola incarnata dai cinque stelle potrebbe capitare ora anche a noi. Perché che vi piaccia o meno, quello era un partito nato con delle istanze politiche vere, con delle domande interessanti, con alcune richieste meritevoli di attenzione, ma il mitologema della democrazia diretta in rete l’ha distrutto. Ha messo in campo rappresentanti impreparati e incompetenti che nessuno è in grado di correggere e di rispettare, e che a loro volta non riescono a essere all’altezza del proprio mandato, ha disprezzato quella democrazia che voleva onorare. Se continuiamo di questo passo, rovinando i dispositivi che ci tengono in vita come paese organizzato democraticamente, davvero siamo alla mercè del primo tiranno che passa – e che in effetti è uscito or ora dal Papeete. Per evitare questa cosa, dobbiamo passare per una riorganizzazione della domanda politica e dello scambio politico, proprio sui nostri social.

 

Letteratura di evasione

Lo scrittore sulla spiaggia sta nella sua isola incerta e frastagliata, di teli scoloriti e giornali, ma anche bottiglie di acqua minerale, e pasticche per il mal di schiena. Non fuma più lo scrittore sulla spiaggia perché il dottore gli ha detto che non se lo può permettere, e non telefona neanche alla sua amante perché pensa, con modesto struggimento, che sarà piena della vita dell’estate, dell’età che lui non ha, non ci sarà campo pensa lo scrittore, dovrà dire dieci volte COME STAI e gli verrà la voce sempre più forte, scambiando le poche tacche sul display con la lontananza. Ci sarà vento – e si sentirà sempre più vecchio.

Ogni tanto scambierà delle parole, con qualche commilitone, un vicino di ombrellone, un padre volenteroso, che chiederà allo scrittore sulla spiaggia: cosa stai scrivendo adesso, cosa stai facendo? Mi regali una copia del tuo libro? E gli sentirà tante cose nella voce, l’eco del mondo che ha cercato di abbandonare, quello che vorrebbe ancora spiare, dunque l’estraneità del suo passato e la prossimità del suo futuro. Il libro come il giocattolo bizzarro che nasce vicino a poltrone di velluto e non si sporca mai di grasso delle macchine, di bollette, di sudore, il libro come una rosa che fiorisce sui tappeti.

(Lo scrittore allora vorrebbe dirgli che no, non può regalarlo, che ci hanno lavorato tante persone, mica solo lui, che ci sono i correttori, gli impaginatori, i signori che fanno le copertine, i signori che danno consigli, che sul suo libro al negozio dei libri ci sta non solo il suo pranzo e la sua cena, oddio forse no, diciamo il suo ombrellone, ma certo anche l’ombrellone di altri. Ci stanno le macchie di grasso sul libro! Vorrebbe cioè protestare lo scrittore sulla spiaggia –  e invece dice.
Purtroppo qui non ne ho neanche una copia.)

La moglie dello scrittore intanto, veglia su di lui con benevolenza, aggiustandosi il pareo sui fianchi larghi, e gli occhiali severi sul naso che il tempo ha affilato. Era stata una donna bella, scelta però per altre cose – quali un cipiglio solido e orientativo, un’orticaria per le smancerie, una presunta amicizia con la verità da cui poi, sarebbe voluto fuggire, prendersi una vacanza, nelle braccia della sua nevrotica amante.
Che lo attrae invece, per quel poco che si vuole bene, e quel troppo che lo prende sul serio.
(E anche questo, alla lunga, pensa distratto adesso).

Ricorda cioè lo scrittore, ora che la moglie larga e regale incede verso il bar, la severità con cui accolse una delle sue prime dichiarazioni, il suo broncio contratto mentre lui si perdeva nelle metafore spacciandole per amore, il modo con cui lei con un guizzo sovietico nello sguardo gli aveva fatto notare quanto l’ordine della sintassi, e la sfumatura dei significati con cui diceva di soffrire per lei, contassero più in quel momento, dei sentimenti stessi.
Mi sposeresti e lasceresti, gli disse terribile, solo per scrivermi lettere d’amore, per poterle rileggere correggere, limare e migliorare. Mi sposeresti, continuò ridendo in quella prima estate senza mezzi termini, solo per farmi diventare il simbolo di qualcosa che non credo davvero mi riguardi, per parlare di come secondo te va il mondo, di cosa la vita ha voluto dare a te, mi sposeresti per scarnificarmi. 

