Confusi appunti personali partendo dal velo islamico

(Premessa. 

In questi giorni per il libro a cui sto lavorando sulla psicodinamica delle violenze di genere, sto leggendo tanto sulle diverse condizioni delle donne nel mondo. Viaggio si può dire, soffermandomi tramite libri e film o articoli, su diverse realtà storico culturali.  Ora mi sono fermata nel grande oceano dell’Islam, e ho trovato molti argomenti  che mi hanno fatto riflettere. Diversi film alcuni articoli, diversi libri. Mi sono mossa intorno alle diverse forme di velo per le donne islamiche. Il libro che mi è piaciuto di più e che mi ha dato veramente tanto pane per riflettere è però quello di Renata Papicelli ll velo nell’islam: storia, politica, estetica. Uscito nel 2012, ma ancora reperibile. Lo consiglio a chi volesse farsi un’idea un po’ più sofisticata del nostro comune approccio. Io parto da questo libro qui, oltre che da una mia esperienza privata, per quanto remota. )

Le posture italiane su questa faccenda del velo hanno come aspetto di fondo una percezione monolitica del grande oceano islamico, anche negli occhi di pareri mediamente colti. Il grande oceano islamico, che ha arcipelaghi nel nostro occidente, e storie nazionali diverse l’una dall’altra, con organizzazioni culturali interne, e storie sociali ed economiche molto diversificate, è letto come un unico mondo, dominato da una visione religiosa, e molto maschilista. Il maschilismo dell’Islam, è una benedizione per i maschi occidentali, che nel biasimo delle gerarchie sociali che il velo incarna ai loro occhi, possono prendere due piccioni con una fava: rivendicare un orgoglio mediamente nazionalista che fortifichi la percezione della propria identità culturale, e passare per persone moderne e rispettose delle donne, nello scandalizzarsi per la vita che fanno quelle degli altri, nonostante mediamente delle difficoltà delle proprie non amino occuparsi eccessivamente. Le donne islamiche con il loro velo, sono inoltre, dai più progressisti, narrate come prive di agency, come prive di un discorso culturale loro proprio, e di una loro decodifica simbolica nel gesto cosciente di prendere il velo e agire con il velo, e una cospicua dose di eurocentrismo, fa pensare di defoult che, poiché porteranno tutte il velo, tutte quante poverine stanno a casa e non lavorano in una situazione subita e vessatoria.
Ora, fornire una mappatura completa della situazione delle donne islamiche non è in mio potere, non ne ho le competenze. Qui voglio solo sottolineare alcune cose da sapere, perché sono per me un punto di partenza per un ragionamento, il cui fine ultimo non è tanto riguardante il giudizio sulle donne mussulmane, quanto una riflessione generale per noi tutti.

Intanto alcune questioni di fondo.

  1. Nel mondo islamico ci sono: moltissime donne che non portano il velo. Moltissime che portano il velo, con un numero consistente di donne, forse la maggioranza, in base a una scelta ponderata e ragionata, sul significato attribuito al velo. In alcuni stati c’è l’obbligo del velo – per esempio Iran, Afghanistan, fino a poco tempo fa Arabia Saudita, in altri è stato per esempio proposto l’obbligo di non portarlo nei luoghi pubblici  – come per esempio in Tunisia – scatenando nella popolazione reazioni ambivalenti.
  2. Nel medesimo mondo islamico, anche in contesti più maschilisti e con derive culturali che possiamo definire misogine – le donne lavorano, sono nelle università, hanno carriere, anche se in diverse circostanze le carriere più prestigiose sono precluse. In buona parte del mondo islamico (ma questo aspetto mi pare trasversale a tanti contesti culturali): lavorano moltissimo in contesti informali, non rigidamente normati, quindi nell’agricoltura e magari nel commercio – dove in qualche caso riescono anche a costruire delle realtà economiche importanti. Rimane il fatto che trattandosi di contesti informali, sono contesti non giuridicamente tutelati. Contro una Tunisia che ha una legislazione molto progressista per i diritti delle donne, in molti aspetti equivalenti a quelli degli uomini, o situazioni accettabili come quella per esempio della Turchia oggi, ci sono diversi stati dove o c’è un vuoto normativo, oppure ci sono leggi di stampo patriarcale ispirate – teoricamente – al Corano.
  3. Credo che sia utile distinguere: le società islamiche che si muovono intorno a queste questioni rispettando movimenti così come vengono dal basso, e le società islamiche che invece normativizzano queste questioni imponendo delle regole dall’alto. Ai miei occhi quindi: il velo delle Iraniane la copertura totale delle Afghane, la nera divisa delle donne dell’Isis, sono molto diversi dal velo che mettono le mussulmane in occidente per esempio, o in luoghi quali Egitto, Algeria, o diversi paesi del medio oriente. Ma certo bisogna anche guardare alle cause che hanno permesso la costituzione di questo tipo di regimi.

