Coronavirus e comunicazione scientifica

 

In linea di massima sono portata ritenere che la divulgazione, di qualsiasi argomento, abbia sempre una funzione politica La divulgazione infatti è l’emissario di una democratizzazione del sapere, e la si fa – o si dovrebbe fare – nella convinzione che sapere le cose, implichi potere, autonomia, maturità rispetto agli interlocutori, risorse nella gestione della vita.
In alcune materie, come la medicina, e in alcuni frangenti, come la gestione di pandemie, o di questioni come i vaccini o le cure ancora non sperimentate, questi aspetti politici diventano preminenti, perché la comunicazione scientifica, non ha più la funzione della ridistribuzione di un sapere, della comprensione di una logica, ma anche lo scopo di cambiare i comportamenti di chi la recepisce. Ossia, chi scrive da divulgatore sul coronavirus, non deve ottenere solamente che chi legge il suo articolo sappia quanto è importante lavarsi le mani spesso, ma che lo faccia. Che arrivi a lavarsi le mani spesso. Non deve dire solo quali sono i sintomi per cui una persona non deve contattare il medico, ma ora diventa davvero importante che la persona non lo faccia. Lo scopo della comunicazione in certi frangenti e in certi argomenti è davvero molto diverso che in altri, l’economia delle reazioni ha altri fattori: se certe forme irrazionali sono funzionali per esempio alle fasi di una campagna elettorale, nella gestione di una epidemia non lo sono affatto. Diversamente che la rabbia e l’eccitazione per un leader infatti, che muovono voti e creano vantaggi materiali, rabbia angoscia e stati emotivi largamente irrazionali generano effetti negativi per tutti: intasano i pronto soccorso, non incoraggiano azioni logiche.
Invece l’obbiettivo della comunicazione scientifica in questo momento, è incoraggiare azioni logiche.

Le azioni logiche, si incoraggiano quando l’interlocutore – ossia il lettore o il telespettatore, ma anche l’utente di un social network che segua la pagina di un divulgatore – si sente preso sul serio – quindi non svalutato. Tutti noi sulle nostre bacheche possiamo in quanto privati cittadini fare le nostre battute sul virus, o sul panico per il virus, e su quanto sono sceme le persone con la mascherina etc, ma chi invece è un referente su questi argomenti, deve sempre mantenere un basso profilo e mostrare di non svalutare mai le persone impaurite, e il loro timore. Si deve ricordare che il suo scopo non è avere ragione teoricamente, ma modificare i comportamenti materialmente, e qui comportamenti non si modificano facendo sentire gli altri svalutati e i loro sentimenti sciocchi. Anzi. Non serve dire cretini, guardate che da mo’ si schiatta di influenza, né a scemi la mascherina non serve. Non serve prendere in giro chi non vuole prendere mezzi pubblici. Fare queste cose in termini di comunicazione emotiva infatti manda i seguenti messaggi: il primo è io che ti parlo e che so le cose, sono potente e migliore di te, che non le sai e conti meno di me. Il secondo è che della tua paura non so che farmene, e te la puoi tenere. La recezione psicologica di questo messaggio che nove volte su dieci è preso sul serio è: hai ragione io non conto niente, quindi se faccio o non faccio le cose che tu dici io debba fare, non cambierà niente, perché per te è già deciso che io non conto. In compenso sono terrorizzato come prima, tu non mi aiuti me la devo spicciare da solo, le cose che tu dici non mi servono.

