Confusi appunti personali partendo dal velo islamico

(Premessa. 

In questi giorni per il libro a cui sto lavorando sulla psicodinamica delle violenze di genere, sto leggendo tanto sulle diverse condizioni delle donne nel mondo. Viaggio si può dire, soffermandomi tramite libri e film o articoli, su diverse realtà storico culturali.  Ora mi sono fermata nel grande oceano dell’Islam, e ho trovato molti argomenti  che mi hanno fatto riflettere. Diversi film alcuni articoli, diversi libri. Mi sono mossa intorno alle diverse forme di velo per le donne islamiche. Il libro che mi è piaciuto di più e che mi ha dato veramente tanto pane per riflettere è però quello di Renata Papicelli ll velo nell’islam: storia, politica, estetica. Uscito nel 2012, ma ancora reperibile. Lo consiglio a chi volesse farsi un’idea un po’ più sofisticata del nostro comune approccio. Io parto da questo libro qui, oltre che da una mia esperienza privata, per quanto remota. )

Le posture italiane su questa faccenda del velo hanno come aspetto di fondo una percezione monolitica del grande oceano islamico, anche negli occhi di pareri mediamente colti. Il grande oceano islamico, che ha arcipelaghi nel nostro occidente, e storie nazionali diverse l’una dall’altra, con organizzazioni culturali interne, e storie sociali ed economiche molto diversificate, è letto come un unico mondo, dominato da una visione religiosa, e molto maschilista. Il maschilismo dell’Islam, è una benedizione per i maschi occidentali, che nel biasimo delle gerarchie sociali che il velo incarna ai loro occhi, possono prendere due piccioni con una fava: rivendicare un orgoglio mediamente nazionalista che fortifichi la percezione della propria identità culturale, e passare per persone moderne e rispettose delle donne, nello scandalizzarsi per la vita che fanno quelle degli altri, nonostante mediamente delle difficoltà delle proprie non amino occuparsi eccessivamente. Le donne islamiche con il loro velo, sono inoltre, dai più progressisti, narrate come prive di agency, come prive di un discorso culturale loro proprio, e di una loro decodifica simbolica nel gesto cosciente di prendere il velo e agire con il velo, e una cospicua dose di eurocentrismo, fa pensare di defoult che, poiché porteranno tutte il velo, tutte quante poverine stanno a casa e non lavorano in una situazione subita e vessatoria.
Ora, fornire una mappatura completa della situazione delle donne islamiche non è in mio potere, non ne ho le competenze. Qui voglio solo sottolineare alcune cose da sapere, perché sono per me un punto di partenza per un ragionamento, il cui fine ultimo non è tanto riguardante il giudizio sulle donne mussulmane, quanto una riflessione generale per noi tutti.

Intanto alcune questioni di fondo.

  1. Nel mondo islamico ci sono: moltissime donne che non portano il velo. Moltissime che portano il velo, con un numero consistente di donne, forse la maggioranza, in base a una scelta ponderata e ragionata, sul significato attribuito al velo. In alcuni stati c’è l’obbligo del velo – per esempio Iran, Afghanistan, fino a poco tempo fa Arabia Saudita, in altri è stato per esempio proposto l’obbligo di non portarlo nei luoghi pubblici  – come per esempio in Tunisia – scatenando nella popolazione reazioni ambivalenti.
  2. Nel medesimo mondo islamico, anche in contesti più maschilisti e con derive culturali che possiamo definire misogine – le donne lavorano, sono nelle università, hanno carriere, anche se in diverse circostanze le carriere più prestigiose sono precluse. In buona parte del mondo islamico (ma questo aspetto mi pare trasversale a tanti contesti culturali): lavorano moltissimo in contesti informali, non rigidamente normati, quindi nell’agricoltura e magari nel commercio – dove in qualche caso riescono anche a costruire delle realtà economiche importanti. Rimane il fatto che trattandosi di contesti informali, sono contesti non giuridicamente tutelati. Contro una Tunisia che ha una legislazione molto progressista per i diritti delle donne, in molti aspetti equivalenti a quelli degli uomini, o situazioni accettabili come quella per esempio della Turchia oggi, ci sono diversi stati dove o c’è un vuoto normativo, oppure ci sono leggi di stampo patriarcale ispirate – teoricamente – al Corano.
  3. Credo che sia utile distinguere: le società islamiche che si muovono intorno a queste questioni rispettando movimenti così come vengono dal basso, e le società islamiche che invece normativizzano queste questioni imponendo delle regole dall’alto. Ai miei occhi quindi: il velo delle Iraniane la copertura totale delle Afghane, la nera divisa delle donne dell’Isis, sono molto diversi dal velo che mettono le mussulmane in occidente per esempio, o in luoghi quali Egitto, Algeria, o diversi paesi del medio oriente. Ma certo bisogna anche guardare alle cause che hanno permesso la costituzione di questo tipo di regimi.

In particolare individuo due aspetti che meritano riflessione, una riflessione che trascende la disamina del velo nell’Islam e della situazione delle donne islamiche.
La prima riguarda la semantica dell’abbigliamento occidentale, e il mondo che ha potuto evocare agli occhi dei non occidentali, nel tempo. 
Per molto tempo cioè il nostro stile di vita, simbolizzato con i nostri modi di vestire, compresi quelli delle donne, ha rappresentato per tanti mussulmani e dobbiamo dire tante mussulmane, che simultaneamente vivevano in condizioni economiche e talora climatiche decisamente svantaggiose rispetto alle nostre, una possibilità esistenziale offerta da una cultura avvertita come invasiva, potente, sfidante forte economicamente dominante, quindi a suo modo vincente. Questo nostro mondo, questa nostra estetica, queste nostre gonne corte, e questi nostri alcolici, questa nostra laicità sono stati recepiti come un’occasione, un desiderio, un vanto, una sfida, una promessa, un’illusione e una delusione. Per alcuni il nostro stare al mondo qualcosa da ottenere, per altri qualcosa verso cui non essere acquiescenti, per molti altri ancora qualcosa per cui servono tanti soldi e non ce ne sono –  e dunque il nostro sistema esistenziale è stato un sogno che ha tradito e ha lasciato al freddo, a stringersi nel velo.

L’uso del velo come oggetto identitario ha in molti casi a che fare con questa vicenda del sogno occidentale troppo lussuoso e non di rado troppo espulsivo. Le giovani che portano il velo in paesi europei ad alta immigrazione, dove comunità islamiche si ammassano in periferie non sempre salubri e non sempre seguite al meglio dai servizi sociali, si capiscono meglio intercettando in loro una risposta difensiva e identitaria, anziché congetturare un’eventuale e in realtà non sempre realistica imposizione da parte dei familiari del velo – secondo una dinamica minoranze/maggioranze che è simile anche per altri gruppi culturali.  Come molti simboli  e rituali delle comunità ebraiche per esempio, il velo è per un verso rivendicazione reattiva, ma allo stesso tempo genuina occasione per ripensarsi, rielaborare la propria storia il senso dei propri oggetti e pensieri. Ugualmente, le donne di paesi facciamo conto di area magrebina, soggette alla boria coloniale, possono spesso aver scelto il velo, e una serie di questioni correlate nello stile di vita, come rivendicazioni autonome rispetto a un’avanzata culturale percepita non come liberatrice ma come usurpatrice.

Il secondo aspetto riguarda, l’organizzazione del sistema sesso genere nel mondo islamico, di cui il velo diciamo è il simbolo più importante per noi. In questa organizzazione sesso genere, esiste un luogo amato, sacro, privato,  creativo e affettivo, emotivo , relazionale ed erotico – che è il luogo della casa e dei corpi liberi nella casa. Al centro di questo mondo, ci sono le donne i loro figli le loro relazioni, la vita nello spazio sacro della casa. Questo spazio sacro deve essere privato, libero, non giudicato, e il velo diventa in sostanza, la protusione protettiva di quello spazio sacro, il velo insieme all’abito che tende a coprire il corpo della donna, avvertito come da proteggere. E’ stato interessante per me scoprire che esistono diverse correnti all’interno di un grande femminismo islamico, una delle quali interpreta il velo come coercizione alla non azione, semantica del maschilismo e dell’assenza di libertà, mentre un’altra interpreta il velo come oggetto identitario da rivendicare, e strumento di protezione che consente alle donne di muoversi liberamente, di agire e dire cose senza che il loro corpo desti attenzione. Agli occhi di queste femministe islamiche, il non essere coperte delle donne occidentali le rende succubi del maschilismo di marca occidentale. Le donne occidentali devono continuamente sottostare alla performance del corpo sessuato e attraente. 

Da donna occidentale molto molto amante delle possibilità di vestirmi che offre il mio mercato e il mio orizzonte culturale, avverto sempre con molto fastidio qualsiasi femminismo islamico o occidentale che sia, che in modo sessista mi narra come oggetto parlato dal contesto e succube del desiderio maschile, e non come soggetto che vestendomi in un certo modo agisce simultaneamente su più livelli. Agisce cioè la sua sfera sessuale, decidendo se sedurre o meno, essere ammiccante o meno, e sopportando eventualmente la considerazione di qualcuno che possa dire – hai cinquant’anni stai fuori dal gioco del sesso, ma anche la sua sfera culturale e diciamo pure di classe, soggetto che fa sapere cioè quando si veste a che mondo appartiene, che gente frequenta, cosa pensa di tante cose. In quanto soggetto occidentale il mio personale è politico e penso di poter portare la mia soggettività privata nella sfera pubblica. 
Di contro, trovo altrettanto sessista raccontare le donne islamiche come abitate e succubi di un codice, salvo fatto il caso di alcune nazioni dove questo codice è imposto per legge. E penso che sia interessante rispettare la rinarrazione la riconfigurazione di un oggetto simbolico, come il velo una sua sorta di ricostruzione postmoderna e riproposta in modo politicizzato. Questa cosa la trovo interessante. 

