Il mio amico C

(Ogni tanto a pranzo  – non spesso a dire il vero – vedo il mio amico C. che è molto pazzo e instabile ma non sembra, anzi il mio amico C a pranzo sta sempre seduto composto e pensieroso, una specie di pensatore stralunato, dividiamo i cannelloni mentre si regge la testa (lato sinistro) e s’aggiusta gli occhiali, mi da della pazza a me, e questo un po’ m’aggiusta i miei di occhiali, mi ascolta in questi pranzi, mi fa prendere poi cose come salsicce e saltimbocca e mi interroga. Hai scritto almeno un paragrafo? Come va con il lavoro?  Come stanno i tuoi bambini? 

Io dico che i miei bambini sono bellissimi, i più belli di tutti, i più belli del mondo, gli faccio vedere le foto, e lui si intenerisce, perché il mio amico C è pazzo ma sentimentale, di mia figlia non vede gli occhi da strega ma vede l’infanzia, e quando gli racconto le cattivellerie sue tipiche il mio amico C ride di come si ride dei bambini, cambia posa, mangia altri saltimbocca, si tiene la testa con l’altra mano (lato destro). La testa gli pesa per il fatto che si porta sempre molti pensieri moltiplicati a loro volta, nella sua mezz’ora mi rende edotta di amori tempestosi e storia del socialismo, a volte ci mette pure tutte mescolate alcune sue ipotesi rivoluzionarie e/o religiose e anche casini che ha in casa ci ha sempre molti casini in casa, e penso che quando siamo a pranzo mette tutti questi pensieri da una parte, come farebbe l’altro mio figlio con i tappi della sua collezione.

In generale ci dividiamo il pasto nel tempo e nelle porzioni – di solito un’ora un’ora e qualcosa perché è una convergenza di pause pranzo, mezz’ora l’uno e mezz’ora l’altra, un saltimbocca lui uno io,  con alcuni inframezzi interlocutori, di solito degli anchammeèssuccesso, ma anche dei macchedavero, una patata arrosto te una io,  che siamo romani tutti e due io e il mio amico C, e ci mettiamo anche qualche battuta di smandruppata genitorialità reciproca, una strana forma di cinismo gentile. Io sono ipocondriaca  per esempio, e allora il mio amico C mi chiede, lascia stare i bambini, parlami del colera.

E io pure gli chiedo tuttecose come vi dicevo, e avrei molta voglia di entrare nel dettaglio e riferirvele, ma è una persona molto riservata,  diciamo torrenziale ma selettivo, per cui no, non posso dirvi bene tutto di quando cambia la mano con cui si regge la testa, mi dispiace).

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Ferragni, De Lellis, e gli specchietti per le allodole

Ogni tanto, l’industria culturale sforna dei personaggi che vengono da percorsi lontani dal mondo intellettuale, ma provvisoriamente ne colonizzano gli spazi, ne utilizzano i canali, tirando fuori fatturati anche importanti e esplosioni di notorietà che lasciano interdetti. Allora, succede che gli habitué di quei contesti, lettori per esempio medi o forti, fruitori di cinema di qualità, abbonati a riviste da ceto medio riflessivo, sentano il bisogno di distinguersi, di prendere le distanze, qualche volta di scandalizzarsi. A volte trovano nei maitre a penser della carta stampata dei loro alfieri. Giorgio Mereghetti, per certi versi neanche a torto, ancora si deve riprendere dalla presentazione del documentario su Ferragni al Festival del Cinema di Venezia e del suo prevedibile successo di botteghino. I critici che guardano con sbigottimento il libro di De Lellis non si contano. Perché, chiedono, questo successo? Perché nei contesti della qualità intellettuale vincono prodotti che non hanno qualità? Cosa dobbiamo fare? Come possiamo smettere di sbagliare? Queste domande, in molti casi sono poste accanto a giudizi scandalizzati e pieni di livore, verso il personaggio di turno: una cretina, un sciocca, una furbastra, una raccomandata, un’analfabeta, e via di seguito, a volte invece il giudizio scandalizzato e pieno di livore riguarda il pubblico, dei cretini, degli analfabeti, degli utili idioti. Possono scegliere tra Tolstoj e de Lellis e scelgono de Lellis.
La vetrina dei social, permette una moltiplicazione notevole di questi pareri talora affranti, tal’altra cattivi, che poi è un’altra maniera di essere affranti. Io qui proverò a riflettere su due questioni. La prima riguarda la ragion d’essere socioculturale di questo fenomeno, e la seconda la crisi della produzione culturale su cui mette il dito e che è oggettivamente un problema .

Ferragni e De Lellis non sono strettamente né delle sciocche, e devo dire neanche, come piace a tutti credere, dei meri prodotti del marketing. C’è questa idea fuorviante del mercato come una specie di mostro – sempre vissuto come maschio potente e manipolante – che prende un soggetto privo di identità – di solito femmina e giovane e bella – e se ne serve, reinventando una identità posticcia. In questa fabula del mercato come re potente e machiavellico, per cui tutto è mezzo in vista del suo mantenimento ci sono molte variabili: c’è un marxismo a mezzo servizio – dimezzato cioè da un maschilismo involontario quanto dissimulato: il cantante è titolare di capitale, la cantante è mezzo del capitale. Corona è furbo, invece nel caso di De Lellis, il furbo sarà Mondadori, così come nel caso di Ferragni i furbi sono i famigli di Ferragni che l’avrebbero utilizzata per investire il capitale. Il marxismo dimezzato qui si ricorda cioè dello strapotere del marketing perché vive la donna sempre incapace di agency, ancora più ricattabile a causa della sua evidentemente connaturata vanità, del vecchio operaio che almeno era brutto, poco attraente, poco lusingabile e quindi almeno sindacalizzabile. C’è un tema anche spesso genitoriale, che si affianca alla teoresi marxista. Il mercato prende queste creature, per sedurre con modelli facili le nostre di creature, e i nostri figli. Il che fornisce un alibi alla dolorosa sensazione di aver mancato il compito di una trasmissione etica e ideologica, i nostri figli amano cose che non amiamo noi, perché sono stregati dalle sirene del mercato. Anche qui abbiamo quello che gli inglesi chiamano Patronizing: noi spiegamo ad altri, quello che altri non capiscono di se stessi, trattandoli come più ingenui di quanto siano.

Ma c’è anche un tema che è la mancata comprensione del sistema culturale a cui si partecipa e di cui si è a nostra volta spesso altrettanto agenti culturali, per cui forse, c’è una sottile invidia nei confronti di questo tipo di personaggi, che hanno monetizzato una tendenza sociale che va avanti da molto tempo, e che perché produca un vantaggio materiale, ha bisogno di pregi, qualità e talenti, che non sono di tutti, e che non combaciano necessariamente con i meriti necessari alla produzione colta e di qualità.
Il fatto è che, non da ieri, ma da oramai vent’anni e più, viviamo in un mondo culturale che edifica e premia la comunicazione pubblica della vita privata, creando strani ibridi che sono diciamo delle soggettività pubbliche rinarrate. Questa tendenza si è sviluppata in parallelo su tutti i canali mediatici. L’abbiamo osservata in televisione con la creazione dei reality, che lanciò soggetti interessanti come il fantastico Taricone del grande Fratello (leggere cosa ne scrisse qui Giorgio Cappozzo), con trasmissioni come Uomini e Donne che tirarono fuori personaggi come Tina Cipollari (vorrei che Cappozzo ne scrivesse). Poi è arrivata la rete, i blog, e dai blog sono nati altri personaggi: qualcuno potrebbe ricordare Claudia De Lillo, per esempio, che vendette decine di migliaia di copie dei libri tratti dalla sua vita familiare con i suoi bambini, ma anche, perché il meccanismo è pressoché identico, le file fuori le Feltrinelli dove Marina Morpurgo, noto personaggio di Facebook, firmava le copie del libro, in cui aveva raccontato la sua esperienza con il suo cane poi morto di cancro. Nell’editoria, sono fioccati i libri costruiti non sulla storia inventata, ma sulla biografia dell’autore, non sullo stile ma sull’esperienza. Si vive, ci si racconta vivere, ci si filma e ci si fotografa mentre si vive, si sta con un piede nella realtà e uno nella sua rappresentazione studiata. Siamo in tantissimi a fare questa cosa. Io anche sarei così con molto divertimento, se il mestiere non me lo impedisse. Lo sono un po’ su facebook, per il pochissimo che ora posso, ma lo sono anzi stata, e ho avuto un blog dove raccontavo in modo buffo la mia vita privata ed era sotto pseudonimo, e mi portò a un buon editore. Forse per questo, certe carriere le capisco. E anche certi risentimenti.