Poi lo aveva  portato al mare.

(Lui  allora si isola
qui )

Uomini a cui piacciono donne buffe

 

Pochi giorni fa era il compleanno della santa patrona di tutte le donne argute, Franca Valeri. Le facciamo gli auguri, e la ringraziamo per aver messo in scena al meglio – in maniera sottile ed elegante un’arguzia femminile, un saper essere intelligente e affilata che è stato anche critica sociale e analisi di costume e lo ha fatto in anni in cui, questo storico saper guardare delle donne – che in realtà c’è sempre stato ma per molto non è stato ben scritto – non aveva grandi spazi nell’immaginario collettivo. Tutti magari avevano una sora Cecioni in casa, molti avevano anche, a dire la verità, una zia in grado di incarnarla, nessun autore si era premunito di valorizzarla. Oggi le donne buffe, scorrazzano giustamente in tanti contesti. Fanno ridere con articoli pungenti sui giornali, a volte cominciano in rete raccontando le proprie gaffes e poi giustamente trionfano con dei libri, alcune risalgono dalla bruma del cabaret per andare oltre, e in televisione abbiamo adesso persino – cosa cinquant’anni fa inconcepibile – la donna comica sessualmente attraente, la donna comica che è anche bella con una fisicità comunicativa per conto suo.

La donna buffa – ossia che sa ridere di se e degli altri- è entrata nel panorama relazionale, e nell’immaginario simbolico e questo mi sembra di per se un cambiamento affascinante. Ancora dodici anni fa, quando tenevo il vecchio blog ricordo un articolo – bisogna dire già allora piuttosto imbarazzante, ma significativo – sul corriere della sera, dove si argomentava che le donne non sapevano essere umoristiche perché essendo attraenti non ne avevano bisogno. L’umorismo anzi era vissuto come un antagonista dell’erotismo ma anche un antagonista del materno, che nella versione idealizzata dell’autore di allora quando ha il suo fagottino tra le braccia (cit.) non conosce noia!

Questa idea dell’umorismo delle donne, come qualcosa di antitetico alla relazionalità femminile, ha qualcosa di vero e qualcosa di falso, qualcosa di culturale e qualcosa di psichico e transculturale. Molti uomini la sentono molto ancora oggi, e quando sulla mia pagina facebook ho espresso l’intenzione di parlare di quelli che invece dalle donne buffe sono attratti, non sono mancati i commentatori che hanno bofonchiato – ma scusa ma quando mai?

L’argomento è interessante perché offre spunti di riflessione sia sociale che psicologica e relazionale – ma facciamo un passo indietro, con due classi di osservazioni. Le prime sull’ironia, le seconde sul maschile e il femminile, e lo stare in relazione.
L’umorismo da un certo punto di vista è un linguaggio, un tono di voce con cui si guarda il reale. In termini psicologici è una struttura adattiva, e contemporaneamente una struttura difensiva. Permette infatti di avvicinarsi a degli oggetti mantenendo una distanza di sicurezza, utilizzando le risorse logiche e intellettuali per raffreddare contenuti che possono essere incandescenti. Per questo possiamo dire per un verso, che l’umorismo ha una sua applicazione adattiva, quando satura un bisogno di avvicinamento graduale agli oggetti emotivamente carichi, ma diventa nevrotico e disadattivo quando sembra essere l’unica risposta che un soggetto riesce a mettere in campo di fronte a delle sfide personali. In secondo luogo, dal momento che l’umorismo è meccanismo e dunque mezzo, ma non fine lo possiamo classificare a seconda di ciò a cui è asservito e per questo distinguiamo tra umorismo di destra e di sinistra, o battute corrette e battute scorrette. Le battute sono comunicazioni di un ordine logico non sono mai infatti un totem a se.