Dal versante opposto – e vedo che la stampa in Italia è letteralmente impazzita – non bisogna emotivamente colludere colla paura dicendo all’interlocutore che lui è solo la sua paura, ha ragione di averne. La paura, è un sentimento potentissimo, ed effettivamente mette mano al portafoglio volentieri, ama essere rinfrancata e capisco che questa cosa per i mass media in crisi sia una manna, ossia abbia qualcosa di economico. I giornali con il panico si vendono di più  – gli sponsor sui banner saranno maggiormente intercettati. Ma siccome la pandemia riguarda anche i giornalisti e magari un po’ di eticità nella professione potrebbe giovare, forse sarebbe più opportuna una comunicazione diversa dalle promesse di angoscia che circolano sulla stampa, con titoli roboanti. Il titolone roboante in prima pagina con VIRUS a caratteri cubitale che occupa la metà dello spazio disponibile, è un dialogo tra profeti di sventura e amigdala e ippocampo dei lettori. Ossia tra spacciatori di panico e aree cerebrali che si attivano per il panico, e che saltano a piè pari o quanto meno sorvolano le capacità riflessive della corteccia frontale. Spaventati, siete sufficientemente spaventati? A quel punto, mettere poi nel trafiletto il povero virologo che dica che i tassi di mortalità sono piuttosto bassi e comunque è prudente lavarsi le mani spesso, sarà altamente depotenziato.
C’è il VIRUS, a centro pagina.

Quello che serve è che chi legge, o ascolta o si connette a internet, si senta una persona adulta responsabile di se e del prossimo, presa sul serio, con cui si sta parlando di cose serie tra pari. Il che avviene scegliendo con cura le parole nel dire cosa è opportuno fare e mostrando di prendere sul serio i timori di cui è eventualmente portatore.   Fornire dei perché quando è possibile non è peregrino. La capacità delle mani di toccare tante superfici e la nostra tendenza a toccarci il viso, la bocca con gesti automatici e irriflessi le rende per esempio un medium molto potente per il contagio, un medium più potente della nostra bocca: ed ecco perché lavarle spesso e a lungo è più protettivo di indossale una mascherina. Spiegare serve non solo a far capire – ma serveanche  a dire all’altro: io so che tu capisci perchè sei come me, che dici, ci conviene agire di conseguenza?.

Infine, due cose. La prima è che secondo me prendere in giro il panico in questo momento storico è una difesa da quel panico stesso che probabilmente potrebbe persino essere condivisa in qualche remota zona della coscienza, ma che funziona moderatamente perché il panico oggi ha una sua ragione oggettiva. Abbiamo vite più lunghe, facciamo pochissimi figli, questa unica vita che è la nostra non si perde per eredi e ora sappiamo che vale moltissimo. Rispetto a cento anni fa, centocinquanta, oggi è tutto diverso. Ai primi del novecento era un miracolo ancora arrivare all’età adulta, e insomma le probabilità di schiattare una consapevolezza amara continua e pervasiva, per cui insomma il panico non aveva ragione di essere. Nei libri di storia delle malattie si spiega per benino il perché l’atto più importante per i genitori era battezzare i bambini, perché si considerava probabile che i figli morissero presto. Non c’era la possibilità di fare altro. E’ comprensibile perciò che ora, che si ha la possibilità di controllare così tante cose, si abbia il terrore di non controllarne qualcuna, o che siccome non morire per problemi di salute è una possibilità concreta, se arriva una pandemia generi angoscia. E’ sciocco non prendere sul serio le ovvie conseguenze di cambiamenti socioeconomici così epocali.

In secondo luogo, se c’è una cosa che è complicata da un punto di vista cognitivo ed emotivo, è la gestione della media preoccupazione e del medio rischio, come è il caso del coronavirus. La normale influenza non ammazza nessuno, Ebola ammazza quasi tutti quelli che gli capitano a tiro, qui abbiamo un virus che ne ammazza pochi dei tanti che si prende, ma siccome se ne prende tantissimi non è proprio una sciocchezza. Dobbiamo saper stare quindi in una media preoccupazione. Non possiamo quindi né schiacciarci nella preoccupazione zero – fare come se niente fosse – né in quella del massimo pericolo fidandoci cioè del panico – il quale, ci è stato fornito non a caso. Dobbiamo saper stare nel mezzo anche se implica una sorveglianza emotiva importante – e un certo controllo cognitivo su quello che facciamo.
Mi sembra importante tenere conto di queste cose.