Tuttavia, ragionare sulle donne islamiche il sistema sesso genere nei vari segmenti del mondo islamico, mi ha fatto mettere a fuoco meglio cosa rende le culture che io considero maschiliste per me problematiche politicamente, più di quanto siano le culture con apertura femminista. Il gradiente che varia di intensità è quello che divide il pubblico dal privato. Più maschilista è un progetto politico, più il privato è separato dal pubblico, mentre più un contesto sociale ha aperture femministe più il privato è mischiato con il pubblico legittimato e normato e quindi protetto. Di questo privato sono considerate principalmente titolari le donne, perché potendo essere madri sono quelle che generano privato, generano campi relazionali, in coloro i quali non possono generare con il loro corpo – gli uomini –  generano il pensiero  di essere soggetti di un potente campo gravitazionale, avvertito come sacro per un verso – pericoloso per un altro. Per cui, mentre il velo è un oggetto simbolico che muoversi in diversi contesti – società gravemente maschiliste fino a quelle misogine che cioè puniscono le donne per il potere che dimostrano, si somigliano tutte grandemente. 

Di contro esiste anche un’altra cosa che è importante sottolineare, a cui mi ha fatto pensare un imperfetto ma davvero piacevole e soave film – Barakah meets Barakah, del regista Mahmoud Sabbagh.  Nelle intenzioni del regista questo film è un film sulla morte dello spazio pubblico, che deve parlare di uno spazio pubblico desertificato, perché illecito, e lo fa parlando della complicata storia d’amore tra un impiegato comunale e una ricca instagrammer nella segregazione sessuale dell’Arabia Saudita. Dove la cultura tiene separati i generi in modo radicale e rigidamente gerarchizzato, a non essere liberi sono tutti.

l’epopea del super – io

Io es e super Io/passato e presente

Tra i concetti che maggiormente sono filtrati nel nostro lessico comune dalla teoria freudiana, c’è quello di Super io, e in generale tutta la cosiddetta seconda toponomastica freudiana. Se infatti in una prima suddivisione delle aree della personalità, Freud aveva parlato di Conscio Preconscio e Inconscio, a partire dal 1923,  con il libro L’io e L’es, introduce una nuova tripartizione: tra io es e superio, che avrà un grande successo, scavalcherà il lessico degli addetti ai lavori, e precipiterà nel  bagaglio lessicale della cultura media, diventando l’ambito, almeno per alcuni di alcune, in cui effettuare nuove riflessioni, e da cui partire per nuove teorie sociali. 

Nella accezione condivisa di questa toponomastica freudiana: la psiche dell’individuo avrebbe tre grandi regioni. L’io che riguarderebbe le caratteristiche della personalità sotto il dominio della coscienza, l’inconscio che riguarderebbe pensieri sentimenti fantasie e pulsioni che nella coscienza non sono chiaramente percepite, e che alla fine corrisponderebbe maggiormente all’area delle pulsioni e dei desideri, infine il super io che sarebbe il luogo dove si introiettano compiti, leggi doveri e obblighi, e che guiderebbe materialmente le azioni. 

 Ora con il beneficio della sintesi, notiamo che nel nostro pensare collettivo: all’io si associa il pensiero, all’es si associano i desideri e i pensieri illeciti, al super io il dovere e il senso di colpa. Ne consegue che possiamo osservare come ad oggi: l’io grosso modo sia dato per scontato, l’es goda di grande popolarità e continui a essere molto cool, il super io, invece, goda di pessima stampa, sia passato di moda, e se proprio si deve parlare di super io è perché porta rogna. Il senso di colpa infatti, la rogna princeps in dotazione dal super io, la pena psichica che infligge quando non si ascoltano le sue richieste, è considerato ad oggi – un nemico del popolo.

La vecchia tripartizione freudiana descriveva l’organizzazione di una psicologia individuale,  che emergeva in una storia socialmente molto definita nei ruoli e nei compiti psichici all’interno della famiglia, con regole piuttosto chiare in merito alla puericultura. Il titolare di questo triumvirato nasceva infatti come bambino in mezzo a una selva di bambini, lui come gli altri generato da una madre, che si occupava per l’appunto del generare, del nutrire e del fornire cure affettive, e di un padre che invece, avendo da mantenere sul groppone la moglie e la mandria di pargoli, stava fuori casa, teneva tante responsabilità, era l’uomo del mondo delle regole e della legge. Quindi molto grossolanamente nella psicologia di allora si riteneva che, l’andazzo psichico con cui il soggetto gestiva l’affettività il desiderio e il diritto a desiderare molto aveva a che fare con la qualità dell’accudimento materno, mentre l’introiezione del senso del dovere, di responsabilità e il rapporto con l’etica avesse molto a che fare con la qualità della presenza paterna. Laddove poi l’uno o l’altra fossero stati grandemente inefficaci l’incompetenza psichica si allargava a entrambi i fronti. 

Padre, super io senso del dovere, sono andati fortissimo per tutto il novecento, fino direi le soglie del sessantotto, per una ideologia dell’esperienza e della percezione di se quotidiana adatta a una antropologia dominata dalla povertà, dalla rinuncia, dall’impossibile esercizio del desiderio. Non c’erano abbastanza soldi per rispettare le proprie ambizioni. La realizzazione di un sogno di se – artificio retorico oggi ampiamente sostenuto – era percepita come un giocattolo regressivo e bizzarro più che un progetto lecito, e l’osservanza della legge e della norma morale condivisa di contro, diventava l’unico ritorno narcisistico di cui poter fruire blandamente. Le figlie si accollavano la prole, i figli i lavori di merda, i matrimoni saldature eterne e senza ritorno, e ci si poteva insomma vantare con se stessi di essere gente ammodo – mentre l’area del segreto e della perversione si prendevano nell’ombra modeste e misteriche rivincite. Bordelli, sotterfugi, riviste nascoste sotto ai materassi, relazioni omosessuali in posti esotici e lontani, orge in festini appartati, calendari sull’armadietto della palestra. Ma anche – molto molto desiderio disperso e disperato.

Il sessantotto, il boom economico, la fioritura di un benessere che almeno nel primo mondo non ha mai avuto precedenti, unitamente al crollo delle nascite, hanno messo in crisi l’organizzazione esistenziale tarata sul potere del superio, e hanno messo al centro un’idea psichica di io intessuto di es, dove il piacere il benessere sono divenuti al centro della retorica esistenziale, fino all’assurgere a nuovo imperativo kantiano. Sii il tuo io. Ma anche intercetta il tuo es.  Le madri delle pubblicità novecentesche erano ossessionate dalla responsabilità verso la prole, quelle di oggi sono assediate dallo standard del divertimento garantito, rispetto cui la prole non deve rappresentare un argine, e guai a te se lo temi. I figli diventano pochi, pochissimi, l’emancipazione frettolosa dai genitori qualcosa che può essere subordinato all’idea di una realizzazione di se che vada sotto l’egida della mimetica realizzazione dell’ideale di se. In aggiunta a ciò l’aerea possibilità di raccontarsi come si vuole essere visti, e di narrare i mondi come li si vorrebbero abitare, dataci poi in dono dall’avvento di internet e dei social, per cui socializziamo indefessamente i nostri progetti esistenziali, ha dato alla teoresi superegoica il colpo di grazia. Il senso di colpa è diventato un accessorio disturbante, una spina nel fianco, qualcosa per cui andare eventualmente in consultazione. Qualcosa da azzittire in vista del nuovo trono imperiale presieduto da un ricamato progetto di se.
Dottoressa! Mi ha detto recentemente una paziente. Io mi sento spesso in colpa! Mi dispiaccio!
E non è contenta? Ho risposto provocatoriamente.

Una cosa un po’ controintuitiva che si capisce studiando psicologia, è che ogni comportamento, ogni schema mentale ha una sua possibile funzione adattiva. E’ il suo esondare a creare patologia, non il suo esserci. Tante parole psicologiche che associamo al malessere sono funzionali a uno scopo. L’ansia ci protegge dai pericoli. La depressione ci fa elaborare le perdite, la scissione polarizzante ci fa affrontare i nemici e ci fa trovare la forza per combatterli, e così anche il senso di colpa e il suo tetro e antiquato emissario, il super -io possono essere nostri alleati. I problemi sorgono diagnosticamente parlando, quando avendo noi a disposizione tante strategie per organizzare i comportamenti tendiamo a utilizzarne sempre alcune a discapito di altre. A quel punto ci si confronta con delle ansie inappropriate, con un disturbo depressivo, con modalità frequentemente conflittuali e via discorrendo in un elenco di problemi che molto spesso intossica il prossimo oltre che se stessi. ( In effetti – è molto faticoso sopportare il fuoco di fila della sintomatologia altrui. )  

L’epoca della possibile realizzazione identitaria

Ora la nuova struttura delle nostre forme familiari e sociali ci mette nella condizione di dover riconfigurare il nostro antico triunvirato – nei ruoli della coscienza, del desiderio e del giudizio, senza però doverci rinunciare, in vista di una nuova gestione dei nostri progetti di vita. Il nostro fare meno figli, il nostro essere nati da famiglie nucleari per andare a fondare nuove famiglie nucleari – di varia foggia e grado – per un verso ci rende difficile l’emancipazione dai genitori, per un altro ci rende più facile l’essere genitori. Diventa difficile avere la pulsione per andarsene di casa perché le risorse materiali sono più abbondanti, del tempo in cui si doveva dividere il pane con cinque fratelli, mentre essere genitori con due bocche da sfamare, permette margini di manovra identitari che prima erano impensabili. Due figli crescono infatti, incredibilmente presto.

Troppo comodi come figli, e molto comodi come genitori, ci troviamo nel nuovo ruolo storico dell’intercettare i desideri e le nostra realizzazione di noi stessi, come soggetti. Abbiamo proprio un tempo psicologico per pensarci, per interrogarci per intercettarci, per mettere a fuoco ciò che siamo. Una funzione che  -almeno io trovo più interessante che maligna – dell’attività delle persone sui social, è che possono scriversi, rappresentarsi in un discorso su se stessi e sul proprio desiderio, e addirittura sulle proprie dinamiche relazionali, e se sono attente, possono arrivare a correggerle. Le persone si scoprono accentratrici leggendo le loro dinamiche, ma anche capiscono di contro quanto poco amano mettersi in gioco quelli che vorrebbero farlo e non lo fanno. Altri scoprono in se stessi pregi che non avevano e certi invece difetti sottili che si ritrovano rileggendo i loro scambi. Tutti oggi sappiamo molto di più di noi stessi. La facilità con cui oggi, più di un tempo si considera l’idea di andare in psicoterapia, rientra in questa nuova e interessante legittimità del desiderio, del progetto di se.
E davvero, non c’è niente di male. Davvero questo potrebbe essere semplicemente un progresso.
Ma siamo sicuri che il vecchio Super Io, sia nemico di questo progresso?