In parallelo, con l’avvento di internet e dei social è stato premiato un certo tipo di scrittura, la quale ha delle caratteristiche sue proprie, e credo che in molti ignorino come per esempio una come Ferragni l’abbia saputa usare con maestria. Questo tipo di scrittura, ha come caratteristiche: intelligenza, arguzia, un’elegante accessibilità, e un notevole dominio dei correnti riferimenti culturali, quanto meno del gruppo sociale a cui appartiene. The blond Salad, il blog con cui uscì all’inizio Ferragni, era un piccolo gioiello di questo tipo di prosa – che affonda la sua storia nei giornali femminili, a cui lei molto carina di suo, abbinava anche delle foto con cui mescolava capi cult della storia della moda, capi cioè che facevano riferimento a modelli sociali di figlie e di madri, a oggetti della moda pop, giacchette di zara, jeans Levi’s. Per fare questa roba, come sanno i redattori di periodici come Elle, Marie Claire, o Amica, ci vuole un talento specifico, un certo tipo di cervello, di brillantezza, di saper essere, un certo tipo di pensare. Ci vuole una roba che si chiama talento. Devo dire, che quando lo incontro in rete, e si incontra: il contatto che sa raccontare il passato culturale, o la comunanza di un certo gruppo sociale che sia la madre incasinata, la nostalgica dei 90’, la padrona del cane malato, senza che ancora ci sia andato sopra un editore, per me questa scoperta è sempre un grande piacere. Il saper scrivere del privato condiviso in modo brillante, è per me un genere molto interessante. Su questa techne, a volte si costruisce sopra un mitico, che raggiunge vette inesplorate di successo economico, dovuto probabilmente ad altri talenti, che scavalcano la scrittura stessa. In questo penso, ma lo vedremo in futuro che Ferragni – supererà De Lellis, perché se in comune hanno l’essere delle bellezze molto comunicative modeste e quindi tranquillizzanti (ma ditemi, cosa c’è di più simpatico di una gran bellezza che scrive un libro da cornuta) Ferragni, ha capitalizzato quello che prima semplicemente intercettava. Prima era una che interpretava la moda, riproponendola, ora è una che è in grado di disegnare oggetti di moda che sfondano in quello stesso mercato. Io stessa, ho puntato un suo delizioso paio di mery jane glitterate.

Quindi, ecco, queste persone non fanno successo su niente. Sanno scrivere a modo loro, sanno parlare, sanno comunicare. Sono le eredi del brillante giornalismo patinato, le nipotine delle guie soncini e delle penne brillanti delle riviste per signore del secondo novecento. Vendono uno stare al mondo, che nel loro caso fa ancora più soldi grazie all’aiuto del corpo, ma hanno sorelle e qualche fratello (fratelli meno) che dal web hanno avuto molto successo, anche se di meno, grazie a meccanismi analoghi, perché tutte si incanalano nella rinarrazione ben confezionata e fruibile del privato. Qualcuna con più talento, qualcuna con meno.

Allora si può venire a farsi domande sulla seconda questione, che è la crisi dell’industria culturale. Ferragni a Venezia e De Lellis che sbancano, potrebbero essere una manna dal cielo se il fatturato che portano alla filiera produttiva dell’industria culturale portasse a una maggiore audacia dell’imprenditoria culturale e un maggior inverstimento, se non addirittura un ripensamento. Ma il problema è che questo non succede, e non per colpa loro, ma per una idea pavida di imprenditoria che coglie chi attraversa la crisi. In realtà quello che succede è che arrivano, strumentalizzano dei canali, con sagacia inducono il proprio target a servirsi di quei canali, per cui succede che gente che non avrebbe mai comprato un libro in vita sua ora compra quello di De Lellis, gente che non sa cosa è un documentario ora guarda quello con Ferragni, e poi se ne vanno. Come una sorta di conquistatore che passa attraverso un territorio ma va oltre, quel territorio è mero mezzo.

La questione grave, sono le condizioni di quel territorio. E’ una cosa bellissima che arrivi una che vende gonnelle e porta soldi al botteghino, se quelli nel botteghino sapessero cosa farsene. E’ fantastico che la diaristica della gnocca simpatica rimpolpi le casse dell’editoria, se l’editoria facesse un discorso di imprenditoria culturale. Non viviamo grazie al cielo in uno Stato Sociale delle lettere che impedisce a qualsiavoglia pirata di fare la sua incursione sciamannata, non è il punto. Il punto ha a che fare con altre cose, ha più a che fare che ne so, con fondi europei non spesi per il recupero dei beni culturali, con la teoresi populista per cui non devono esserci fondi pubblici per la carta stampata, e anche ha a che fare con un concetto di imprenditoria culturale che riesce sempre di meno a cimentarsi con l’idea di investire molto per inventare nuovi bisogni estetici, nuovi miti, nuove domande culturali. E’ anche un punto sull’idea di cultura che ha chi ci lavora dentro, chi scrive. Quanto sono lavorati i libri che oggi abbiamo sul mercato? Quante stesure? Quanto lavoro di editing? Quanto sono pagati gli editor? Cosa viene richiesto nella fattura di un romanzo? Quanto poi si riesce a fare una pubblicità intelligente di quello che si produce nella filiera culturale? Come lettore forte io, non faccio nomi neanche sotto scudisciata, ho questo problema, e non è de Lellis, non è Ferragni, è l’investimento in termini di soldi, scommessa e pensiero che si fa nell’imprenditoria culturale italiana. Poi ho anche un secondo problema, che è la connotazione autoghettizzante, separata sempre più isolata che connota la comunità a cui appartengo. Come possiamo fare per allargare la nostra isola?

Modesta esortazione sentimentale

(Quando amate, non rispettate i vostri indugi, non siate clementi con le vostre incertezze, non proteggete la vostra infelicità, non fate conticini, non perdetevi in sofisticati archivi, petali di margherite, castelli di carte, abbecedari di sconfitte possibili. ( Se le mani tremassero nascondetele, se la voce si incrinasse, sorridete, serrate i tacchi, correte incontro, quando amate meglio che tutto sia perduto).

Quando amate, non litigate con quello che diventerete, non regalategli dei rimpianti, dei groppi in gola, dei congiuntivi passati e dolorosi, raccogliete fiori, riempitevi gli occhi, bevete quel che c’è da bere, siate volgarmente generosi, prendete quelle mani che trovate belle, accarezzate quel volto che non si leva dalla testa. Un giorno, potreste essere grati a queste parole.

Siate madri e padri di voi stessi, se necessario migliori di quelli che avete avuto, siate i figli obbedienti del vostro desiderio, imparate ad ascoltarvi presto, e a essere leali, cercate spudorati gli occhi altrui, interrogateli, agganciateli. Abbiate fiducia nell’intuito del sentimento, nella sfacciataggine del pensiero, abbandonate le ali protettive degli amici, smettetela di tenere il becco nella sabbia.

Quando amate, ad arrivare in fondo, non c’è mai sconfitta).

 

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Le chat

 

Ho abbandonato la musica pop da vent’anni, e anzi di più, ma ricordo distintamente come era quello che vedevo quando avevo tredici quattordici anni, e passavo i pomeriggi con Videomusic accesa mentre facevo i compiti. Così come ho notato, ogni volta che da più grande sono passata fuggevolmente davanti a un video, persino un senso di cara familiarità, di immota permanenza della simbologia che i video musicali mettono in campo. Non sono un’esperta del settore, ma mi pare che negli ultimi trent’anni, di ragazzine che si mettessero a quattro zampe vestite da gattine ce ne devono essere state a mazzi, e quando non erano gattine erano panterucce, e quando non panterucce leoncine. Il campionario felino aggressivo è sempre andato fortissimo nell’immaginario musicale, va detto – e ha radici molto più antiche, risponde a una declinazione della sfera sessuale delle donne, ma anche al modo di rappresentarla e viverla degli uomini. Le chat  è l’organo sessuale femminile, ancorchè una bellissima poesia di Baudelaire.