Diaristica

A mio padre piacevano poche delle cose che piacevano a me. Per esempio ascoltava della musica che non capivo. Ma il problema anche con mio padre, era che per l’esattezza avrebbe voluto ascoltare delle cose che non capivo, né io né nessuno, ma non trovava mai lo spazio, non sapeva prenderselo. Sicché queste cose che piacevano a mio padre, Luigi Nono, Husserl, erano per via della sua ritrosia, l’a priori della non comprensibilità, l’estetica non estetica per antonomasia, l’antimondo dell’esperienza.

(Mio padre aveva una vita segreta, circa un paio d’ore al giorno al mattino presto, prima che ci svegliasse a noi e ci facesse la colazione, in questa vita segreta leggeva cose che io poi avrei cercato di capire, di amarle, leggeva di filosofia della scienza mio padre, fino alle sette e mezzo, l’ora in cui cioè diventava mio padre e contribuente, e libero professionista di modesto talento, perché è difficile che lavori bene quando non sei te.
Penso che stesse anche con la gatta, in quelle ore del mattino. Forse una delle poche linee di continuità. )

Mio padre poi la sera si lamentava che per strada la gente non sorridesse affatto, e delle persone aveva un modo stralunato di parlare, di descriverle, come se avesse la consapevolezza di fare un ritratto inevitabilmente incompiuto. Amavo il suo modo di usare la parola “matto” – e anche il termine suo amato, “medico dei matti”. C’era nell’uso così premoderno del termine, e nelle facce buffe che faceva, la consapevolezza di un mistero e una forma di rispetto. Diceva matto, in un modo gentile, antigerarchico, orizzontale, forse ammirato del potere della bizzarria, ma con la consapevolezza della spina dolorosa. Mio padre certo sapeva)

(Nella vita ti cerchi maschi che si avvicinino a quella testa li, all’inizio, ma poi corri verso quelli che ci si si discostino pure, perché se no metteranno il meglio di se nelle ore prima delle sette e mezzo, tutto quello che sono prima della colazione con te, e allora dici no – meglio uno che ci ascolto le stesse cose che ci parlo degli stessi romanzi. Meglio un maschio diverso. Ma recentemente mi è capitato un amico che ha usato la parola matto allo stesso modo, parlava di chi sa che cosa di lavoro, ha detto “quello è matto sai”, poi si è mosso nervoso sulla sedia, ha girato il caffè, si è toccato gli occhiali , mi venuto da accarezzargli i capelli. Anche se non l’ho fatto).

Poi mio padre, a volte sembrava abitare su un’isola di quelle vicine a riva, che pensi, ma sai a nuoto ci arrivi presto, ma poi capisci presto un corno affogo a metà strada, allora ti metti a parlare co st’isola vicina che ti dice cose che capisci e non capisci, che boh chi sa che dice veramente. Per esempio qualche volta mi ha mandato delle lettere, parlavano di politica, e non ho mai saputo bene, se volevano dirmi qualcos’altro col pretesto del conflitto.
(Certe volte mi dico, ho fatto filosofia per prendermi quello che mi riusciva di capire di lui, poi mi dico, poi ho fatto il mestiere che ho fatto per capire quello che mi rimaneva di non capito).

 

(per una convergenza – qui)

Soggetti Eccentrici (solo un pochino, a proposito di Achille Lauro)

 

E’ da un po’ di tempo che studio la reazione al soggetto eccentrico. Perché la reazione al soggetto eccentrico, che sia su un palco o che sia nella vita, è molto spesso un’accusa di finzione, di giocare a, di recitare un ruolo – al fine, dice chi accusa, di trarre un beneficio. La frase che si sente dire più spesso è “vuole attrarre l’attenzione” che poi invece quando il soggetto eccentrico va in scena, è persona di spettacolo, è personalità pubblica, si decide che il soggetto eccentrico costruisce a tavolino un personaggio a fine di lucro. Il soggetto eccentrico vuole monetizzare l’attenzione che riesce a veicolare su di se. Oppure, altra accusa reiterata al soggetto eccentrico, è che a sua eccentricità è di seconda mano, per via di quella battuta da altri prima di lui. Rispetto a costoro, il soggetto eccentrico viene colto non come parallelo, non come analogo, come funzionamento e strategie esistenziali, ma come emulo, derivato, copiatore.
In pratica, non eccentrico.
E’ successo anche a molti suoi predecessori.