Patologie del superio  – quando il senso di colpa e la coartazione sono dominanti.


Siamo abituati, a configurare il Superio come l’erede della voce di qualcun altro, che non siamo troppo disposti ad accettare come nostra. 
Ora ci sono alcuni casi di persone dove il senso di ansia e di colpa, dominano le azioni continuamente, e dove evidentemente c’è stato un problema nell’educazione, nel modo di tirare su quel bambino o quella bambina. Questo tipo di problematiche nel novecento erano molto molto frequenti. La severità dei padri, e forse anche delle madri, l’onnipresente retorica del sacrificio che dava una specifica connotazione ai gesti affettivi – come qualcosa di costoso e facilmente retrattile – spesso creavano psicologie dell’insicurezza, della prestazione e della compiacenza. I padri e le madri incontentabili diventavano oggetti interni da compiacere a ogni piè sospinto, e la bocca storta del genitore insoddisfatto “hai preso 8, potevi prendere 9” da una parte un movente formidabile per raggiungere risultati, dall’altra la garanzia di un risentimento come moto permanente, di un difficile accesso al piacere, e di un senso di colpa costante nel non essere compiacenti a abbastanza. Senso di colpa che una volta strutturato verrà applicato e proiettato sulle situazioni più disparate e che inquinerà la genuinità delle relazioni e toglierà ogni margine di manovra alla creatività, la quale ha bisogno di un forte nucleo erotico per esprimersi, di contattare un’area estetica, ludica, del divertimento – come avrebbe poi spiegato Winnicott in Gioco e Realtà. Inoltre molto frequente è la sensazione della frustrazione, della non soddisfazione e quindi non di rado, si apre la via a patologie di altro tenore, che derivano da altre aree ancora più arcaiche della nevrosi, e che sono le patologie dell’invidia. Nell’impossibilità di accedere facilmente al piacere, la persona angariata dalla castrazione superegoica guarda con desiderio malmostoso e ambivalente persone dal cui soave edonismo e senso di pienezza sembrano ricche, per invidiarle gravemente.  Il materno interno non ha offerto abbastanza eros, per contrastare la falce del dovere e della frustrazione, e l’invidia kleiniana della pienezza altrui divine una minaccia permanente.

Quando ci si trova in queste situazioni, contattare uno psicoterapeuta può essere una buona idea. Genitori che combinano una modalità relazionale anaffettiva con  una modalità di continua insoddisfazione e una eccessiva disinvoltura nel somministrare le frustrazioni, rendono il contatto con loro accidentato, e le strutture psichiche che hanno a che fare con quel contatto, e che si formano con quel contatto nevrotizzate. Perché a quel punto l’opzione superegoica sembra l’unica adatta ad avere un po’ di riconoscimento esistenziale e tutto il resto ne è permeato surclassato e investito. Non solo si obbedisce quindi continuamente a delle regole, interne prima che esterne, ma le percezioni e le comunicazioni divengono distorte. Non si fanno più le cose generose per affetto ma per dovere, non ci si accorge di voler bene al prossimo ma si sta sempre ad obbedire a imperativi, piacere negli affetti è costantemente inquinato, piacere nel fare il proprio lavoro spesso altrettanto. Gli interlocutori per parte loro si sentono impercettibilmente svalutati, quando non sono fastidiosamente invidiati,  non di rado si sentono trasformati in oggetti di un obbligo non richiesto, e qualche volta diventano francamente irritati. Tanto più l’organizzazione nevroticamente superegoica prende terreno, tanto più le relazioni sono avvertite come gravemente contaminate. Bisognerà in un modo o in un altro ricostruire quegli oggetti interni che l’allagamento superegoico va soffocando, ricostruire un complesso materno caldo e funzionale che dia un po’ di gas erotico al campo esistenziale, per far scoprire al soggetto che dentro di se c’è davvero quella possibilità estetica che invidia agli altri – ma è un processo difficile da condurre da soli.

Psicopatologie del superio – quando il superio è carente.

Attualmente però quel tipo di famiglia, quel tipo di combinato disposto è molto scoraggiato culturalmente non è più un modello di riferimento, non ha vantaggi narcisistici in vista. Il padre padrone è molto sanzionato per un verso, e altrettanto succede alla madre dismissiva, per cui questo modo di relazionarsi alla prole è diventato più infrequente – anche se naturalmente sempre presente – e i rischi nuovi vengono dalla parte opposta, cioè dall’assenza di sanzione e con una nuova e inedita debolezza super egoica, che è altrettanto tossica, e anzi a volte mi sembra di pensare anche di più del contrario. Se non altro perché la debolezza super egoica genera un ordine di malessere esistenziale che la psicoterapia fa più fatica a lenire e risolvere, e che investe in modo radicale e doloroso molte aree esistenziali dalle fondamenta. L’eccesso di superio mette al mondo degli infelici che però in qualche modo hanno una certa tenuta prestazionale, per quanto distorta e inquinata eroticamente. Fanno fatica a fare le cose con piacere, ma possono dire a se stessi di farle. Si emancipano malamente dalle famiglie di origine, spesso covano molti rancori, rimproverando agli altri i vissuti di cui sono i primi responsabili, ma almeno come si dice volgarmente, fanno la loro vita.
Cosa succede al polo opposto?

Il patriarcato si annacqua nel bene e nel male, e con esso quanto di animus e di principio paterno,  di maschile e di volizione albergava nel cuore delle madri, e nelle nuove famiglie (Con nuove si intendano quelle formatesi già negli anni settanta e di li a scendere) con pochi figli o figli unici (si può vedere il post precedente) appare più frequentemente il principio della comprensione, la ricerca di un benessere anche per i piccoli, e molto meno la chiamata alla sanzione e al dovere. Il nuovo genitore fatica molto a sopportare il suo momento di antitesi hegeliana, essere quello che da torto e che permette così all’altro di identificarsi e di trovarsi, e spera continuamente che nella conciliazione e nella condivisione si arrivi a una convergenza di interessi con il figlio che lo aiuti a camminare. Anzi, si sacrifica anzi spesso, per permettere al figlio di fare quello che desidera. Ma questo genera uno strano effetto paradossale: la concretizzazione del desiderio, diventa un processo molto poco faticoso, e proprio in quanto poco faticoso molto più gravemente minacciato.

Anche questo è infatti un assassinio alla creatività e un attentato alle relazioni, solo molto più subdolo. La concentrazione sul piacere fa capire magari al soggetto cosa lo fa stare bene, ma il sapore della disciplina per arrivare a farlo bene, e a godere creativamente del suo talento lo terrorizza, lo impigrisce, e così il soggetto si distanzia dai suoi obbiettivi con una noia difensiva, e un narcisismo dei più inutili. Non impara a fare niente, e la facilità con cui accede alla pigrizia lo fa apparire come privo di talenti. Chiunque ami tantissimo qualcosa – fossanche un hobby, che sia suonare la chitarra elettrica, che sia giocare a calcio, che sia lavorare nelle biotecnologie, sa che la creatività ha bisogno della rigidità superegoica, ha bisogno della disciplina. La rigidità superegoica fa imparare metodi complessi, fa scalare piramidi di conoscenze, e soltanto a certe altezze si può creare. Se non arrivi a quelle altezze non riesci neanche a giocare con la creatività.  Di contro, l’opzione super egoica, e il senso di colpa che aleggia in ragione del suo tradimento, quando è una struttura flessibile che diviene proprietà del soggetto, e che il soggetto riconosce come propria, è in dispositivo atto a proteggere le sue relazioni la sua affettività, ma non in virtù di apparenze eteronormate, ma come necessità dell’affetto, come un dovere non verso apparenze sociali, non verso famiglie o vicinato e manco verso il destinatario delle proprie azioni, ma come atto di coerenza emotiva rispetto alla propria identità. Ed è una cosa santa, che aiuta la gestione di momenti difficili, che ne fa attutire la pesantezza. Si arriva ad avere voglia di fare una certa serie di azioni: di sopportare una moglie troppo troppo ansiosa e invadente, di fare la notte per i figli che stanno male, di stare vicino a un genitore anziano e disabile. Sono cose che si fanno per se, per la manutenzione degli affetti, e a quel punto il sentirsi in colpa diventa non più un tradimento di una norma che non si capisce bene da chi sia emanata, ma il campanello di un’organizzazione amministrativa che sa quando si sta lavorando ai danni della casa psichica anziché a suo vantaggio. 

Però anche qui, quando l’opzione superegoica è fragile, disconosciuta, non fa il suo dovere il suo ruolo di sostegno, l’importanza che ha l’ingaggio relazionale, il farsi carico per se che implica la manutenzione degli affetti, viene persa di vista, ci si accomoda in relazioni liquide a basso voltaggio, quando il gioco di fa duro si molla la presa, si rimane figli eterni, con partner che si allontano,  amici che si scocciano,  genitori che si vergognano di scoprirsi col tempo vecchi e delusi, e naturalmente pochi pochi nuovi bambini che odorano di responsabilità ingestibili. Questa opzione esistenziale io oggi la vedo molto molto pericolosa e mi preoccupa moltissimo, perché mette al mondo soggetti castrati e deerotizzati, per aiutare i quali in terapia bisogna inventarsi il modo di introdurre una funzione superegoica nel campo analitico, la quale se si pensa al campo analitico è una sorta di contraddizione in termini.  Va detto che se il terapeuta si sente invogliato a svolgere una funzione prescrittiva, pur nella sorveglianza dell’insidiosa identificazione con il genitore che non ha saputo porre delle regole, questo sta a significare che nel suo assistito c’è una sorta di nostaglia super egoica, una nostalgia di legge, che il soggetto non si sente di poter incarnare e che la subappalta al terapeuta, come spesso fanno gli adolescenti più soli e addolorati, chiedendo disperatamente dei confini. Accorgersi di questo movimento, di questo passaggio di desideri inconsci aiuta a intervenire in modo costruttivo. Se il paziente riconosce il potere di questa norma se riconosce ciò che va subappaltando, si possono inventare delle cose.

Una terapia per il nuovo anno

Usciremo da un inverno non abbastanza freddo per costruire le poesie, dove i camini hanno fiammeggiato con fatica, saremo intrise di passioni accomodanti, e d’altro canto neanche un sole cocente per essere nude, avremo giacche e cappelli per l’abitudine al rigore dei padri, e penseremo che si tratta di una farsa. Ci sentiremo fragili, demotivate, a tratti inutili, andremo a farci visitare.