C’è da dire, che le micette dello spettacolo – in gran profusione anche nei programmi di prima serata della televisione, solitamente sono accompagnate da un uomo. Non di rado sono i cantanti, i musicisti a rappresentare lei come un felino che si dimena sessualmente al loro cospetto. Non sempre bisogna dire, con una idea di asimmetria di potere – qualche volta anche come una rappresentazione dell’aspetto seducente, e insieme minaccioso della sfida sessuale. Fatto sta comunque, che quando Ariana Grande ha fatto il suo video ( seven rings ) dove interpreta una gattina da appartamento un po’ bricconcella, non è che ha fatto molto di nuovo, o di illecito – né di particolarmente pericoloso per le giovani generazioni, anzi, forse è il segno dell’età che avanza, provo una certa simpatia per una ragazza che interpreta attivamente il ruolo dell’animale seduttivo, ricordandomi di quante docili cagnoline di aitanti maschioni ci siamo dovute subire, nella storia dell’industria culturale.

Questi pensieri, come qualcuno avrà intuito, sono stati suggeriti dalla inconsulta reazione di Fabio Volo, che ha recentemente descritto il video di Ariana Grande, criticandone gli abiti, le pose, definendole da puttana e via discorrendo, cercando di passare tutto questo come un affettuoso pensiero verso le giovani donne, le sue figliette, che se dovessero vedere il video della Grande si inzoccolirebbero sic et simpliciter nell’immediato. Quando, avrebbe esso detto, le donne sono come fiori, e quindi è meglio aggiungiamo noi, che tali rimangano.

Ora il povero Fabio Volo è stato abbondantemente castigato in rete e fuori, irriso, preso in giro e criticato, lui ha dovuto a quel punto replicare alle critiche, mantenendo giustamente il punto. Per quanto la tentazione sia fortissima, io invece, farei attenzione a criticare Volo, perché Volo, porta avanti clichet mentali, stereotipi culturali, che ai nostri contesti culturali sono propri da tanto tempo, che sono spesso stati rivendicati dai nostri giornali, e qualche volta anche dai nostri intellettuali, soprattutto dagli anni novanta in poi. Volo è l’erede di chi fa fatica a riconoscere la donna anche giovane come soggetto di desiderio, come soggetto che ama sedurre e giocare con la sessualità, ma è ancora di più l’erede di una criminale psicologia popolare ignorante zuccona quanto presuntuosa, solitamente rivendicata dalle frange laureate nella sua paradossale ignoranza, secondo cui un soggetto vede una cosa, una volta, due volte, tre volte, e la farà immediatamente.
Questo potere abnorme del condizionamento mediatico è sempre stato sottolineato particolarmente sia per i giovani ma tantissimo per le donne. E’ anoressica? Eh ma perché guarda i giornali di moda. Non vuole studiare e vuole fare la ballerina? Eh ma perché guarda la televisione. Secondo questa immortale retorica, che si cominciò a occupare di ragazze principalmente per disarcionare Berlusconi, ma secondariamente anche per cercare di ritrovare una titolarità delle donne nella cosa pubblica, l’ipersessualizzazione delle donne nelle immagini mediatiche, era la principale responsabile della subalternità delle donne nella sfera pubblica. Fabio Volo allora un po’ come una certa corrente del femminismo italiano . (Lo so’ t’ho fatto un torto scusa Fabio non te lo dico più).

Una certe corrente, si diceva. Non tutto. In realtà se c’è una cosa su cui il femminismo si è battuto, ha scritto libro e ha prodotto saggi, è la titolarità del desiderio sessuale, e del piacere nel provarlo e nel suscitarlo. Ariana Grande dice tutte cose zuzzurellone, si fa titolare di una comunicazione sessuale, come molte hanno fatto prima di lei, più o meno lolitesche. Non è nuovo, non scandalizza, ma dirò di più in una prospettiva psicologica ed evolutiva assolve anche una funzione simbolica, e capisco che il padre un po’ poco riflessivo Fabio Volo ne sia sbigottito, ma anche che si faccia fatica al giorno d’oggi a vedere questo aspetto. Il fatto è che Ariana Grande ha un pubblico di adolescenti, e quindi un pubblico di ragazzine che cominciano a fare i conti con il potere del corpo, i suoi significati, il piacere i simboli che possono essere esplorati. Se la vedono, quando la vedono, non è che la imitano – illico et immediater – ma come dire la archiviano e la tesaurizzano insieme a molti altri modelli analoghi che ora come allora i media proporranno. In generale l’adolescenza non per tutti, ma per molti, è proprio il momento in cui si esplorano queste dimensioni, questi aspetti, altro che fiori che devono essere colti, altro che immacolata immagine di se che deve rimanere conservata finché un uomo dabbene non la colga. Se era terribilmente azzeccata la ragazzina di Albachiara cantata da Vasco anni e anni fa, ma cosa si pensa che pensava quella ragazzina, quando faceva i pensieri strani? O Come devono esplorare la loro identità sessuale queste povere figlie, considerando il ruolo capitale che avrà nella loro vita? Saranno donne per sempre, e cominciano adesso.

Se vogliamo davvero, femministizzare Volo, pensiamo proprio che Ariana Grande e le sue socie – imprenditrici della capacità iconografica, siano il problema? Le giovani donne, con una certa cinica spregiudicatezza costruiscono un impero, quindi professionalizzano la loro performance e ne fanno una sagace forma di amministrazione e di reddito?
Quando ho visto Ariana Grande ho anche pensato a Madonna, alla quale plotoni di Fabio Volo dedicarono amareggiati strali, perché anche lei da like a vergin in poi, ne ha combinate di ogni, e una volta con i merletti e i crocifssi e il lecca lecca, e un’altra con la guepiere la seggioletta i maschioni e le punte di metallo, ma io mi ricordo, distintamente, quando leggevamo le interviste a lei, e capivano l’emergere del successo, della professione, della techne, e del potere.
Il potere, questo antico problema.

la poltrona dell’elefante

Si trovò a pensare alla cura come a un cambiamento di piano, un cavallo su cui salire, o ecco, pensò meglio, come alla proboscide di un elefante lento e gentile, che ti solleva dalla melma della trasparenza e ti consegna piano, più in alto, sulla poltrona autorevole della responsabilità. Ecco, dice l’elefante, ora scoprirai una cosa che non sapevi. Anzi, dice l’elefante, sono due le cose che devi scoprire.
Ora devi scoprire che puoi ferire, e devi scoprire quando lo hai fatto e non pensavi che fosse possibile.

Perché – continuò a pensare – la terapia finisce, e l’elefante ti lascia solo sulla poltrona della responsabilità. Si sta su questo trono che fa tenere la schiena ritta, come le sedie degli imperatori delle fiabe, e l’atmosfera i primi tempi è davvero regale persino elettrizzante. L’elefante non lo dice mai, ma sullo schienale di quella poltrona ci sono rubini e diamanti, gioielli notevoli, le forme imperfette dell’ infanzia che sono diventate preziose – addirittura.
(E allora, anche lui aveva assunto pose fascinose, e al tutto nuove. Si era esercitato a fare il monarca del presente: s’aggiustava mantelli di ermellino, teneva la testa dritta per non far cadere la corona. Stava sul trono, masticava libertà e qualcosa di somigliante al potere.
Si ritrovò a pensare a quel periodo, quando fece quei gesti incredibili, pazzi, impensabili. Si innamorò per esempio. Mise al mondo dei bambini. Aprì un ristorante, rispose impertinente alla suocera, abbracciò pure un amico.)