Inoltre l’umorismo è anche mezzo di strutture caratteriali diverse, e di quelle si fa canale, il che denota altre classificazioni possibili. Frequentemente, proprio per la sua capacità di raffreddare oggetti emotivamente minacciosi, è il mezzo prediletto di personalità angosciate e con un fondo particolarmente aggressivo, che usa l’umorismo e a volte lo sfonda in sarcasmo. Ma sono anche molto piacevoli, anche se effettivamente più rare, le forme di umorismo gentile, affettuoso, i casi in cui l’umorismo è usato per esprimere forme di tenerezza o commozione altrimente incontenibili. (Personalmente associo questo tipo di umorismo a certe spiccati talenti letterari, a un certo tipo di equazione personale che si riscontra spesso, anche in chi lavora nelle professioni della salute) – così come di grande successo, anche se carica di implicazioni controverse, è l’autoironia, l’umorismo a servizio dell’attacco di se.

In ogni caso tutti questi diversi stilemi, ci rimandano a un’altra sua caratteristica che è quella di creare una comunanza a fronte del complemento oggetto di cui la battuta tratta. Perché l’umorismo ha sempre due complementi: l’oggetto di cui si ride, e la persona con cui si vuol ridere di quell’oggetto. Ogni comunicazione umoristica ha quindi non solo un argomento ma qualcuno con cui vuole stabilire un con, e quindi una costa difensiva e una costa seduttiva. Questo ci spiega bene perché è così funzionale al dibattito pubblico e perché ci siamo trovati di fronte alla perversione democratica di un comico che è diventato leader politico. Soprattutto però, tutte queste cose, ci servono come base per riflettere sul funzionamento delle donne molto umoristiche e sul tipo di uomini che le possono trovare attraenti.

A questa riflessione si diceva, ne dobbiamo fare altre che riguardano quelle che sono chiamate, le regole dell’attrazione. Gli psicoanalisti che si occupano di coppie, spesso rintracciano nella loro fisiologia interna un meccanismo di deposito, un incarnare di ognuno aspetti interni dell’altro. Nel lessico junghiano per esempio si dice: che le donne hanno un maschile interno l’animus, che andrà a incarnarsi nella figura maschile che si scelgono per se, e che gli uomini hanno un’anima, un femminile interno che andrà a incarnarsi nelle donne che vogliono come partner. Non è dunque così impossibile l’ipotesi che una donna con un forte senso dell’umorismo risulti attraente, in tutte le declinazioni possibili.

In molte donne, indubbiamente, l’uso massiccio dell’umorismo è un meccanismo difensivo nevrotico, che probabilmente utilizzano per inibire la relazione, per scantonarla. Sono estremamente complicate e frustranti per esempio le donne con un forte senso dell’autoironia, la quale mette l’interlocutore uomo in una posizione perversa, in una posizione di doppio legame: ridi di me con me, dice la donna troppo autoironica – ossia dimostrami che mi sei vicino sbagliando perché dichiari di disprezzarmi oppure non ridere della mia autoironia sbagliando perché non accetti la comunione con me che ti propongo. Uomini che sono attratti da questo tipo spesso e volentieri sono a loro volta in un impasse relazionale che difficilmente riuscirà a essere scavalcato proprio da quella partner che è diventata attraente incarnando la loro minoranza parziale timorosa di mettersi in gioco. Non molto diverso sarà il caso di donne che scherzano troppo sul partner che si sono scelte come elettivo perché anche li, il doppio legame è in agguato e crea uno stato di paralisi e anche di frustrazione emotiva – mi vorrà solo se accetto il disprezzo di me. Questo tipo di impasse relazionali con l’umorismo capitano in tutte le combinazioni – anche per esempio tra omosessuali, ma ho la sensazione che quando c’è un partner maschile a essere l’umorista nevrotico lo stallo scorra via più velocemente. Serve infatti un partner, uomo o donna che sia con un femminile molto forte, una spiccata funzione materna o genitoriale, per uscire dallo scacco, per capire che quell’umorismo è un linguaggio non dell’assenza di desiderio ma della paura del desiderio, e questo alle donne riesce oggettivamente più facile, non hanno cioè bisogno di essere molto sofisticate per capire cosa c’è dietro a un uomo che fa battute in continuazione. Per gli uomini, fare invece questa operazione è più difficile, e spesso riescono quando sono confortati da un’altra asimmetria che conferisce una posizione di sicurezza e fa vedere le cose in prospettiva – per esempio, una certa differenza di età.