Gli psichiatri ci prescriveranno delle lettere d’amore. Una per mese.

Amore mio bellissimo, scriveremo allora a gennaio, hai mandato la domanda per quel concorso? Hai deciso se vuoi davvero sposarmi? Questo perché gennaio è il momento dei buoni propositi, delle vite nuove che cominciano col calendario.
Amore mio diremo, ti prometto che cambierò, diventerò paziente e gentile, diventerò una persona anche ordinata e precisa, e se vorrai sposarmi, non ti farò pagare le multe, non ci saranno more, non ci saranno mutande in giro per casa, accetterò persino quella bizzarria della lavagna sul frigorifero – perché spererei di essere felice.

A febbraio informeremo un flirt d’annata che per la verità si trattava di una truffa. 
Ci consulteremo con il dottore, e chiederemo, signor dottore, ma come lettera d’amore vale la precisazione che di amore non si trattava? Certo! ci dirà il dottore – Certo che si, essendo che le lettere d’amore sono un campo semantico, diciamo una classe farmacologica, dentro alla quale stanno diversi principi attivi, anche il principio di verità sta nelle lettere d’amore, e quindi ci spiegherà, Febbraio è anche il mese adatto, il mese delle maschere, e dei doppioni, il mese delle Personae, junghianamente parlando, e dei falsi se, winnicottianamente parlando, e quindi se scrivete il disvelamento, sempre di amore si parlerà.
Allora scriveremo spietatamente con il cuore in mano, le due cose possono andare d’accordo, non era amore, amore mio, era piumaggio, era lotta di classe, era rivalità con quella stronza della Monica, quella del primo banco. 

A marzo sapremo di dover scrivere la lettera di marzo, avremo il petto gonfio, ma ci nasconderemo sotto al piumone, il cuore buttato vicino al comodino, il cellulare pure, non vedo non sento non parlo non scrivo non esco di qui, poi mi becco tutta quella primavera in anticipo sto fottuta, tutto quell’erotismo mi ritrovo a trombare i platani,  ci faremo portare dei pacchi di patate fritte, delle noccioline. Ma che diamine! dirà il dottore medico psichiatra, mai che questi ti avvertano, un pensiero un sms un wotsappo, dico fammela una telefonata! Invece niente! Quando torno gliene dico quattro, gliene dico.  Ah ma io, eh, io. Dirà lo psichiatra che dovrebbe scriverle anche lui le lettere d’amore e tergiversa.

Ad Aprile l’improcrastinabile entrerà dalla finestra, la luce abbagliante del presente, che per altro di suo è già convinto di essere giugno, per questo stravolgimento climatico, già era crudele aprile, ora virerà al sadismo puro e semplice. Usciremo di casa circospette, con gli occhiali scuri, pallide di tutte quelle serrande abbassate, di tutti quei tè caldi e altre insalubri usanze, e dopo la prima mattinata – bar – posta – libreria ci avremo in canna una quindicina di lettere d’amore spudorate, e come gatte miagoleremo odi struggenti per quel distinto signore anche se non molto alto, di cui però immagineremo che compenserà con una certa perizia nelle prestazioni,  scriveremo appassionate missive sulla sua bella voce che ci ha intrattenuto al telefono su argomenti eleganti, riflettendo su quella cosa di Aristotele, la potenza e l’atto ma anche su quelle cose di Marcuse, l’eros e la civiltà – viva l’eros abbasso la civiltà! – scriveremo. A ruota, ne mediteremo un’altra invece su un signore molto alto e magro, in giacca e cravatta bontà sua, che avremo voglia di scalare come fosse una montagna, diremo in questa lettera d’amore lei è bellissimo caro signore, vorrei scoprire meglio la sua personalità, cioè mi scusi, sa quella cosa della parte per il tutto.
Il dottore medico psichiatra, si incazzerà come una mina: osi di più con il signore con la giacca! Dirà burbanzoso e autorevole, già di suo contrariato per i motivi a noi noti.

A maggio allora, faremo i compiti, e proporremo su un cartoncino bianco panna, con una penna stilografica nera una lettera proprio come la vorrebbe il nostro psichiatra: che inizia con:
 a. intestazione
Mio amato. Aka Mio principe oppure Mio Signore degli anelli. Oppure mio signore delle scarpe.
b. dichiarazione d’amore
Ti penso moltissimo proprio in continuazione, esageratamente, ti penso come un ciclostile – se mi capisci cosa intendo. 
c. proposta elegante
Ci vediamo in quel posticino domenica dove ci sono i glicini, le azalee le panchine, le signore coll’ombrellino, le fanciulle in fiore?
(Giustamente, il destinatario si dichiarerà in Guatemala, purtroppo tiene un impegno da quelle parti)

A giugno scriveremo a quello più amato di sempre, e con il quale sapremo di aver fatto il maggior numero di cazzate, perdonami, ti ho amato, lo so che non ti sei accorto, lo so che non sembrava tanto, perdonami perdonami. Questa missiva di giugno sarà terribile, e telefoneremo allo psichiatra, devo proprio? Chiederemo. Certo ci dirà quello cattivo come sono solo gli psichiatri e i dentisti, deve assolutamente, lo sa benissimo che non si può variare la posologia in modo arbitrario, e se ora deve scrivere queste cose, le scriva! Chiuderemo la telefonata, riguarderemo i nostri errori con questo amatissimo, cercheremo pure un gatto a nove code, per fustigarci di questi peccati della nevrosi, e torneremo alla nostra lettera, perdonami se sono stata pazza e masochista anche, volevo dirti che quei pasticcini che mi avevi portato al tramonto erano davvero buonissimi, che quell’uomo con cui sono andata a letto l’avevo scioccamente sopravvalutato, ci dovevo andare con te a letto, cazzo meglio dei pasticcini persino, che già quelli li avrei mangiati all’infinito, tutte le sere a mangiare pasticcini con te, sarei stata.  Spero che vorrai accogliere questo mio pentimento tardivo.

(Lo psichiatra a quel punto riceverà un’altra telefonata. Io a quella l’ammazzo, gli dirà un signore- estenuato).

A luglio farà un caldo incredibile, gireremo coperte di stracci bianchi, come madame egiziane, chiedendoci come minchia fanno quelle poverette, sempre co sto callo, gireremo con carretti di gazzosa, chiedendoci se al Cairo pure loro girano coi carretti di gazzosa, coi gelati, saremo molto molto provate dalla lettera di giugno, e a luglio per compensazione, scriveremo qualcosa di semplice, a un fidanzato istituzionale, che ci ha lasciato per terra, morte stecchite, ma per fortuna vogliamo scrivergli oggi, a luglio, meno male m’hai lasciata! che ci avevamo in comune? Niente mannaggia alla diocesi! Mi sparavo sti pomeriggi infiniti a sentire il calcio di serie a, ti amavo! Certo che ti amavo che se no due coglioni così appiccicati alla radiolina, non si spiegano eh, e tu mi amavi? Per niente! Mi amavi come si ama un canotto in mezzo al mare, come si amano le coperte di inverno, alla prima zinnuta irriflessa che passava ti venivano i dubbi. Meno male che mi hai lasciato, ex amore mio, m’hai liberato dalla malia della monotonia, non ci avevamo un amore ci avevamo un ergastolo. Sei felice? Lo spero tantissimo. 
Lo psichiatra ci dirà che scrivere ad amori che ci hanno lasciato per terra, amico, hai fatto bene, rinforza il narcisismo, il carattere, ci si sente proprio come regine del castello, e infatti sarà proprio così
.

Ad Agosto, siccome a febbraio per via della lettera di gennaio, ci saremo sposate, andremo al mare con nostro marito, e non terremo tanta voglia di obbedire allo psichiatra, come si fa come non si fa, mi metto a scrivere sotto l’ombrellone? Mi metto a scrivere al bagno la mattina? E a chi scrivo? Bisognerà rimpiattarsi al bar dello stabilimento e scrivere a quello li con cui si aveva flirtato per un po’, di dieci anni più giovane, fisico prestante, carattere zelante, un giovanotto pieno di pregi, ma cazzarola pieno di energie voleva fare sempre tuttcose, tuttcose, tuttcose, e i concertini, e le balerucce, e i viaggetti e gli amici, ci aveva tantissimi amici, cioè non era la giovinezza anagrafica il problema, ma proprio quella esistenziale, amore mio so’ na vecchia, sono forastica, non poteva durare tra noi, con tutti quegli esseri umani tra le palle porta pazienza, con tutto quell’attivismo sportivo. La canoa! Non c’è amore per me, dove sta una canoa. Vado sulla sdraietta con questo marito che ci ho mo’ che è un misantropo d’elezione, come si avvicina uno all’ombrellone, lo fulmina e se non desiste, gliele da di santa ragione. 
Lo psichiatra, che ha studiato sul divano, si troverà particolarmente d’accordo. Vah vedi come funziona bene questa terapia!

A settembre, che è un altro mese di quelli decisivi, di quelli cruenti, per via dei buoni propositi, dei conti da fare, per quanto avremo la tentazione di riscrivere a quello di giugno, o di rinforzare le premesse di gennaio, la legge morale etc. etc, ci imporrà di scrivere a quello la con cui s’era andate a letto un paio di volte, per dirgli con tutta franchezza, sei una merda. Sei un pallone gonfiato, non era vero che eri triste, tutte balle, non era vero che eri complicato tutte balle! Eri proprio strnz. Mmmrdddddd. Ma iooooo! Iooooo Erooooo innamorataaaa di un altro pappappappero pappappero tiè tiè sucaaa capito? EEEEh. EEEH. sucaaa
Poi lo racconteremo allo psichiatra, quello ci sorriderà comprensivo. 
L’ha spedita?
GNORSI’
Dovrò fare qualcosa per la mia reputazione. Bofonchierà preoccupato.
 