Per un po’ ci si dimentica della profezia dell’elefante. Tornò a riflettere. Tutto sommato, ci si sente sempre la stessa persona, ossia quella sul trono regale, ma simultaneamente la stessa che stava nella melma della trasparenza – e non ci si accorge di quanto, il cambio di posizione trasformi il modo di vivere, di pettinarsi, di pagare il conto del barbiere, e di spostare le sedie delle signore. Ma soprattutto, sulla poltrona dell’elefante, vengono spontanee cose come la tristezza e la carezza – ci si commuove al cinema per esempio, o si parla sottovoce a una ragazza troppo magra.
Ora però si trovò ad ammettere, che a un certo punto imprecisato della vita, anche se l’elefante non entra nel dettaglio, ma quando l’abitudine all’amore smette di essere lusso, e diventa qualcosa di domestico anche se certo mai ovvio (a questo non è dato arrivare) quando insomma si baciano le figlie femmine per portarle a scuola, o si aiutano i vecchi padri sulla sedia a rotelle, a un certo punto si guarda al passato, e si vede il male, che involontariamente si è fatto.

E questo è l’aspetto amaro e doloroso della poltrona dell’elefante. Dopo un po’ che uno ci accomoda, arriva a vedere il proprio passato, all’improvviso se ne hanno gli occhi e il tempo, e si osserva con vergogna se stessi in lontananza, quando ci si credeva trasparenti e rumorosi invano, e si dicevano freddure di gelo, si voltava le spalle credendo che non sarebbe stato importante, si era scostanti per proteggersi, sgraziati e cattivi. E non si può scendere a chiedere scusa, non si può correre a spiegare che non si credeva, non si voleva.

Per non parlare di chi si amava e si maltrattava, con la levità tipica degli infelici – che non sanno riconoscere una mela sana da una stregata.

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Combattere i pericoli in casa. Sul Femminicidio

Negli ultimi tempi – forse non solo in Italia – avviene un peculiare iter a ridosso dei fatti di cronaca, che potrebbe essere il segno di un nuovo dispositivo di correzione culturale e di progresso collettivo. Accade cioè un episodio di cronaca, in questo caso un femminicidio – che viene raccontato dai media con toni semplicistici e imbarazzanti, e che spesso si rivelano intrisi di una serie di stereotipi culturali, dopo di che questi articoli suscitano delle reazioni, in diversi canali social –twitter, facebook – reazioni che sono scritte, e che quindi diventano dei punti di vista articolati e interconnessi. A quel punto dagli stessi media arriva una correzione del tiro, una discussione di quei titoli che sono stati giudicati grossolani, e si propone la ricerca di un punto di vista diverso. Accade così che la qualità delle discussioni migliora, e rispetto a un tempo, aumenta il numero di persone che si fanno domande articolate rispetto a questo o a quel fatto di cronaca.
E’ una cosa importante, perché si tende a perdere di vista quanto la cronaca sia l’epifenomeno delle magagne irrisolte della politica pubblica: ogni furto, ogni rapina, ogni delitto – omicidio o femminicidio che sia, sono la schiuma di un fallimento del progetto amministrativo, stanno li a dire dove nella casa in cui abitiamo c’è un ballatoio pericolante, una presa scoperta, una porta che non si chiude. La maltrattata cronaca, guardata sempre con supponenza, è il termometro dello stato di salute della cosa pubblica. Qualsiasi delitto perciò, qualsiasi romanzo abbia a monte, merita una attenzione politica e amministrativa. E andrebbe trattato come un sintomo grave, che deve generare domande preoccupate – per esempio pensate per i più piccoli che abiteranno la casa. E se il giornalismo ha ancora una funzione, e io credo che ce l’abbia, il suo ruolo di oggetto intermedio tra cittadinanza e cosa pubblica, ha questa responsabilità: informare per un verso, per un altro, fare le domande giuste.
Quello che allora succede, è che spesso il nostro giornalismo di cronaca non riesce ad assumere da subito questo ruolo, spesso si schiaccia troppo nell’identificazione con il pubblico, con giornalisti che non scrivono né più né meno quello che direbbero alla moglie a casa, incoraggiati dalle direzioni di testata. Infatti, il settore è in crisi, e si creda che l’unica sopravvivenza sia la compiacenza, e si decide di scrivere sui giornali quello che le persone potrebbero dire anche senza, in modo che la difficoltà non li allontani. Per questo, la critica che viene dalla rete, è qualcosa che fa bene a tutti: cinicamente mi viene da pensare che, proprio per quella compiacenza, la critica aiuterà il dibattito pubblico ad alzare il tiro.

Ora qui abbiamo questo delitto nella vicenda di cronaca, ossia un femminicidio – un tipo di delitto ricorrente in Italia. Sta a significare, che oltre al tetto pericolante, oltre al ballatoio che trema, e alla spina che può dare la scossa, nella nostra casa c’è un pericolo specifico che riguarda le bambine. Le bambine della nostra casa – quelle cioè che per ora portiamo a scuola con la cartella, o quelle un po’ più grandicelle che cominciano ad avere un fidanzato, o a desiderarlo a casa propria corrono un rischio, perché poniamo ci sono dei frutti velenosi, che le ammazzano. Se la mettiamo così – ogni volta che una figlia del paese perde la vita, non è questioni di giganti buoni, di amori malati, e fregnacce di vario ordine e grado, che denotano anche una sorta di pigrizia nell’esercizio della professione, ma una questione di domande specifiche che hanno una ricaduta politica: come mai nella nostra casa ci sono dei frutti velenosi? Possiamo individuare delle ricorrenze? Ossia gli omicidi hanno delle cose in comune? Le donne vittime hanno degli aspetti in comune? Le relazioni con gli uomini che le uccidono hanno degli aspetti in comune? Esistono agenzie a cui possiamo rivolgerci che ci rispondano su queste domande? Esistono protocolli e codici che fronteggino questa emergenza? Sono sufficienti? Cosa si potrebbe fare in più? Ora io qui provo a rispondere a queste domande, sulla scorta della mia esperienza professionale nel settore. Considerate però queste risposte un punto di partenza e non un approdo. Una specie di riflessione preliminare.

1. Possiamo individuare delle ricorrenze? Gli omicidi hanno qualcosa in comune? Le vittime hanno qualcosa in comune? Le loro relazioni hanno qualcosa in comune?
Chi lavora con le vittime di violenza specie mantenendo una prospettiva clinica – individua diverse ricorrenze. La morte, ma anche le molte forme di violenza fisica che non giungono alla stampa, arriva in relazioni patologiche dove c’è una donna che rifiuta una relazione con un uomo. Spesso hanno avuto un rapporto, ma lei non ha intenzione di proseguirlo. Nell’ultimo fatto di cronaca, la relazione era di amicizia, ma la donna non aveva intenzione di andare oltre – i giornali ora dicono, anche a causa del suo orientamento sessuale. La mia congettura, è che però la psicodinamica degli eventi sia piuttosto simile alla maggior ricorrenza di casi di femminicidio. Come spiegava spesso Anna Costanza Baldry, che mi fa piacere ricordare qui, il femminicidio non avviene maggiormente in situazioni dove c’è una forte psicopatologia di entrambi i partner, per il semplice fatto che in quel caso, i partner non si lasciano, la fusionalità si mantiene, e abbiamo tuttalpiù relazioni profondamente violente che possono durare una vita intera, e difficilmente si romperanno. Il femminicidio – se si studiano da vicino le storie delle donne vittime, riguarda relazioni di modesta durata, se non del tutto assenti, dove c’è una prima vicinanza provvisoria delle parti, poi la donna per diversi motivi, compresi i comportamenti patologici e ossessivi, decide di chiudere. Spesso è cosa di mesi, o di pochi anni. In generale la combinazione più ricorrente che capita di osservare è quella di un partner con una problematica più importante, che riguarda la costruzione della personalità e il suo funzionamento, che entra in contatto con una donna che invece attraversa uno stato di transitoria fragilità, una depressione reattiva diciamo noi in gergo, dovuta a qualche episodio difficile della sua vita una grave malattia, un lutto, un divorzio. La ricorrenza che chi si occupa di violenza di genere riscontra, è che questo tipo di relazioni sono connotate da una grande fusionalità e un bruciare le tappe immediato. Il partner uomo, cioè si mostra immediatamente molto prodigo, innamorato, generoso di doni e di attenzioni, bruciando cioè anche molte fasi intermedie: non sta decidendo psicologicamente se quella donna lo interessa, sceglie con un senso di immediatezza totalizzante – spesso per esempio è da subito e già in casa, spesso propone velocemente la convivenza. Spesso è all’apice dell’amore ai primi giorni. Non è elegante citarsi, ma nel mio libro sullo stalking, una delle cose su cui invitavo a riflettere le giovani donne, è questo bruciare le tappe. Un uomo che ti ama senza conoscerti per niente, è un uomo che va a rincorrere qualcosa che non sei tu. (su questo punto tornerò dopo). Quello che infatti succede è che quando anche in virtù di una relazione iperamorevole la donna si sente più forte e la interrompe, siccome quell’esondazione di attenzione era correlata a un bisogno abnorme e patologico, quel bisogno esploderà generando delle reazioni aggressive e incontrollabili, da parte del futuro omicida che vanno in una escaletion – quella che nei centri antiviolenza è nota come la spirale della violenza – che poi esitano nell’omicidio. Che ci sia del patologico di mezzo, per me è fuori di dubbio, perché il comportamento è profondamente antiecononomico: l’uomo infatti ingaggia una serie di comportamenti che producono una falsa incorporazione ma si garantiscono una lontananza. La donna ha sempre più voglia di scappare, e in lei germogliano sentimenti sempre più ostili.