L’attenzione su di se, e la sua monetizzazione sono in linea di massima merce desiderata dalla grande maggioranza dei soggetti, per quanto a gradienti diversi, e ancora più oggi, come mai prima sono oggetti molto sostenuti culturalmente. Ma se già ai soggetti narcisisti che sono in massima parte molto amati e sostenuti da tutti, benché in totale incoscienza, una volta raggiunta la vetta gli si rimprovera la smania di potere e un interessato e falso calcolo delle strategie, quando sul palco – del pubblico e del privato – arriva il soggetto eccentrico, l’accusa diventa parossistica, il richiamo alla finzione un comma inderogabile, e anzi – diversamente dalla sorte a cui va incontro l’organico di successo, il politico votato, il cantante amato, la reginetta della festa, il soggetto eccentrico va incontro a un sordido disprezzo, o in alternativa a una esaltata ammirazione. L’eccentrico è comunque uno stratega, un calcolatore. Al soggetto eccentrico non si perdona la compartecipazione al comune modello ideologico e culturale che chiede di essere visibile e dichiarato amabile e fruibile. Qualcosa di lui genera stizza, e incredulità. E dunque per andare all’evento che ha sollecitato questo post– il cantante che monetizza la propria aderenza a un codice culturale, o la cantante, che quindi si veste auscultando i dettami del momento, e canta nella linea culturale del momento, verrà più volentieri accordata l’autenticità (specie bisogna dire se rasenta il podio ma non lo conquista), un valore di cui devo dire fatico sempre a trovare il senso, mentre il soggetto eccentrico è sempre un eroe del recitativo.

Intanto la questione dell’autenticità e del recitativo, della costruzione di se come altro da quel che si è, implica una retorica che trovo sempre bizzarra specie in questo momento storico ed economico – in cui il profluvio di merci a bassissimo costo garantito ai poveri del nostro primo mondo dagli ancora più poveri del terzo e del quarto, permette la costruzione di una identità pubblica anche ai livelli del proletariato urbano. Si va da Zara e ci si confeziona un habitus, un vestito identitario per il linguaggio pubblico – anche dovendo fare il commesso di una tavola calda di periferia. Eppure è una cosa che si sente dire spesso, anche nei corridoi degli uffici o nei pomeriggi con le amiche: nel giudicare qualcuno che non stia tutto il giorno in tuta con le bifocali, arriva sempre chi dice: “si è costruito il personaggio di quello che”. Oppure la variabile interessante è “fa tanto quello che” “fa l’intellettuale” “fa quello generoso” Oppure appunto “fa l’originale”. Nell’atto di scegliersi un habitus non si riesce a riconoscere una coerenza. Mai un’autenticità. L’autenticità è prerogativa – secondo la psicologia popolare – solo dell’introversione, solo della sottrazione di se solo dell’ostentazione di una semplicità. Anche se guardano con attenzione anche l’introversione che va per sottrazione mantiene un atto comunicativo identico a quello dell’eccentrico o del narcisista. Ci si veste in modo dimesso per comunicare all’altro di non essere interpellati, e via discorrendo.