In particolare individuo due aspetti che meritano riflessione, una riflessione che trascende la disamina del velo nell’Islam e della situazione delle donne islamiche.
La prima riguarda la semantica dell’abbigliamento occidentale, e il mondo che ha potuto evocare agli occhi dei non occidentali, nel tempo. 
Per molto tempo cioè il nostro stile di vita, simbolizzato con i nostri modi di vestire, compresi quelli delle donne, ha rappresentato per tanti mussulmani e dobbiamo dire tante mussulmane, che simultaneamente vivevano in condizioni economiche e talora climatiche decisamente svantaggiose rispetto alle nostre, una possibilità esistenziale offerta da una cultura avvertita come invasiva, potente, sfidante forte economicamente dominante, quindi a suo modo vincente. Questo nostro mondo, questa nostra estetica, queste nostre gonne corte, e questi nostri alcolici, questa nostra laicità sono stati recepiti come un’occasione, un desiderio, un vanto, una sfida, una promessa, un’illusione e una delusione. Per alcuni il nostro stare al mondo qualcosa da ottenere, per altri qualcosa verso cui non essere acquiescenti, per molti altri ancora qualcosa per cui servono tanti soldi e non ce ne sono –  e dunque il nostro sistema esistenziale è stato un sogno che ha tradito e ha lasciato al freddo, a stringersi nel velo.

L’uso del velo come oggetto identitario ha in molti casi a che fare con questa vicenda del sogno occidentale troppo lussuoso e non di rado troppo espulsivo. Le giovani che portano il velo in paesi europei ad alta immigrazione, dove comunità islamiche si ammassano in periferie non sempre salubri e non sempre seguite al meglio dai servizi sociali, si capiscono meglio intercettando in loro una risposta difensiva e identitaria, anziché congetturare un’eventuale e in realtà non sempre realistica imposizione da parte dei familiari del velo – secondo una dinamica minoranze/maggioranze che è simile anche per altri gruppi culturali.  Come molti simboli  e rituali delle comunità ebraiche per esempio, il velo è per un verso rivendicazione reattiva, ma allo stesso tempo genuina occasione per ripensarsi, rielaborare la propria storia il senso dei propri oggetti e pensieri. Ugualmente, le donne di paesi facciamo conto di area magrebina, soggette alla boria coloniale, possono spesso aver scelto il velo, e una serie di questioni correlate nello stile di vita, come rivendicazioni autonome rispetto a un’avanzata culturale percepita non come liberatrice ma come usurpatrice.