2.Esistono protocolli e codici che aiutino a fronteggiare questo problema? Agenzie a cui ci possiamo rivolgere?

Esistono, ma sono iinsufficienti, non coordinati tra loro, e sguarniti di risorse economiche – perché una cosa è certa, per riparare un danno alla casa ci vogliono soldi, e non dichiarazioni di intenti. Al momento i protocolli che vengono messi in campo a volte sono di aiuto – ma non fanno molto di più che suggerire alle persone cosa devono dire: allora sono stati pubblicizzati dei protocolli che aiutassero gli iter di denuncia, o protocolli che aiutassero per esempio i medici di pronto soccorso, quando arriva una donna vittima di violenza, e spesso tutti sanno un po’ meglio cosa dire (forse, dovremmo suggerire un protocollo per i giornalisti, a tal proposito) ma il dire non basta, perché il problema è inerente il territorio, e può essere non dico risolto ma almeno fortemente ridotto, con interventi sul territorio. Esistono per altro anche delle agenzie a cui ci si potrebbe rivolgere, e io ne individuerei due possibilmente in partnership tra loro (facile a dirsi, meno a farsi). Da una parte esiste oramai una sapere di psicologi, psicoanalisti, psicoterapeuti e psicologi sociali sulla violenza di genere, che si raccoglie intorno a convegni e bibliografie e che si sgola da tempo su questi fenomeni e su quello che sarebbe opportuno fare. Dall’altra c’è l’enorme esperienza dei centri antivolenza, delle persone che ci lavorano, dei dati di cui dispongono, e delle difficoltà che incontrano. Gli uni e gli altri hanno un grande sapere dietro le spalle, e hanno diverse idee su cosa è opportuno fare. E magari lo fanno anche, ma essendo operazioni che vengono dal basso, non riescono mai ad arrivare a una copertura nazionale, e rimangono iniziative che hanno una connotazione transitoria. Per fare un esempio: agenzie della rete DIRE particolarmente forti, fanno facciamo conto un ciclo di incontri presso i commissariati per spiegare come funziona la violenza di genere e studiare insieme un protocollo di intervento. Non li faranno su tutti i commissariati del paese, e oltre tutto questi incontri non reggeranno l’impatto del turn over dei dipendenti. Perciò quel lavoro avrà un effetto locale e di durata che potrebbe essere circoscritta. Potrebbe arrivare dopo un capo della polizia che ribadisce quanto appreso nel ciclo di incontri, ma anche quello che si dispone a cancellare tutto. Così come ci sono alcuni consultori che fanno una preziosa attività di intervento nelle scuole sui temi del sesso e della coppia e della relazione, ma sono alcuni si, alcuni no – alcune scuole aderiscono e altre no – non possiamo contare su una copertura di tutti gli istituti di formazione. Questo anche perché, si diceva, oltre al fatto che le iniziative sono frastagliate e localizzate, non vengono elargiti fondi: e il lavoro si paga. Se non ci sono soldi molte idee non possono essere messe in pratica.

3. Cosa si può fare di più?
Abitiamo dunque in una casa che tra i tanti pericoli ha questo: ci sono delle aree pericolose dove le figlie si possono far male. Possiamo anche dire meglio, dal momento che essere omicida non è una botta di benessere e neanche picchiare qualcuno che si dichiara d’amare è tutta questa gioia, anche i nostri figli maschi, nella nostra casa, corrono dei pericoli. La metafora secondo me ci aiuta, per individuare tre direzioni di intervento.
La prima riguarda la prevenzione del pericolo. Il dibattito è ampio, ma io penso che la prima questione sia quella di riuscire a intercettare le psicopatologie gravi e franche, e drenarle tempestivamente a un percorso di cura e contenimento. Questo vuol dire potenziare l’intervento psicologico nelle scuole, potenziare l’organico dei consultori e di tutto il sistema di salute mentale. Sono pronta a escludere, che un uomo che ammazza una donna che dice di amare, magari togliendosi poi la vita a sua volta, non abbia manifestato già in adolescenza segni di malessere che potevano essere raccolti e incanalati.
In questa logica di prevenzione io vedo anche un discorso da fare sul piano culturale. Personalmente sono molto perplessa quando si imputa al maschilismo un omicidio – perché il maschilismo è un partito politico, non una diagnosi psichiatrica. Io, ma è una distinzione mia, discrimino sempre tra contesti sociali misogini e contesti sociali maschilisti. I contesti sociali misogini sono quelli in cui c’è una franca psicopatologia diffusa che si culturalizza e si trasforma in una vendetta col femminile. In Italia è stata presente a lungo, e continua a esistere a macchia di leopardo, ma non identifica la totalità del territorio e a essere onesti manco la maggioranza. Esiste invece una cultura maschilista, che è una soluzione rispettosa delle donne, proponendo una divisione dei ruoli molto rigida. Io personalmente non voto quel partito, lo trovo nemico del progresso – e penso che costi benessere a molte e molti, ma mi sento disonesta a dire che non ci siano donne che ci campino benissimo, che sono felici e che formano con i loro partner coppie di genitori capaci. Però devo dire che il problema politico del maschilismo, è che nella sua divisione rigida dei ruoli e nella diversa priorità assegnata a uomini e donne nella sfera pubblica, finisce con il considerare non importanti i provvedimenti contro i pericoli che corrono le vittime di violenza. In questo senso, la cornice culturale del maschilismo è una delle principali cause della mancanza di investimenti politici nel contrastare il problema, o nel parlarne. Per questo, siccome l’amministrazione della casa è un tema politico, parte del nostro problema è combattere quello sguardo politico che non ci aiuta a ripararla. Discutere con la prospettiva maschilista e metterla in discussione, probabilmente non diminuirà tout court gli atti di violenza – ma diminuirà il numero di circostante in cui possono fiorire, e aumenterà il numero di rimedi su cui poter contare.

Ora, siccome la casa è grande e mettere tutti questi dispositivi, nella migliore delle ipotesi implica tempo e denaro, noi dobbiamo fare altre cose. Nelle nostre abitazioni, in attesa del tecnico che ripari il danno, noi ci diciamo cosa evitare per evitare di farci male. Perciò è importante lavorare con i giovani e le giovani per mettere in luce immediatamente quali modalità relazionali devono suscitare allarme. La letteratura specializzata offre degli spunti di riflessione, perché come si diceva sopra le relazioni che generano in stalking e violenza hanno molti punti di ricorrenza, e allora può essere molto utile mettere in guardia le giovani donne dai comportamenti che hanno l’odore di quella ricorrenza, anche se possono essere apparentemente molto lusinghieri perché vengono letti con grande interesse. Grandissimi interessamenti troppo precoci – regali fuori misura, gelosia esagerata, un generale bruciare le tappe e una mancata difesa dei propri spazi e dello spazio dell’altro, devono mettere sull’allarme. Ci si deve chiedere se l’altro è in grado di reggere l’assenza.