A ottobre in specie per quelle di noi romane che hanno possibilità di andare sul lungotevere intorno alle sette, il che equivale né più né meno a un ciclo di mazzate, ci verrà dal nulla una lettera d’amore serissima, perché a quell’ora in quel mese tutto è azzurro ocra e mattone,  che è la combinazione sentimentale per eccellenza, tutto è tramonto elegante, tutto alle nostre spalle apparirà bellissimo ed ineccepibile (tutto tutto no, si escludono quelli della lettera di settembre e di febbraio) saremo aggredite da una invasione di memorie romantiche, proveremo grande tenerezza per quella ragazza che siamo state, in una certa foto che conserviamo, e per il ragazzo che la guarda e le sorride, e scriveremo a questo che ora è padre di una valanga di marmocchi:  il nostro è stato un amore bello e gentile, un amore di vetro soffiato, ogni tanto ci torno col pensiero e gli faccio una carezza, lo pulisco anche un pochino, e lo custudisco con devozione. Sei felice? Scriveremo fustigate dai raggi del tramonto romano. Perché io sono felice se sei felice.
Lo psichiatra ci dirà: ammazza signò non stava mai ferma! E noi ci diremo, ma guardi è uno dei mesi precedenti, si tratta di coprire il calendario. MA QUALE NON LO DICIAMO CHE STI SOLDI DOTTO’ SE LI DEVE GUADAGNARE.

A novembre, guarderemo dal salotto il marito litigare al telefono con qualcuno, sapremo che dirà TI AVEVO DETTO CHE NON DOVEVO RISPONDERE AL TELEFONO, un moto di affetto ci attraverserà per tanta forastica perseveranza, andremo al bar di sotto, compreremo due baci perugina, glieli metteremo sotto il naso mentre ancora sta sodomizzando un povero cristiano di un qualche call center, lui farà un sorriso, burbero sbrigativo, di uomo che trova queste miserie umane quisquilie, i cioccolatini e che saranno mai, falso come Giuda, la moglie glieli deve nascondere di solito, non può entrare un dolce manco a casa dei vicini, manco dai dirimpettai che suo marito lo aspira con la forza di un tornado, con la potenza di un mago, non c’è nascondiglio per qualsiasi cioccolatino confetto, barretta kinder, e ora fa quello che solo lotta al telefono e ascesi, capito come, ma finiscila, diremo lasciando la stanza.
Lo psichiatra dirà che come lettera d’amore  – vale
.

A dicembre, educatamente, ma anche perché l’anno è stato emotivamente impegnativo, però è vero ora ci sentiremo delle donne nuove, tutte quelle lettere ci avranno cambiate, come se sapessimo solo ora di che colore abbiamo i capelli le mani e gli occhi, a dicembre per una volta, forse l’ultima nevicherà, e un po’ per gratitudine, un po’ per sapida vendetta, scriveremo al nostro psichiatra.
Amore mio caro e dolcissimo che ti prendi cura di me. 
Come stai messo a controtransfert?

Buon anno cari e care

(qu)

Crescere allegri figli unici

  1. Premessa

In questo momento storico in Italia si parla molto di crescita a zero, di pochi figli pro capite. Da un certo punto di vista questo fatto è concepibile come un meccanismo omeostatico del nostro macrosistema: ad altre latitudini i figli sono davvero troppi, la terra sta scoppiando, le risorse sono sempre più risicate. Se da una parte del mondo si fanno meno figli, l’umanità ha solo da guadagnarci. Per conto mio, sarebbe auspicabile che per le sorti del nostro sistema economico, lavorativo e contributivo, questa bassa natalità fosse compensata da una migrazione controllata, persino da un incoraggiamento all’immigrazione. Ci si chiede chi la pagherà la pensione ai nostri figli, quando tutti questi vecchi lavoratori moriranno, e chi continuerà a svolgere alcune mansioni che in tanti si rifiutano di svolgere oggi, per dei salari così bassi che non sono utili a nessuno, ma anche per delle condizioni di vita che rendono certe scelte sempre più impraticabili.
Ma la lungimiranza degli ultimi governi – non è il tema di questo post. 

Il tema di questo post è che si fanno pochi figli, ed essere bravi genitori di pochi figli, di figli unici, o di figli molto distanziati l’uno dall’altro, è molto più difficile che essere genitori di più figli come tre, o quattro. In particolare nel nostro paese, dal momento che l’occupazione femminile è tra le più basse in Europa, ci ritroviamo con delle nuove mamme che: non lavorano, ma fanno un figlio solo, a volte due. Questa situazione rende il compito della madre, e della coppia genitoriale più difficile. I genitori, anche i più bravi e benintenzionati, si possono trovare con più facilità a mettere in campo, senza volerlo, comportamenti che possono esitare in situazioni psicologicamente problematiche per i bambini e i futuri adulti. In questo post cercherò di mettere insieme i momenti di vulnerabilità che caratterizzano le famiglie con un solo figlio, e magari delle indicazioni per contrastare precocemente l’emergere di questioni complicate. Non è che fare un figlio unico contento sia impossibile, è che le difficoltà in campo sono un po’ di più.

  • Prime considerazioni

Andiamo con ordine e valutiamo alcune questioni.
1.Un bambino piccolo ci sollecita emotivamente sempre in modo molto intenso.  Ossia quando vediamo un bambino piccino essere triste, siamo mobilitati a consolarlo- è facile che ci faccia sentire in dovere di occuparci di lui per farlo smettere di essere triste. Se invece un bimbetto è allegro e spensierato, dover interrompere quella spensieratezza per richiamarlo a un dovere è una cosa che può metterci molto a disagio. Questa cosa è stata studiata dagli etologi e dagli esperti di psicologia evolutiva: il bisogno di noi grandi di rendere i piccini sereni è una strategia evoluzionistica che permette a una specie la cui prole è particolarmente lenta a crescere e particolarmente priva di strumenti difensivi, di sopravvivere: i nostri cuccioli non hanno pelliccia, non hanno artigli, non hanno denti aguzzi, non hanno zampe possenti, non diventano grandi in un anno. Sono tremendamente dipendenti da noi grandi.  Siamo programmati per farli star bene.

2.Parallelamente però notiamo che le nostre reazioni emotive cambiano con il numero di bambini che abbiamo davanti. Un bambino solo ci suscita struggimento se piange. 4Quattro bambini invece, ci sollecitano l’emergere di un bisogno di assetto e di responsabilità da parte nostra: dobbiamo fare qualcosa di efficace, non dobbiamo essere solo sentimentali. Quattro bambini che allegrissimi fanno un gran baccano, parallelamente ci faranno sentire molto meno in colpa se chiediamo loro imperiosamente di fare silenzio, o se ricordiamo loro che è arrivata l’ora dei compiti.  Plurale e singolare mettono cioè in campo stati emotivi differenti nella gestione della relazione e degli affetti. 
Questa cosa è molto forte nella differenza tra accudire un solo figlio e accudirne diversi. Un solo figlio è il sovrano di una famiglia, il reuccio incontrastato – due o tre figli per non dire quattro, portano il genitore a una ottimizzazione intelligente delle risorse emotive, dividendo le attenzioni, e contando sul calore che i figli ottengono anche dalla relazione coi fratelli. 

Quando dall’uno, si passa al plurale, succedono diverse cose.
In primo luogo, l’urgenza di non trascurare il figlio più grande che rischia di diventare troppo geloso, aiuta i genitori a non prolungare eccessivamente le diverse tappe dell’accudimento, per cui i fratelli diventano alleati delle fasi di autonomizzazione dai genitori. Genitori con più figli fanno meno fatica a svezzare la prole, a togliere il pannolino, e sono un po’ più allergici alle lunghe e pericolose permanenze nel lettone, giacchè il lettone deve essere un luogo di transito per tutti. 
In secondo luogo, il passaggio dall’uno ai molti è alleato della tutela dell’erotismo della coppia.  Sulle prime due bimbi possono distrarre la coppia dal preservarsi, ma sulla lunga durata i sistemi generazionali si compattano, si creano delle microculture: il fronte dei figli e quello dei genitori. Anche perché  – specie se non sono troppo distanziati l’uno dall’altro – i figli piccoli possono giocare insieme, mentre un figlio unico, si ritrova a doversi intrattenere spesso da solo, e questo sollecita emotivamente il genitore a stare con lui, a intrattenerlo.
In terzo luogo, il passaggio a più figli aiuta sia l’esercizio dell’autorità, come corollario dei punti precedenti, e simultaneamente un dosaggio più controllato dell’investimento narcisistico. Non facciamo i figli, naturalmente o meno, per altruismo: li facciamo per egoismo, e se non li facciamo per egoismo, comunque diventano inesorabilmente ricettacolo di nostri per quanto involontari bisogni egoistici: sono il dna che ci deve sopravvivere. Sono noi dopo di noi. Quindi quello che succede è che: meno se ne fanno più roba addosso tendono a catalizzare, meno se ne fanno più si fanno portatori di un’eredità narcisistica. 


La situazione diventa ancora più sfidante se la mamma del figlio unico, non lavora. A quel punto il figlio unico diventa il baluardo della sua identità di madre, la sua infanzia, il suo essere piccolo una fonte di piacere primaria, che ha troppi pochi concorrenti, per cui a questo figlio piccolo si chiederà di crescere più lentamente. E in effetti questo ritardo nell’autonomizzazione della prole lo vediamo sempre di più. I bambini sono nei passeggini ancora a quattro anni, alla scuola materna arrivano che non sono ancora privi di pannolino e qualche volta non ancora in grado di mangiare cibi solidi. Inoltre, fermandosi al primo figlio si dilata l’esperienza emotiva dell’accudimento sentendoci tirati verso amplificazioni che i genitori di più bambini provano molto di meno.
Per fare un esempio, ricordo come un faro nella nebbia un giorno di sciopero annunciato. Io all’epoca avevo un solo figlietto al primo anno della materna e per me non portarlo a scuola era un problema. La mamma di quattro figli mi disse ridendo: li prendo li mollo li lascio se mi chiamano sul telefonino comincio a urlare: non c’è campo non c’è campo! Eeeeh mi spiace, disse ridendo. Aveva una disinvoltura che a me all’epoca primipara tardiva mancava completamente, ero li che mi torcevo le mani. Ma sentii che in quella leggerezza c’era una forte competenza genitoriale. E in effetti a oggi questi quattro figli sono tutti belli grandi e forti. Questo problema si riverbera su tante questioni inerenti la puericultura. Il genitore di pochi figli o di figlio unico tenderà a occuparsi ossessivamente di tutti i suoi compiti, dei suoi giochi con i pari, tenderà a essere cioè parte di attività che sono invece l’area sperimentale del processo di emancipazione. Con più figli questo è un po’ più difficile. Si fa più se è strettamente necessario.