Il secondo aspetto riguarda, l’organizzazione del sistema sesso genere nel mondo islamico, di cui il velo diciamo è il simbolo più importante per noi. In questa organizzazione sesso genere, esiste un luogo amato, sacro, privato,  creativo e affettivo, emotivo , relazionale ed erotico – che è il luogo della casa e dei corpi liberi nella casa. Al centro di questo mondo, ci sono le donne i loro figli le loro relazioni, la vita nello spazio sacro della casa. Questo spazio sacro deve essere privato, libero, non giudicato, e il velo diventa in sostanza, la protusione protettiva di quello spazio sacro, il velo insieme all’abito che tende a coprire il corpo della donna, avvertito come da proteggere. E’ stato interessante per me scoprire che esistono diverse correnti all’interno di un grande femminismo islamico, una delle quali interpreta il velo come coercizione alla non azione, semantica del maschilismo e dell’assenza di libertà, mentre un’altra interpreta il velo come oggetto identitario da rivendicare, e strumento di protezione che consente alle donne di muoversi liberamente, di agire e dire cose senza che il loro corpo desti attenzione. Agli occhi di queste femministe islamiche, il non essere coperte delle donne occidentali le rende succubi del maschilismo di marca occidentale. Le donne occidentali devono continuamente sottostare alla performance del corpo sessuato e attraente. 

Da donna occidentale molto molto amante delle possibilità di vestirmi che offre il mio mercato e il mio orizzonte culturale, avverto sempre con molto fastidio qualsiasi femminismo islamico o occidentale che sia, che in modo sessista mi narra come oggetto parlato dal contesto e succube del desiderio maschile, e non come soggetto che vestendomi in un certo modo agisce simultaneamente su più livelli. Agisce cioè la sua sfera sessuale, decidendo se sedurre o meno, essere ammiccante o meno, e sopportando eventualmente la considerazione di qualcuno che possa dire – hai cinquant’anni stai fuori dal gioco del sesso, ma anche la sua sfera culturale e diciamo pure di classe, soggetto che fa sapere cioè quando si veste a che mondo appartiene, che gente frequenta, cosa pensa di tante cose. In quanto soggetto occidentale il mio personale è politico e penso di poter portare la mia soggettività privata nella sfera pubblica. 
Di contro, trovo altrettanto sessista raccontare le donne islamiche come abitate e succubi di un codice, salvo fatto il caso di alcune nazioni dove questo codice è imposto per legge. E penso che sia interessante rispettare la rinarrazione la riconfigurazione di un oggetto simbolico, come il velo una sua sorta di ricostruzione postmoderna e riproposta in modo politicizzato. Questa cosa la trovo interessante. 

Tuttavia, ragionare sulle donne islamiche il sistema sesso genere nei vari segmenti del mondo islamico, mi ha fatto mettere a fuoco meglio cosa rende le culture che io considero maschiliste per me problematiche politicamente, più di quanto siano le culture con apertura femminista. Il gradiente che varia di intensità è quello che divide il pubblico dal privato. Più maschilista è un progetto politico, più il privato è separato dal pubblico, mentre più un contesto sociale ha aperture femministe più il privato è mischiato con il pubblico legittimato e normato e quindi protetto. Di questo privato sono considerate principalmente titolari le donne, perché potendo essere madri sono quelle che generano privato, generano campi relazionali, in coloro i quali non possono generare con il loro corpo – gli uomini –  generano il pensiero  di essere soggetti di un potente campo gravitazionale, avvertito come sacro per un verso – pericoloso per un altro. Per cui, mentre il velo è un oggetto simbolico che muoversi in diversi contesti – società gravemente maschiliste fino a quelle misogine che cioè puniscono le donne per il potere che dimostrano, si somigliano tutte grandemente. 

Di contro esiste anche un’altra cosa che è importante sottolineare, a cui mi ha fatto pensare un imperfetto ma davvero piacevole e soave film – Barakah meets Barakah, del regista Mahmoud Sabbagh.  Nelle intenzioni del regista questo film è un film sulla morte dello spazio pubblico, che deve parlare di uno spazio pubblico desertificato, perché illecito, e lo fa parlando della complicata storia d’amore tra un impiegato comunale e una ricca instagrammer nella segregazione sessuale dell’Arabia Saudita. Dove la cultura tiene separati i generi in modo radicale e rigidamente gerarchizzato, a non essere liberi sono tutti.