Infine, come spesso accade nei grandi edifici, quando c’è una parte pericolante e sinistrata – bisogna tenere in vita parti della casa dove poter andare quando si cade nel pericolo e il pericolo si fa consistente. Questi posti sono i centri antiviolenza per le donne, ma mi piace anche pensare che siano anche i gruppi di uomini, anche se hanno una efficacia ancora da dimostrare – il fatto stesso che esistano, è un messaggio politico di una casa che è di tutti e che si occupa di tutti. Ma perché questo ci sia occorrono naturalmente intenzioni, finanziamenti, e quindi – per chiudere il cerchio un’azione dei media – che da sempre sono il canale di comunicazione tra cittadini e cosa pubblica in entrambe le direzioni, che dimostri quella necessità anziché fare romanzetti di basso rango.

Sul pittoresco

 

La storia e il tempo cambiano il colore delle parole. Quando Burke scrisse il suo saggio sul bello e il sublime, correva l’anno 1757, e il pensiero dell’epoca intignava le nottate sui canoni dell’estetica, e delle sue relazioni con il nostro modo di pensare – per questo Edmund Burke – lord fuori e quacchero dentro – scrisse un saggio, in cui distinguere sublime da pittoresco: il primo si sarebbe riferito a quelle esperienze estetiche largamente coinvolgenti sotto il profilo emotivo, in grado di suscitare passioni forti, come lo spavento il terrore – esperienze estetiche suscitate da quelle visioni di realtà o di rappresentazione della potenza della natura: un vulcano in eruzione per esempio, una tempesta violenta che si abbatte su una vallata. Il secondo invece, avrebbe indicato la categoria delle emozioni gentili e urbane: pittoresche erano le rappresentazione il cui alla gradevolezza del paesaggio si immischiavano aspetti di disordine, magari un ponticello rovinato, una rovina romana. Pittoreschi erano certi quadri e pittoreschi per antonomasia sarebbero diventati i giardini all’inglese – con la loro deliziosamente perfetta casualità: il disordine profumato di un cespuglio di lavanda tra i sassi. L’erba verde e rigogliosa dei posti piovosi. Entrambe categorie applicabili sia alle produzioni pittoriche, che ai paesaggi osservati, ma pittoresco si rivelava essere un concetto deliziosamente british.

Nel concetto di pittoresco dell’epoca, rimaneva qualcosa di estremamente lieve, una suggestione gentile, una grazia, un’emotività socialmente spendibile: pittoresca era l’arte per le giovani signore, per le tazze di tea, per le risate tra gentiluomini un tantinello reazionari, ma anche per affaristi gradevolmente sentimentali. La rappresentazione pittoresca era quella di certe stampe di Roma antica che ancora allignano nei nostri ristoranti – con la verzura che cresce sull’orlo di un Tevere placido, un ponte rotto su uno sfondo, e magari una signorina con le parannanza stratificata che raccoglie dei fiorellini per esempio. In questo tipo di rappresentazioni, non affioravano amarezze e angosce, tuttavia qualche blanda malinconia: il pittoresco aveva in se l’evocazione dei tempi passati, l’eden dorato che sopravvive in un caos moderato. Un sentore di nostalgia vi era permesso.

Ma anche, un’allegra tolleranza. Il gusto del pittoresco è anche, il canto del cigno di un mondo separato, che può ignorare la morte, in sangue la malattia – il pittoresco è l’arte e l’arredo per il ricchi nel loro tempo libero, per chi si può proteggere in un coinvolgimento all’acqua di rose. Sussiego gentilezza. Non è un caso che lo stesso Edmund Burke che nel 1757 scriveva la sua Philosophical Inquiry into Origin of Our Ideas of Sublime and Beatiful, qualche anno più tardi avrebbe scritto, in un pamphlet, peste e corna della Rivoluzione Francese: con essa certi sguardi e certe percezioni, sarebbero state per sempre negati. Con la rivoluzione francese il pittoresco trova il suo giro di boa – e comincia a diventare il diletto delle sorelle materassi di tutti i tempi.

Non che mancassero le lotte di classe, il sangue e l’arena, prima della rivoluzione francese, ma fino ad allora le signore tutti i giorni, e i signori la domenica e le sera in cui andavano al club, potevano sforzarsi di non accorgersene – fondamentalmente perché fino ad allora avevano sempre vinto, e per giunta, qualcuno li aveva anzi fatti vincere lasciando le cuoia su campi di battaglia ben lontani dal focolare domestico, in posti raccontati e rappresentati ma quasi esotici quanto i nuovi continenti, e le foreste tropicali. Non vado oltre quella che è una mia impressione perché è roba da storici dell’arte che io non sono  – fatto sta che sotto il profilo lessicale, quando oggi diciamo pittoresco, pensiamo a tutte quelle stesse cose, di disordine moderato, di rovina artistica, di elemento suggestivo, ma con ben altro giudizio di valore. Ciò che oggi è pittoresco immancabilmente ci fa sorridere, qualche volta persino ironizzare.

Il pittoresco di oggi ha qualcosa di dolcemente anacronistico, isolato, immaturo. Nella sua sfera semantica è arrivata poi una nuova connotazione. Ciò che è pittoresco è oggi infatti anche profondamente caratteristico: e non solo – la sfera semantica del pittoresco ha cambiato luogo: dall’arte è stata definitivamente estromessa, per diventare un’icona del turismo – e anche piuttosto preziosa – al punto tale che solo raramente riusciamo a fidarcene. Il pittoresco della modernità riguarda infatti un posto che abbia mantenuto le sue connotazioni originarie, la sua identità e la sua spontaneità. Se l’occhio avverte la traccia della simulazione e della ricostruzione, lo charme dell’oggetto osservato va a farsi benedire. Perché un luogo sia pittoresco deve mantenere una sua incoscienza. Per questo il pittoresco oggi è un’araba fenice, un desiderio più emulato che soddisfatto. Non si sa lo sconforto che un turista un pochino smaliziato può avere se per dire fa una gitarella a nel Chianti, o in qualsivoglia paesetto toscano: parte di gran cassa alla ricerca di una bellezza diroccata e naif e ti trova un borgo antico si, ma così lindo e infiorettato, che ogni desiderio di verginità è andato via coll’ultimo bicchiere di vino rosso, anch’esso soavemente corretto con secchi di intrugli e barricato il giusto. Poverannoi. E quando non è così, quando la pittoresticità del luogo non è troppo consapevole, la nuova povertà la distrugge in maniera ancora più infame: le nostre coste un tempo così meravigliose e caratteristiche, sono infangate dall’efficienza della speculazione edilizia – dalla plastica dilagante.
L’autenticità è un valore nominale ma fondamentalmente la prospettiva contemporanea la disprezza.

E infatti – non è un caso, che pittoresco è usato spesso con un certo disprezzo. Pittoresco è l’uomo vestito in maniera stravagante, pittoresco oggi è l’arabo che in un consesso di potere tiene il suo costume nazionale. Pittoresca è la folle pretesa di non rispettare l’omologazione culturale, non già per chi ha un ossequio timoroso verso di essa, ma per una consapevolezza segreta e condivisa che con l’omologazione si dissimula la soggettività, si agisce nei sotterranei di una presunta uguaglianza, si evitano i rischi dell’individualità e si ottiene il dominio. E perciò, il paesaggio pittoresco è certo stimato dall’occhio del turista americano in visita nelle ultime contrade siciliane, ma solo per il breve lasso di tempo in cui può tesaurizzare uno sfondo insolito per i suoi ricordi di viaggio, per i suoi racconti ai colleghi, per il resto, l’attaccamento smanioso alla cultura popolare, la diffidenza nei confronti della piastra elettrica, quelle macchinine così rumorose e piccole, e le buganville, e il sole che si spacca sulle rovine di Siracusa, oh tutto ciò è decorativo si, ma terribilmente improduttivo, e arcaico, e ridicolo.
L’autenticità è un valore nominale. Ma l’omologazione è un potere reale.