Succede però anche che o ci siano donne con un senso dell’umorismo non necessariamente nevrotico, o che quelle che avevano una violenta nevrosi, a modo loro crescano o guariscano, attutiscano l’uso dell’umorismo e imparino a tirarlo fuori senza necessariamente mettere in difficoltà il prossimo, e a questo punto si creino relazioni con uomini a cui banalmente piace ridere con, o a cui piaccia anche quella porzione di aggressività che è connaturata a una certa ironia femminile. Di solito sono uomini a loro volta molto buffi e spesso anche di animo piuttosto gentile, pacifico, che devolvono quindi le proprie dimensioni aggressive a donne garibaldine irrequiete e irriverenti. Da una parte allora si creano relazioni in cui l’umorismo diventa una specie di oggetto transizionale condiviso, una specie di orsacchiotto degli adulti da spartire in due, con cui si fanno delle partite, dei giochi di ruolo, e in effetti quando capita sono relazioni molto fortunate, che non di rado con meccanismi magici per ora mediaticamente molto poco rappresentati, scivolano anche in un erotismo tutto particolare, e in effetti credo piuttosto difficile da riprodurre. Questo tipo di partnership si avvantaggiano anche di un comune fondo depressivo, di una comune percezione del tragico, del dolore, per cui possono creare delle fortissime unioni, durature nel tempo. Ma è anche interessante constatare come siano anche coppie dove c’è una combinazione dei caratteri che è sempre esistita ma che solo ora diviene un oggetto comunemente visibile, dove lui ha una virilità stabile, posata, centrata su di se – junghianamente viene da chiamare in causa la figura del senex, mentre lei con la sua irrequietezza, la facilità alla sagacia come mezzo per evadere un surplus di eneregia, di aggressività e di libido, diventa il braccio armato delle parti vitali maschili, qualcosa di forte di erotico, di vivente. Chi sa se non in qualche caso, un incarnare delle parti che culturalmente sarebbero chiamate come maschili, mentre lei, che è così operativa e puntuta, finisce col trovare nel funzionamento stabile, imperturbabile di lui, un funzionamento accogliente, e quindi il deposito di parti femminili, materne sue inconsce. Anche questo tipo di partnership è piuttosto solido. Anche questo c’è sempre stato ma era poco rappresentato considerandolo svantaggioso etologicamente, rispetto alla combinazione caratteriale dominante: la donna silenziosa, gentile materna e accogliente, e il maschile agitato e complicato e quindi operativo verso l’esterno.

Quel tipo tradizionale, d’altra parte, esiste sempre, non è necessariamente un uomo conservatore, è proprio un uomo organizzato psicologicamente in un certo modo, e che cerca nelle donne qualcosa di diverso, che magari mostrerà di criticare con una retorica diciamo pure maschilista, ma di cui in realtà ha un fisiologico bisogno. Quella passione per esempio di certe donne per il sentimentale, per il romantico, per il film rosa, per l’emotivo, è l’incarnazione per loro di parti negate e messe in minoranza che cercano una strada per evolversi. A me pare anche quello un itinerario relazionale di tutto rispetto, e che può dare ottimi frutti, capisco pure però che a quel tipo d’uomo la piratessa da cabaret, la donna sagace e complicata, risulti respingente e di difficile accostamento – forse quel tipo di donna è qualcuno che sta cercando le sue stesse cose, più un competitor che un oggetto del desiderio.