  • Questioni secondarie

Ci sono poi delle insidie che sono sostenute da alcune questioni secondarie, che sono magari correlate alla storia emotiva che sta dietro la scelta di avere un solo figlio. Alcuni figli unici sono tali, perché come spesso succede, i genitori sono figli unici a loro volta, e quindi ripropongono lo schema familiare da cui provengono (Questa è una cosa che si nota moderatamente spesso: i fratelli maggiori si sposano con fratelli maggiori, i minori coi minori, quelli con due fratelli con quelli con due fratelli, etc. Non è una regola rigida, ma una tendenza, di cui si farebbe bene a ricordarsi constatando il calo delle nascite) . Altri invece per questioni di salute. Paradossalmente i figli unici che sono tali per problematiche inerenti la sterilità per esempio o difficoltà di concepimento possono essere investiti da una sacrale aura di salvezza, sono i preziosi frutti che hanno permesso a una madre di essere tale, il che è un po’ problematico, ma almeno non sono l’esito di gravi ambivalenze sulla maternità, che possano essere nascoste sotto il tappeto della responsabilità: dietro a “mi voglio occupare per bene di lui” ci possono stare delle proiezioni forti, dei ricordi sgradevoli riguardo la cura genitoriale, che possono ingrandire le percezioni emotive dei ruoli di cura, ma anche portare a sottovalutare il bisogno di socialità e di emancipazione dai genitori che un figlio comunque incarna. 
Una seconda area problematica viene dai rischi di triangolazione, e dalla saturazione inappropriata della domanda edipica. Molta psicoanalisi ha insistito sul ruolo paterno nel dovere intrudere nell’anello simbiotico che la mamma crea con il suo piccolo, quando lo allatta o quando comincia a crescere. Ma cosa succede se c’è una situazione non rosea nella coppia genitoriale? Che succede se la mamma e il papà non vanno d’accordo, o c’è un motivo di distanziamento? Spessissimo, il piccolo viene messo al posto del compagno, gli viene chiesto di fare da superalleato contro il padre, che viene espulso e reso satellite rispetto all’organizzazione familiare. Diventa una persona lontana, o in alternativa un altro figlio.  Molti padri  purtroppo si accomodano in questo ruolo incoraggiati dalla cultura corrente che tende sempre a svalutare la loro funzione nella crescita dei figli e a ipervalutare la loro funzione pubblica e professionale, altri invece nel tentativo di andare controcorrente si ritrovano ingabbiati in una situazione di doppio legame: quando non partecipavano alla cura della prole erano categorizzati come partner inadeguati, ora che ci provano sbagliano comunque perché non sono valutati come sufficientemente capaci. Dovendo scegliere tra: essere sanzionati perché non si fa niente, ed essere sanzionati perché ci si sbatte, ma male – molti padri preferiscono non far niente. Con più bambini questa cosa ha un altro freno un altro argine. Non vuol dire che non succeda ugualmente, ma le carte in tavola sono di più, i piani generazionali comunque più distinti, i figli fanno una squadra a se, che agisce come sistema gravitazionale concorrenziale alla forza del materno. I fratelli sono una sponda.

  • E quindi?

Dunque, quando si cresce un solo figlio, e per motivi di vario ordine e grado non se ne vogliono fare altri, o non si fa a tempo a farli perché ci si è decisi tardi, si devono considerare delle questioni nei diversi momenti della crescita.  
In primo luogo, bisogna trovare una soluzione al fatto di sentirsi in colpa ogni volta si è autorevoli, e contrastare il timore di essere autorevoli, ricordandosi che l’eventuale dispiacere del piccolo è una cosa a suo vantaggio, e che parte dei compiti ingrati della genitorialità è fornire l’esperienza di un dispiacere percorribile, e non come a volte mi pare di capire si ritenga, eludere qualsiasi forma di dispiacere. Correlata a questa cosa serve una sorveglianza sui processi di autonomizzazione che ai figli unici di questo momento storico (mi sa però non solo ai figli unici) sono molto dilatati. Non posticipare il momento dello svezzamento, non posticipare il momento della liberazione dal pannolino, togliere entro i tre anni il passeggino, e dosare con sorveglianza il tempo nel lettone.  In secondo luogo, questi bimbi hanno bisogno di un mondo di pari, di altri bimbi, devono imparare a condividere, devono imparare a rinunciare, quindi una buona cosa da fare in assenza di fratelli, è imbarcarsi a casa quanti più marmocchi possibili, anche per provare l’ebrezza di che vuol dire urlare SMETTETE DI FARE CASINO senza sentirsi una merda, e anche per aiutarli servendosi di amichetti a imparare a gestirsi le loro cose in autonomia, come per esempio i compiti scolastici

In terzo luogo, mi pare che il problema di questi nuovi figlietti unici, sia il combinato disposto di autonomizzazione emotiva poca, investimento narcisistico enorme. Quindi: sono li che diventano miss spiaggia, gino campione, qualche secchione ci scappa, ma la gestione dell’autonomia, dell’assunzione di responsabilità verso se stessi e il prossimo, lo sgancio dai genitori, è ostacolato, e rischiano di rimanere per quanto soggetti brillanti in un’area di invischiamento permanente. Qui entra in scena una serie di dinamiche che riguardano la tarda adolescenza del figlio unico, e la sua prima età adulta. E’ un figlio abituato a stare con i grandi, quindi spesso educato, sa parlare, è responsabile, piacevole, simultaneamente però è l’unico figlio e ha un ruolo identirario forte nella famiglia per i genitori, per cui c’è il rischio che la sua autonomia di adulto sia sacrificata con modalità di controllo, che sono difficili da stanare perché passano da confronti che sono autenticamente affettuosi: con i figli unici è un pochino più difficile percepire il confine. Quindi sorvegliare stati di controllo protratto su figli unici maggiorenni :  quindi controllare le situazioni concrete. Materialmente significa che, per fare qualche esempio:  non bisogna dare troppi consigli su cose di lavoro, non essere i primi referenti, non utilizzare le chiavi eventuali delle loro case, se non per emergenze di gravità assoluta, non avere conti correnti condivisi, non entrare in rapporti di lavoro, non fare ossessivamente riferimento a loro per risolvere le proprie necessità, stare molto accorti su cosa si prova e su cosa si dice quando si percepisce che il figlio vuole fare qualcosa nella sua vita su cui non siamo d’accordo.

Queste sono cose che mi vengono in mente. Naturalmente questo non vuol dire, che quando si fanno più figli non si rischino casini! I casini diciamo si fanno comunque – poi ognuno fa come può per ridurre il danno. D’altra parte si possono crescere benissimo dei figli unici realizzati e contenti – è solo un po’ più complicato. 

Autunno

Esiste questo stato emotivo. Lo stato emotivo dell’aver amato, che non corrisponde all’amare ancora, ma neanche al non amare più, lo stato emotivo dell’aver amato è una zona rarefatta e nebulosa che si colloca tra questi due poli, l’amare e il non amare più. In questo spazio crescono nuovi romanzi e delle carriere, nascono anche bambini, e possono torreggiare nuovi amori, famiglie, imperi, dinastie, si può dire, ma lo stato emotivo dell’aver amato, non si estingue mai del tutto, è intessuto nelle cose. Tuttalpiù si fa più rarefatto

Nello stato emotivo dell’aver amato, si può vivere abbastanza bene, si comprano per dire patè al fegato d’oca, si cucina del pane con l’uva passa, si fanno delle telefonate, si fa all’amore, qualcuno scrive libri per dire di filosofia del diritto, o sugli scacchi, molti guardano il telegiornale. Con una certa onestà intellettuale si riconosce l’invecchiamento dei corpi, anche vogliamo dire, di costoro che si hanno amati, i complementi oggetti di questo stato emotivo, ci si dice è molto ingrassata, ci si dice si è un po’ incurvito, gli anni passano sui corpi di questi complementi oggetti, complementi di vari verbi, tutti insufficienti, ma di copertura, l’aver baciato, l’aver anche non baciato, l’aver toccato, l’aver ascoltato. L’aver scopato. 

(Questi altri verbi sciocchi e vanagloriosi hanno il loro scopo nel neutralizzare il potere terribile di quello originario, e permettono con più agio le azioni della vita nello stato emotivo dell’aver amato.
Dunque non andrebbero derisi, non andrebbero maltrattati. Verbi alfieri di una vita urbana.)

Poi a un certo punto però succede, che la persona oggetto dello stato emotivo dell’aver amato, ha un dolore, un pericolo, un gran guaio, un lutto, una malattia. Allora, lo stato emotivo dell’aver amato diventa una spina nel cuore, uno spillo del pensiero, e li esso troneggia, e sbatte ai bordi molta quotidianità, ci si accorge di una tensione interna, di un voler proteggere dalla cattiveria delle cose e del tempo,  e dunque si telefona, si abbraccia, si fanno cose inconsulte, la follia amorosa primaria di questo specifico stato,  perché chi abbiamo amato può tranquillamente andarsene da noi, fare la sua vita, permetterci di fare altrettanto, scopasse con chi vuole chi abbiamo amato, facesse figli adorasse chi desidera, ma per nessun motivo al mondo si deve permettere che soffra
.

ergo qui

Cosa può fare un paziente per la sua psicoterapia.

  1. Alcuni interrogativi

Cosa è che fa andare bene una terapia? Da cosa può dipendere il fallimento di una terapia? 
Qualche giorno fa mi ritrovavo a riflettere su questi interrogativi che per un verso trovo assolutamente leciti, e per un altro dannatamente insidiosi.  In effetti per un verso trovo la domanda di efficacia del trattamento una domanda come dire, politica, una domanda che riguarda i diritti dell’utenza. Un utente che paga per un trattamento – che siano le tasse del sistema sanitario nazionale, che sia l’onorario di un privato legittimamente richiede che un trattamento sia efficace, e deve lamentarsi di un trattamento inefficace. Per un altro verso l’argomento è dannatamente scivoloso: cosa vuol dire efficacia di una terapia? La risoluzione di un sintomo, il miglioramento complessivo della sua qualità di vita? O come a volte mi è capitato di pensare a proposito di miei o altrui pazienti, lo scongiurare un rischio più grande di quello che è presente in quel momento? E il miglioramento di un paziente, combacia con le aspettative che hanno le persone intorno a lui?