Ma tornando all’eccentrico puro, c’è una serie di variabili che secondo me sfuggono sovente.
Il soggetto eccentrico è uno che è tale perché spesso ha delle idee molto confuse consciamente o meno su ciò che è desiderabile socialmente. E’ uno che maneggia un’estetica pensando principalmente a ciò che desidera per se, ciò che è bello per lui, o per lei – e che fa capo a un immaginario che probabilmente è almeno all’inizio – molto meno condiviso di quanto è orientato a credere. Anzi, il soggetto eccentrico ha un rapporto estremamente conflittuale con i codici culturali del contesto in cui è immerso, ne è attratto e respinto, li sente desiderabili ma spesso impraticabili, ha un’appartenenza ma una dissonanza, li prova a toccare ma ne rimane bruciato, li disprezza ma si sente inadeguato – va allora ad abitare un mondo suo, esteticamente minoritario ma convintamente condiviso che considera genuinamente interessante e che è spesso l’eredità adulta dei mondi immaginari e separati che frequentava da bambino, quando cominciava piuttosto precocemente a dimostrarsi meno attrezzato di altri al campo relazionale ed era, molto solo e isolato. Per via di quella inadeguatezza precoce,  il soggetto eccentrico è spesso qualcuno che per comunicare deve costruire dei ponti complicatissimi e pieni di decorazioni e simboli, anche a fronte di ruscelli molto esigui da attraversare. Comunica cioè allestendo distrazioni dalla comunicazione, raggiunge l’altro rallentando il contatto. (Questa costruzione di ponti contraddittori, ponti pieni di bellissimi cancelli, è non di rado la chiave di senso della pulsione artistica, che produce oggetti che vadano faticosamente dall’altro – e negli oggetti di quella fatica c’è l’opera d’arte  – capiscimi senza arrivare a me).

Quando ha del talento, quando imbrocca una serie di simboli e di oggetti culturali che possono intrecciare l’immaginario e i bisogni simbolici ed emotivi del suo interlocutore, colui cioè che sta dall’altro lato del ponte, il soggetto eccentrico diventa visibile, e identificato totalmente nel suo sofisticatissimo ponte comunicativo.  Prima abitava una marginalità  – prima abitava il ridicolo. Ora è salito sul podio del simbolo – per quanto molto distante e comunque non completamente colto. In fondo, sappiamo ben poco, indoviniamo ben poco di Achille Lauro, siamo però incantati o difffidentissimi per l’appunto da tutto il pacchetto comunicativo che Achille lauro ha messo in campo, e rimaniamo stupefatti del fatto che abbia intercettato una domanda simbolica collettiva – soprattutto della collettività femminile. La fatica della decodifica degli oggetti sul ponte, e l’insolita scelta di farsi amare in un modo tanto arzigogolato e diverso dalle psicologie di molti, il potere che ha da sempre quella (generalmente sofferente, ma mai dare niente per scontato) soluzione creativa, fanno scappare o in un’ammirazione che idolatra e iconizza, o in un disprezzo che svaluta e comunque – continua a iconizzare suo malgrado. In questo modo la condanna/successo del soggetto eccentrico si perpetra ogni volta. E’ amato e odiato, perché ha intercettato rappresentazioni di cui la collettività ha bisogno, ma rimane non raggiunto, e percepito come altro, altro che cortesemente dovrà continuare a rimanere.

Tutte queste cose mi sono state ispirate dalla visione di Achille Lauro, e del notevole dibattito che le sue performance hanno suscitato. Un dibattito che ha avuto come temi, la decodifica della masquerade, con tutta una serie di punteggi che riguardano il grado di svalolamento (“è uno svalvolato vero!” -” Noo è più svalvolato quell’altro” -” nooo non è svalvolato affatto”) il primato di eccentricità (“eh ma allora Renato Zero?”  “Ma allora Prince?”) con alcune ventate di ingenuità cosmica (“non è autentico perché l’ha vestito a Gucci” “è autentico perché la Regina Elisabetta”). E in più, almeno nella mia bolla una divisione per generi che risente dei tipi psicologici a me affini. I miei maschi – intellettuali e carismatici ma in linea di massima eterosessuali della vecchia scuola rimangono imbizzarriti e perplessi dal potenziale erotico che ha rivelato Lauro nel mostrarsi etero vestito da donna. I miei maschi omosessuali hanno genuinamente sperato di ritrovarselo nel letto per spiegargli che l’eterosessualità è un concetto superato, ma quelle che sono state interessanti sono state le donne della mia bolla, donne forti, professioniste, donne decise, che a vedersi questo ragazzone di due metri spicci e mezzo nudo che dice, “fai di me quello che vuoi” oltretutto con la loro gonnellina preferita, hanno trovato finalmente la reificazione di un sogno erotico inconfessato – l’agency sessuale del femminile, la donna che si mette a cavalcioni, una rappresentazione che da sempre ha abitato un campo onirico e simbolico poco battuto culturalmente – forse altrettanto imparentato con un Helmut Newton che con un David Lachappelle, che comunque le donne della mia bolla tendono ad apprezzare, anche richiamate da analoghe semantiche.