Che cos’è l’amor

 

 

Già quando eravamo ragazzini, nei tornei amorosi delle scuole superiori, ci capitava di osservare la strutturazione del potere erotico degli altri compagni, e se avevamo già allora un occhio sufficientemente attento – spesso succedeva, era anzi motivo di dibattito e in qualche caso di stizza – vedevamo ragazze non particolarmente attraenti cominciare a inanellare fidanzati, o anche compagni di classe tutto sommato banali, diventare dei punti di riferimento, fino all’assumere ruolo di prede ambite. Nonostante la feroce e impietosa gerarchia estetica di quegli anni, le retrovie della classifica si impegnavano di già in esercizi erotici di tutto rispetto, mentre certe nostre amiche del cuore, che parevano avere tutto al suo posto e niente da invidiare, nelle feste di sabato, stavano nell’angolo del salone a fare, come si diceva allora – tappezzeria.

Il centro di quelle feste, era abitato da un tipo preciso di adolescente, quello cioè che era già in grado di interpretare con dimestichezza i valori culturali del gruppo sociale dominante, sia per temperamento, che per organizzazione di personalità, e in diversi fortunati casi, per aspetto fisico. Questo, non era necessariamente segno di benessere, perché anzi certi camaleontici adattamenti alla maggioranza avevano già un odore di disperazione, si poteva intuire che dentro c’era un eclisse di oggetti interni benevoli, un’identità personale percepita come inaffidabile e deludente, ma in quel frangente, funzionava ed era d’aiuto. C’erano dunque questi spavaldi,   nel mezzo dei soggiorni del sabato, vestiti come ci si doveva vestire, con il naso, i fianchi e gli occhi come dovevano essere, e i modi che obbedivano, tramite linguaggio, gesti, smorfie della bocca, al galateo di una generazione.

Volevo parlare di relazioni amorose, e loro accessibilità, e comincio dall’adolescenza, perché l’adolescenza è un momento interessante, è il punto di partenza, il momento storico della vita in cui, si scarta, si shifta consapevolmente dall’essere bambini e starsene nella propria organizzazione dunque edipica, amorevoli innamorati dei propri padri e delle proprie madri, all’investimento sentimentale e consapevole di qualcun altro fuori, il momento in cui dunque, alcuni nodi possono pure venire al pettine, e si comincia a vedere sul piatto delle relazioni quanto ci si sente in diritto di mettersi in gioco, di essere amati, quanto si è messo da parte da dare senza correre rischi. Certo, c’è la complicazione non trascurabile del corpo che cambia, e anche di uno stadio intermedio che spesso e volentieri è una prova ingrata, la pelle con i brufoli, le braccia che ciondolano, le ragazzine con le forme incerte, per non parlare dell’avvento del ciclo, la prima barba e via di seguito, ma con l’adolescenza comincia un processo, per alcuni relativamente breve, per altri troppo lungo, per altri che invece par non riuscire mai a trovare fine, di aggiustamento diciamo del patrimonio psichico, di riconfigurazione di stilemi relazionali che sono arrivati come esito di accudimenti spesso perfettibili.
Con l’adolescenza comincia la nostra carriera sentimentale.

All’inizio di questa carriera, gli standard collettivi dell’estetica e della desiderabilità sociale svolgono un ruolo tranquillizzante. E’ l’era dei divi mediatici, che nella loro irraggiungibilità spiegano bene perché si sta al di qua del guado erotico. Volendo baciare solo una divinità, si fa presto a spacciare come acerba tutta l’uva del mercato, e mentre si impara a sceglierla si rivelano utili– di contro, gli standard di comportamento chiamati in causa dall’ordine culturale: lei deve far capire a lui il suo interesse, ma lui sarà quello che dovrà invitarla a uscire, o diversamente seconda i codici vigenti, queste norme infatti, serviranno da rozzo know how tramite cui passare, per approdare alla relazione.
Simultaneamente però, mano mano che si procede a tentoni nell’esperienza, quella modellistica astratta del desiderio e del modo di fare verrà – auspicabilmente sostituita con l’agnizione delle tipicità del proprio desiderio e della propria identità. I meno nevrotici dunque, qualche passo dopo l’inizio della loro carriera sentimentale, cominceranno a capire qual è il tipo di persona che più li attrae sessualmente e sentimentalmente, scoprendo miscele di aspetti che prima ritenevano rigorosamente indipendenti l’uno dall’altra, e insieme scopriranno il loro modo di sedurre e trattenere, il loro modo di mettere in pratica quello che dovrebbe essere – sacrosanto diritto di essere amati.

Questo che dovrebbe essere un diritto, ha una matrice segreta nell’infanzia di ognuno, e passa invariabilmente dalle occasioni affettive importanti che un giovane adulto ha avuto da bambino, nell’esperienza con gli adulti che si occupavano di lui, la madre, per un verso, il padre per un altro. In un certo modo la madre per il maschi, in un certo modo il padre per le femmine. Nella organizzazione familiare del nostro sistema sociale, non l’unica possibile ma quella che struttura il nostro funzionamento come occidentali in ogni caso, è particolarmente rilevante anche il tipo di funzionamento di coppia che un bambino osserva nella sua coppia genitoriale. Quindi possiamo intravedere dei campi che stabiliscono modi e possibilità di esercizio di quel diritto di essere amati, perché la terribile profezia che l’organizzazione psicologica sovente fa avverare è che chi ha imparato l’amare, con chi non è stato in grado di fargli vedere che lo ama, e che lui sa amare, molto banalmente si ritroverà a fare in modo di non essere amato, in vari modi in cui la clinica descrive nel dettaglio con termini probabilmente più prosaici. A quel punto si verificano delle carriere sentimentali, alcune delle quali non conoscono ascese, altre un procedere lento e pieno di ostacoli, con relazioni vuoi distorte, vuoi infelici e burrascose, oppure piene di strani muri e complicati compromessi – relazioni connotate da inspiegabili distanze – o meglio, distanze che trovano apparenti motivazioni molto affidabili sul piano logico, che vengono credute come il fondamento di un costante fallimento, ma che invece non sono alla radice del problema.

Ci possono essere molti esempi, vari e diversi tra loro.
Per esempio, ci può essere il caso di un bambino che nasce da una madre che non avrebbe voluto dei bambini, per mettere in campo la sua identificazione con sua madre, che a sua volta non era mai stata contenta di essere madre, oppure per rimanere la figlia brillante e adorata di un padre, che ne ha sempre premiato le vicissitudini intellettuali e le sue prestazioni professionali. Queste storie sono storie lunghe, e coprono più generazioni, ma quella che a noi interessa, è la parte della storia del bambino che nasce da una madre, che proietta su di lui delle cose negative di se, e del suo mondo interno, da cui è spaventata e verso cui è diffidente. Questo bambino percepirà una madre rifiutante, che non ama stare con lui e giocare con lui, che non starà volentieri emotivamente dalla sua parte. Imparerà precocemente a cavarsela da solo, a risolvere dei bisogni senza fare domande, a non aspettarsi troppo – anzi ad aspettarsi il peggio, e questa sua indipendenza così come quella relazione con quel modo di essere amato, sarà la sua intimità e il suo canovaccio, cioè che conoscerà e troverà percorribile e attraente. Si innamorerà delle ragazze che hanno il carattere di sua madre, e dunque una patologia a lui complementare, e che non gli faranno correre il rischio di violare il suo spazio di autonomia, a cui oramai e abituato e che è la cosa più affidabile di cui dispone. Lo costringeranno a una addolorata mancanza di amore non ricambiato che gli è nota, e che potrebbe essere la sua coazione a ripetere. Un bambino così potrebbe essere uno di quei ragazzi di cui si dice che non sono attraenti, che altri mettono da parte, che si prendono nomignoli sgradevoli.