Ci sono in effetti situazioni con una loro cronicità, e come mi è stato detto da un grande collega, ci sono pazienti che vanno portati per mano, per sempre, fino a quando si può. E questa cosa è difficile da spiegare a chi sta fuori e chi vede magari un amico, o un parente funzionare abbastanza, avere un lavoro avere un partner, degli amici, e non si spiega come mai questo paziente non smetta di essere paziente.  E’ difficile da arguire, ma per alcune persone un terapeuta è un guardiano sulla soglia, questa soglia interna contiene dei meccanismi, dei pensieri, che sono stati analizzati, domati – la dove c’era l’es ci sarà l’io!  Diceva il bellicoso Freud – e sono stati nella mente del paziente qualcosa come traditi. Questo tipo di paziente, di terapie pure fortunate, ha abbandonato un modo di stare nel mondo e nelle relazioni e ora ne abita un altro, sa che non deve tornare oltre la soglia, è convintissimo, tuttavia ha il terrore che da solo potrebbe ricadervi, ha bisogno di essere come dire – tenuto per le spalle. Spesso, bisogna dire con dolore – non a torto Quel caso, non è esattamente un fallimento della terapia. La terapia funziona benissimo, ma non arriva a procurare la sua mancanza di necessità.  In altri casi invece, i pazienti migliorano eccome, ma siccome il sintomo che portavano era molto funzionale al contesto, il contesto considera la terapia un fallimento perché il sintomo viene a mancare, e il paziente non fa più quello che ci si aspettava da lui. 
Di contro esistono proprio terapie che si interrompono, in cui le persone vedono che non si fanno grandi progressi e chiudono, e anche ci sono terapie che banalmente, non imprimono nessun cambiamento nella vita della persona che ne ha fatto richiesta. In qualche caso ci può essere la gravissima cronicità del paziente, un settaggio mentale che non si muove. Ma in tanti casi qualcosa è andato storto. Qualcosa non ha funzionato.   

Si può ben dire che il grosso degli errori è dalla parte del terapeuta, è lui che muove le fila del discorso, è lui quello che è pagato per far andare avanti la barca della terapia, è lui che offre un servizio e parte di questo servizio è nel controllare come l’utenza ne fruisce. Ma esiste una responsabilità dell’utente? Esistono delle cose che il paziente può controllare per migliorare le sue terapie? Per proteggerle? Alcune terapie falliscono per gravi errori dei terapeuti, per inesperienza, per fallimenti nel timing degli interventi,  a volte per incompetenza, altre per una cattiva combinazione delle parti. Però per evitare questi errori, i terapeuti hanno i loro strumenti, hanno i loro libri, i loro colleghi anziani, le supervisioni e le teorie, hanno anche gli ordini professionali e le associazioni professionali. Hanno un sapere che può guidarli e correggerli, o sanzionarli  Non mancano i testi che spieghino ai terapeuti cosa fare per evitare di rompere le terapie, per evitare di farle fallire. 
Ma i pazienti non possono fare niente?

In fondo, anche le terapie in medicina chiedono una responsabilità da parte degli assistiti. Se un medico prescrive una medicina, e non la si assume secondo la posologia indicata è difficile che una cura abbia buon esito. Se un farmaco produce un effetto collaterale è masochistico non farne menzione al medico curante, se non si fanno i controlli quando si deve è difficile capire come sta andando la guarigione e se c’è guarigione. Nelle psicoterapie, l’impegno dei pazienti è secondo me ancora più alto, e il grado di corresponsabilità ancora più saliente. I pazienti hanno il potere di raddrizzare eventuali storture del percorso, di chiamare in causa ingredienti mancanti da parte del terapeuta, di fare tutte le cose che fanno cioè i pazienti della medicina organica, ma hanno anche altre azioni ulteriori – come per esempio uno strumento prezioso in più, che spiegheremo dopo, e che potremmo chiamare la metapsicologia della richiesta del paziente. Questo strumento è importante e necessario, perché in molti casi il sintomo di cui si vuole liberare un assistito, intacca anche il suo modo di servirsi del terapeuta, o di non servirsene.
Ma andiamo con ordine.

2.Richiesta di chiarezza
Una prima cosa importante per il paziente è da mettere in campo all’inizio del trattamento, e riguarda la richiesta di chiarezza, magari con qualche breve spiegazione sull’approccio del terapeuta, sulle regole della terapia, sulle regole del setting, e sulle dinamiche di pagamento. Se non dovesse essere il terapeuta a spiegare queste cose all’inizio, può essere saggio da parte di un assistito farvi menzione e avere tutte le informazioni del caso. La terapia è assimilabile a un gioco dove è davvero importante che le regole siano condivise, e laddove sia possibile negoziate. Bisogna fare molta attenzione quando non c’è margine di negoziazione, all’atto dell’accettazione, perché li si cela l’insidia di un problema futuro possibile. Credo che quando si accettano delle regole proprio malgrado – succede spesso per esempio sulle dinamiche di pagamento – è utile parlare di quelle resistenze. Quelle resistenze possono offrire uno spunto interessante per capire qualcosa di se stessi e le spiegazioni del terapeuta possono essere di aiuto. Ma a tutti noi capita di dover sottostare a delle regole che non vengono condivise, ma ognuno di noi è diverso nel perché non le condivide e nel modo di gestire questa condivisione. Date al vostro terapeuta la possibilità di scoprirlo insieme a voi. Ma anche di capire per bene che animaletto è il vostro terapeuta. 

Una seconda cosa può essere, ma secondo me è allo stesso tempo garanzia e tranello – avere una restituzione diagnostica, sui problemi che si portano all’inizio, per cui il paziente formula la richiesta di una diagnosi. Questa richiesta è certamente lecita, e una prima restituzione è un buon inizio. Però ammetto per prima che una buona diagnosi vuole più tempo delle poche sedute preliminari, e in generale almeno per lo sguardo psicologico dinamico, a fronte di una sintomatologia franca – disturbi ansiosi, piuttosto che depressione maggiore – c’è una seconda diagnosi articolata che si formula con più tempo, quindi insomma quello che si può ottenere è una diagnosi preliminare. Se la diagnosi preliminare risulta insufficiente anche in questo caso, come in quello della reazione alle regole del setting, entriamo nella preziosa casistica della metapsicologia della protesta.

    3. Metapsicologia della protesta.

    Infatti la terza e importante questione che noto, è la seguente. Le terapie entrano in pericolo quando succedono delle cose che ai pazienti non piacciono, li feriscono, li fanno sentire non capiti, o invasi, o addirittura abbandonati, e loro non lo dicono. Ma continuano per un po’ a venire, anche se qualcosa non ha funzionato. Quel qualcosa però a volte rimane fermo e indisturbato, la terapia lo riassorbe, altre volte invece diventa una specie di schema, una lente attraverso cui il paziente legge gli eventi futuri. E’ interessante notare che ogni terapeuta fa di più un certo tipo di errori, rispetto ad altri,o anche delle cose che qualcuno considera errore e qualcun altro no – ma la cosa saliente, è che ci sono comportamenti del terapeuta che per alcuni pazienti sono ininfluenti mentre per altri sono un’onta.  Allora si capisce bene perché esplicitare l’onta, può essere utile a diversi livelli.

    Un primo livello è banale, e riguarda la possibilità di correggere il tiro da parte del terapeuta. Se risponde troppo al telefono, se da giudizi troppo intrusivi, se nella narrazione si allea con qualche congiunto del paziente, può controllare come si comporta e migliorare. Ma considerando il motivo per cui si viene in terapia, dire a un terapeuta cosa non è piaciuto è anche un modo per riconoscersi un diritto, diritto che le persone che non si sono sentite viste nella loro vita privata stentano a riconoscersi, fa esperire una riparazione che è riscaldante, e che rinforza la terapia. Ma il terzo e più importante motivo è metapsicologico: il modo e il perché ci si lamenta di una certo atto di un terapeuta è riconducibile alla storia personale. Per esempio se vado al bar sotto lo studio posso per errore salutare un paziente. Oppure posso, per prudenza della privacy non farlo. E’ interessante come questi comportamenti possano essere entrambi motivo di risentimento per una persona, c’è quello che vuole essere calorosamente salutato, quello che vuole essere ignorato. Ma la mancanza del terapeuta se avvertita come cocente può essere la replica di un trauma pregresso. Non mi vede, come non mi vede nessuno sul lavoro, come non mi vedevano i miei genitori. Oppure, non mi rispetta, come non mi rispetta nessuno, come tutti sono invadenti. E via di seguito. Non dire le piccole cose che generano dispiacere, è sottovalutare spesso e volentieri quelle che sono piccole riedizioni di traumi fondativi, specie se generano un grande oscuro risentimento. Un altro paziente infatti a fronte della stessa mancanza – salutare al bar/non salutare al bar – potrà dire beh non si fa, meno male che non ho incontrato nessuno, pazienza. Ma non si arrabbierà tantissimo.

    In aggiunta, possiamo dire che i terapeuti avvertono, nonostante la retribuzione aiuti molto, un senso di spendersi molto, un senso di costo emotivo nel fare il loro lavoro. Quando arriva il paziente che dice che un certo comportamento è dispiaciuto, li ha fatti soffrire possono anche soffrirne, addirittura risentirsi, però hanno la prova di un coinvolgimento, di una messa in campo di se. E questo mette loro addosso una maggior voglia di impegnarsi. Dicono: questo paziente si è messo in gioco, bisogna che io mi impegni.