Non c’è niente di male in tutto ciò e forse c’è qualcosa di fresco e di utile. Se l’assenza di psicopatologia individuale per me combacia con la pluralità delle risposte comportamentali a sfide diverse, mentre la patologia si incarna nella tendenza a rispondere sempre con gli stessi comportamenti a occasioni differenziate, la psicopatologia di un gruppo sociale corrisponde alla povertà di modelli di comportamento e di codici relazionali, mentre la pluralità di proposte di habitus e di relazione, di modi di stare insieme e di vivere, è il segno della salute di un gruppo sociale. Perciò da sempre gli Achille Lauro, i Renato Zero, e via discorrendo a ritroso, sono rizomatici per i gruppi in cui emergono.

Potrebbero essere però ancora più utili, se si riconoscesse loro qualcosa che ci appartiene, qualcosa che è cosa nostra, se si lavorasse un po’ alla pluralità di immagini interne che ci abitano. Il rischio che corre il soggetto eccentrico anche apprezzato come tale, è che i suoi ponti siano belli quanto non del tutto attraversati, e dunque lui o lei, diventino sovranità incontrastate di mondi valori ideologie, sentimenti, occasioni, valori che saranno sempre iperuranici. Dunque il loro potere di guarirci e di renderci più complessi, rimarrà modesto – perché noi faremo finta che ci appartengono mentre staremo sempre qui, nella vita che abbiamo sempre fatto, nelle cose che abbiamo sempre avuto, e di cui ci siamo sempre lamentati e nei codici a cui abbiamo cercato di obbedire, anche quando non erano molto adatti a noi.

Una sottigliezza

 

(Non so come dirti che c’è una sedia di la, una sedia con i braccioli e il cuscino, è rosso il cuscino, ti ci puoi sedere. E’ quella vicino al tavolo. Sul tavolo c’è un gatto di porcellana, lezioso e datato – temo mi che mi prenderesti in giro per questo, per i cascami dei mondi perduti che trattengo – ma sul tavolo dicevo c’è anche del vino, Dio non voglia che tu mi prenda in giro anche per quello. E dei bicchieri.

Potresti sederti a questo tavolo, così penso si possa dire.
Per la luce hai due possibilità quella della lampada all’angolo, che si accende indovinando per terra l’interruttore, potresti cioè dover pestare a casaccio sul tappeto e questo ti metterebbe in imbarazzo, e la luce centrale che è vicino alla porta, che è discreta eh, non fa una brutta atmosfera, e quella è più facile, ha l’interruttore vicino all’anta destra. Però l’altra non posso negarlo – è migliore.
Cioè potrei dirti allora, accomodati accendi, arrivo subito.

Tu ti potresti dunque sedere, ti guarderesti intorno, forse apriresti una borsa grande, o uno zaino non so, oppure mi aspetteresti. Anzi sicuramente mi aspetteresti. Prenderesti il vino lo verseresti nei due bicchieri. Con una certa disinvolta fermezza, un sapere a prescindere. Ma non ci mangiamo niente? potresti dire a voce alta, in modo che io possa sentirti, e così, faresti anche in modo di rimettere in campo una intimità che la nuova sedia non garantisce, nella sua estraneità. O forse questo lo farei io. Tu sei un animale di sangue freddo, che scivola facilmente tra i fondi e la superficie.
Dunque. Ti verseresti il vino. Mi aspetteresti.

-Ti spierei un momento – ti raggiungerei. )

 

(qui)