Oppure. Una bambina che è stata oggetto di un accudimento molto affettuoso quanto intrusivo ai limiti della violenza – per esempio a causa di una coppia di genitori, che la manipolavano eccessivamente, o che la stimolavano fino a farla stare male giocando con lei per esempio senza permetterle di prendere sonno da neonata, facendole il solletico da più grande ignorando le sue richieste di interrompere, fino a gesti magari sessualmente abusanti o in una zona grigia tra l’affetto e la blanda violazione, da parte di uno dei genitori, anche se non consapevoli sul piano cosciente, possono procurare una normativa interna di contrasto, di difesa dell’incolumità corporea, di barriera. Magari la bambina è stata vezzeggiata, e amata e messa al centro di una grande attenzione, ma allo stesso tempo come spesso accade in corrispondenza di questi comportamenti intrusivi, non c’è stata sintonizzazone sui suoi bisogni, e sulle sue necessità. Allora quella bambina diventerà una giovane adulta che per un verso sa scaldarsi delle attenzioni degli altri, ma per un altro troverà il modo di eludere il contatto fisico e portare le relazioni su un piano diverso, che non la metta in discussione. Tutti dicono che sono molto simpatica ma, dirà di se stessa un po’ più grande.

Le trame possono essere infinite, ma io porto questi due esempi, facendo riflettere sul fatto che in nessuno dei due casi, avremo una persona che dice coscientemente, di eludere le relazioni per mettere in atto coazioni a ripetere che hanno una storia antica, perché questa storia è assolutamente inconscia, non presente allo sguardo, quella storia si va scrivendo di nuovo tramite loro e loro malgrado, con scelte che servano a materializzarne l’esito come con una causalità di eventi. Persone che si rendono per esempio sgradevoli, e che fanno in modo che tutti pensino che siano poco attraenti, oppure persone che tendono a fare in modo di essere piacevoli, simpatiche, ma non amabili, che mettono in una linea assolutamente dimenticata, la comunicazione sessuale. Che diranno quello che anche altri diranno di loro. Non riesco a dimenticare quella persona. E’ chiaro che non piaccio a nessuno. Mi si vuole solo per l’amicizia. Non sono come quelle la, o come quelli. Il carattere. E una serie di cose, che hanno la loro porzione di verità. Si è fatto in modo che fossero vere.

Questa transizione del passato che diventa un mondo interno capace di determinare il presente, avviene con una serie di passaggi sofisticati e complessi, la cui descrizione meriterebbe un libro intero. Ma se prendiamo gli esempi che abbiamo fatto prima, il nostro ragazzo e la nostra ragazza diversamente angariati da accudimenti imperfetti, per esempio possiamo osservare che il ragazzo non amato, si sentirà pieno di oggetti sgradevoli e indegni, la rabbia del desiderio dell’altro, la convinzione di non meritarlo, il suo antichissimo bisogno di un materno che è invece respingente e inaccessibile. Questo ragazzo, metterà addosso agli altri questi panorami di sventura e di desiderio qualsi maligno dentro di lui, e farà in modo con i suoi comportamenti che loro li mettano in altro, e lo isolino e lo lascino da parte. La chiave per la lettura di queste vicende è molto kleiniana, e Melanie Klein è la teorica che ha individuato nell’identificazione proiettiva la razio di questo comportamento. Ho questa cosa brutta dentro, la metto nell’altro e la faccio agire, anche contro di me. Per esempio adotto comportamenti ridicoli, per esempio trascuro la mia igene, faccio delle cose che nel codice culturale del gruppo non sono solo eccentriche, ma prova di una marginalità. Molti casi di bullismo hanno questo disegno segreto nella psiche della persona bullizzata, io credo, in età adulta, anche molti casi di mobbing – ma per rimanere nel nostro argomento molte relazioni che finiscono male, o che per la verità neanche cominciano. Nelle storie molto gravi e dolorose anche diversi casi di stalking. Se ci pensiamo lo stalking è la storia di qualcuno che si ostina a imporsi con qualcuno che lo rifiuta con determinazione, sapendo che lo rifiuterà.

Questo accade certo, solo in alcuni casi. In generale gli accudimenti sufficientemente buoni prevedono una serie di risposte affettive da parte dei genitori che sono più intense in certe circostanze e meno in altre, secondo le proprie storie personali, ma con una discreta sintonizzazione tra figli e genitori che diventerà la base per buone sintonizzazioni da adulti con i propri partner. Certamente accudimenti più responsivi, ottimali e rassicuranti danno un arsenale migliore per affrontare le sfide dell’adolescenza prima e delle relazioni mature dopo, e la carriera decolla con più slancio, ma secondo me le cose sono come dire, filosoficamente più complesse. Infatti certi accudimenti diciamo moderatamente imperfetti insieme a delle difficoltà e a delle nevrosi mettono in campo dei pregi peculiari, che possono in un secondo momento diventare qualcosa che rende sicuri di se nell’attrarre gli altri. Per capire questa cosa, possiamo fare riferimento alla classificazione degli stili di attaccamento nell’infanzia, e agli studi che sono stati fatti per vedere come questi stili mantengono traccia nelle relazioni mature. Un esempio che amo molto – probabilmente non casuale – riguarda gli stilemi tipici dei bambini che hanno all’interno una organizzazione dell’attaccamento insicuro ansioso, i quali hanno avuto genitori dediti ma poco capaci di entrare in sintonia, e che hanno lasciato loro una costante incertezza dell’oggetto relazionale. Questi poi possono diventare, partner per esempio molto amorevoli, troppo presenti, insicuri, persone anche però verbose, con una specifica modalità di tenersi al sicuro e presso di se l’oggetto amato, che può diventare a sorpresa – seduttiva.  La persona con questo assetto, diventando adulta, potrebbe trasformare questa ansia, questo bisogno degli altri da sintomo a freccia nel suo arco, freccia del suo diritto di essere amato. Ehi, potrebbe dirsi quello che un tempo era un bambino molto incerto sulle decisioni bizzarre di sua madre, io sono capace di tenermi quella donna, sono capace di farla rimanere con me con il mio essere brillante e simpatico.

Spesso, in effetti, la vita ci cura. Certe relazioni diventano terapeutiche, e riescono a cambiare piano piano ma con efficacia, le organizzazioni interne della psiche. Il come questo accada è molto variegato e fascinoso, perché non c’è semplicemente una partner che dice, mi piaci nonostante le sciocchezze che fai per evitarlo, ma quello che succede è anche che siccome una persona dice, mi piaci nonostante le sciocchezze che fai, riuscirà a portare in vita, nella memoria inconscia del soggetto, altre parti operative, le forme di amore maldestro di cui è stato oggetto, dilaterà i suoi pregi, renderà meno operative le sue difese, strutturerà altri modi relazionali, o smusserà quelli che sono vigenti, ritenendoli accettabili, o lasciando che si incastrino bene con se.
In antri casi invece questo non succede, perché la normativa è talmente potente e rigida da disincentivare le prime occasioni, farle scartare violentemente, oppure farle durare troppo poco, a quel punto c’è anche da dire, che l’assenza di un partner per quanto desiderato, diventa la punta di un iceberg di un insieme di problemi che meritano di essere presi sul serio, perché facilmente la qualità della vita non è delle migliori, e tutto è probabilmente molto compromesso – e allora bisogna, davvero andare in terapia, perchè ne va della vita e la vita è importante.
Infatti, l’idealizzazione estetica astratta degli oggetti perfetti che si amano da lontano, e che nella loro astrazione disincarnata non rispondono in niente alla propria identità, non potrà mai eguagliare la completezza che da, la scelta individuata dell’altro, quello stare con l’altro che è esperienza dell’adolescenza prima, e poi mano mano che si cresce, sempre più individuata, per cui alla fine, la persona che si sceglie è quella che è il corretto complemento oggetto della nostra individualità formata in età matura.

Come a dire dunque, sintetizzando, che noi ci troviamo tra due fuochi, il primo dei quali è lo stile dell’affetto che ci mette al mondo, il secondo è lo stile dell’affetto che mettiamo al mondo. In mezzo c’è la nostra crescita personale, meno troviamo il nostro stile, più ci rifugiamo nella banalità astratta, meno ci mettiamo in gioco, più rimaniamo attaccati al primo dei due fuochi.