    4. Gestire le grandi fisiologiche criticità.

    Non solo queste sono le cose da fare.
    Una buona terapia  – specie di stampo psicodinamico – ha tre aree di criticità la cui gestione emotiva, la cui fatica esistenziale, gira che ti rigira, a voja a dire – è in buona parte a carico del paziente, della sua determinazione a stare meglio. La prima area riguarda il raggiungimento di zone di esplorazione che possono essere sgradevoli, se non spaventose, se non frustranti. Nella mia esperienza non è lo spaventoso a minacciare la terapia, che in quanto tale di solito crea problemi talmente grandi che un paziente ha buone motivazioni per resistere e affrontare i mostri, per quanto con grande dolore e fatica. Invece c’è una vasta area di sgradevole, di frustrante, di narcisisticamente deludente, o anche di scomodo da affrontare, perché nuovo e ignoto, che fa nascere un pericoloso desiderio di allontanamento, che spesso si dissimula in forma di: noia, pigrizia, non avere molto da raccontare, una partecipazione più defilata, fino a uno sfilarsi. E’ un momento delicato, capita in alcune terapie più che in altre, e bisogna tenere duro. A volte questa cosa si manifesta con una critica al terapeuta, che se il paziente è intelligente magari è anche fondata, ma il punto è che emerge proprio in quel momento e non in un altro. Pazienti che hanno alle spalle diversi tentativi di terapia, che a un certo punto si rompono, dovrebbero per esempio far caso a quando emerge questo punto di rottura, e usare il terapeuta che hanno davanti per ragionare come mai ora e non prima gli riconoscono certi difetti, e in caso se c’è una parentela con le rotture precedenti.  Questa parentela, molto più probabilmente avrà a che fare non tanto con l’incompetenza dei terapeuti incontrati, o la propria misteriosa eccentricità come caso clinico, o come intelligenza – consolazioni narcisistiche ricorrenti nei pazienti che interrompono tante terapie, ma più facilmente con i legami relazionali che la terapia evoca, e che generano un disagio difficile da gestire.  

      Il secondo momento in cui invece il paziente è tragicamente solo invece riguarda il fuori la stanza a terapie avanzate. Avviene a distanza di tempo dall’inizio della terapia, quando si è ricostruita la storia privata che presiede a certi comportamenti, e che si è visto non portano dove si vorrebbe andare. Le coazioni a ripetere. I riflessi condizionati. Le conseguenze delle proiezioni genitoriali sugli altri: sui datori di lavoro, sui partner. Le conseguenze delle identificazioni con il proprio genitore. Allora il paziente nella stanza capisce tutte queste cose, le capisce dannatamente bene. Ma capire non basta. Capire è un pezzo del pacchetto, ma bisogna cambiare l’azione. E’ li che a voja a dire, il paziente poveretto è solo. Se la terapia ha fatto il suo dovere diventa un oggetto che ci si porta appresso, che ci si mette dentro la tasca e che si consulta quando arriva la fatidica prova relazionale, ma rimane il fatto che si è da soli davanti alla tentazione saturnina dei vecchi copioni relazionali. E’ li che il paziente deve scartare. E’ li che deve fare un atto di volontà, un faticoso atto di potenza. Cambiare strada. Se non ci riesce non è una cosa grave ci riuscirà un’altra volta. Ma è ipocrita non dirsi, che deve provarci il più possibile e riuscire. Dovrà cioè non telefonare quando l’ha sempre fatto, non alzare le mani quando l’ha sempre fatto, essere gentile quando non l’ha mai fatto, o al contrario essere duro e inaccessibile quando non vorrebbe. E’ dura. Ma si deve. 

      In terzo luogo, il paziente è solo quando deve imporre al contesto il suo cambiamento, ed è solo nel dover sopportare: il biasimo del contesto se non addirittura, il dover cambiare contesto. Questa cosa capita molto per esempio, quando si lavora con le grandi dipendenze, per cui una persona che smette di avere un abuso di sostanze, decide di non frequentare più altre persone che continuano ad abusarne, o per fare un altro esempio, con pazienti iscritti in famiglie gravemente fusionali e intrusive. Anche qui il paziente è solo, non c’è nessuno fisicamente con lui a rinforzarlo nel suo processo di emancipazione. Quand’anche il suo terapeuta sia stato direttivo, sia pure uscito dal ruolo, rimane da solo a dover fare qualcosa di difficile da fare. E’ una sfida dolorosa, quanto necessaria – perché certi contesti aggrediscono davvero il futuro delle persone – lo masticano incessantemente.

      5.infine
      Infine una cosa di cui spesso parlo nel mio lavoro, riguarda il complesso intreccio tra sintomatologia e personalità, e l’intimo senso adattivo che hanno molti sintomi. Una cosa che aiuta tanto le terapie per qualsiasi sintomatologia è un atteggiamento accogliente rispetto ai propri sintomi i quali sono, di norma, una formazione di compromesso, la migliore soluzione possibile per affrontare delle sfide. Se si rigetta il sintomo, si creano le condizioni mentali per dire all’inconscio che c’è un nuovo allarme, e quello siccome il sintomo è la sua strategia paradossalmente lo rinforzerà. Piuttosto bisogna accogliere l’ansia e riconoscerla come propria, e vedere da quale significato prende forma e quali ritorni da. E’ fascinoso notare che più si accettano i sintomi, o buona parte di essi, e più in qualche modo si sgonfiano. Ugualmente più si prendono sul serio, con rispetto e affetto, certi dispositivi del carattere e della personalità propria, e più ci si da la possibilità di modificarli. Si lavorerà meglio in terapia.  Addirittura può essere utile riconoscere quali competenze ha regalato un certo sintomo – se ne ha regalate (questo è molto frequente). Il disturbo ossessivo regala precisione, il disturbo ansioso presenza calda emotiva al prossimo,  molto narcisismo alimenta la creatività e via discorrendo. Se si fa questa cosa, si raggiunge quella che potremmo chiamare, la corretta posizione epistemologica del paziente, la quale combacia con la possibilità di edificare dentro di lui un buon genitore di se stesso, fatto in parte delle eventuali parti buone dei suoi genitori reali, in parte dalle parti nutritive che da il terapeuta, ma in parte da questa accettazione di se come soggetto con quelle caratteristiche, quella storia, quella personalità quelle difese. 

      Esordi

      La bambina è molto piccola, forse quattro anni, massimo cinque. Ha dei ricci scuri, le fossette, occhi castani. E’ in quell’età dorata e irresistibile, di cose brillanti e avventate, di esplorazioni continue e incoscienti, di calzettoni ricamanti anche, che pizzicano terribilmente, di mollette a scatto rosse – con le giraffe, con i gatti con i fiori che scivolano giù e si deve ricominciare da capo. E lei ancora non lo sa, l’età in cui si costella la capacità dell’intuizione.


      Tutti vogliono giocare con la bambina, non perché lei sia chi sa che, ma perché è nel tempo dei bambini irresistibili, quando è divertente sentirli parlare, sentirli sbagliare, ma anche così rilassante sentirli ridere.
      Perchè bambini in quel tempo, portano addosso le tracce dell’utopia, di un mondo dove non c’è ragione per non essere allegri, e per non amare.


      Ma ecco.
      Ogni tanto viene un amico di suo nonno, che ogni volta chiede di giocare con la bambina, come d’altra parte fanno tutti.  Ha una moglie saggia opaca e noiosa, che andrà con la nonna. Il nonno preparerà cose, da bere per esempio, o i salatini, e lui, l’amico del nonno, verrà da lei. E’ un uomo alto, grande, con una risata rumorosa che alla bambina non piace, come del resto non le piace tutto lui.  La bambina, con licenza parlando, ma anzi, assolutamente senza licenza – lo trova un cretino, un uomo fatuo. E’ perché ride forte, perché desidera che altri ridano forte e soprattutto, viene nella casa di edera che ha fatto il nonno, le dice di giocare insieme a dei giochi, a carte per esempio – e bara. La fa vincere, cioè, poi le fa dei complimenti, la bambina capisce esattamente dove lui ha barato, ha fatto finta di perdere, e questo le fa alzare gli occhi al cielo, la fa essere proprio disgustata. Glielo dice. Lui nega. Lei se ne va arrabbiata tutte le volte. L’uomo non la prende sul serio, e tutte le volte bisogna rifare lo stesso rituale.

      Poi un giorno l’ amico del nonno, non viene più con la moglie ma con una nuova compagna. Una pantera provinciale e altrettanto aerea, probabilmente molto divertente – probabilmente, ma questo la bambina lo capirà molto tempo dopo, più adatta a lui della moglie crepuscolare e saggia. La bambina le constata addosso un numero spropositato di denti bianchi, molto oro ovunque, molti vestiti con grandi fiori. 

      Il nonno la tratta con distanza, la nonna la detesta senza timore e senza vergogna, l’amico ne è orgoglioso come di una macchina, come se l’avesse scolpita lui, e come se tutto quel luccichio dovesse far dedurre qualcosa della sua persona.
      Lei invece la guarda senza cattiveria, ma unendo in un’unica coerente saldatura il gioco menzognero nella casa di edera, l’abbandono della prima moglie e l’entusiasmo con cui porta la nuova compagna. Cara seconda occasione, ti sei preso un cattivo arnese, le dice in cuor suo, anche se non proprio con queste parole, anche se come accorgendosene a metà. Uno che vuole sedurre con troppo poco, uno che fa queste piccinerie di barare per piacere. Non starai bene cara mia. 

      Questo pensa la bambina. 
      Che ha cominciato a essere se stessa molto presto. E questo è il primo pensiero che compie, nello stile di un pensare che le durerà nel tempo.

      Qui

      Che facciamo con la vicenda di Palermo

      1. I fatti

      Dunque il fatto di cronaca è noto. Il sei luglio una ragazza viene stuprata a Palermo da – al momento attuale si ritiene – almeno sette giovani. Uno di loro videoregistra lo stupro e tutti loro commentano in chat gli eventi. La ragazza chiama l’ambulanza, e denuncia la violenza. Le chat tra i ragazzi penetrano i giornali e tutti noi abbiamo avuto la possibilità di leggerle – così come abbiamo la possibilità di leggere quando dichiarato dagli indagati agli interrogatori.   
      Solo che quanto dichiarato dai ragazzi agli interrogatori – chiedo scusa, non mi rendevo conto, chiedo scusa credevo che fosse consenziente, è piuttosto in attrito – sia da un punto di vista logico formale che come intensità emotiva indotta, con i toni nelle chat. All’interrogatorio, all’indomani del fatto di cronaca il giovane si dichiara addolorato e pentito ma qualche giorno prima o scriveva cose orribili o non si smuoveva di una paglia davanti allo stupro a cui partecipava, né provava alcun particolare risentimento leggendo messaggi tipo eravamo in cento cani su una gatta. Ne deriva che il lettore, in primo luogo fatichi a prendere sul serio un pentimento comunque totalmente egoriferito, in secondo luogo pure nella possibilità che quello capisca davvero di cosa sia stato protagonista rimane talmente animalescamente travolto dalla chat in questione, talmente colpito che queste contrite dichiarazioni sono acqua fresca.
      Molti lettori di giornali in queste ore, a questi li vogliono morti, o castrati. Il richiamo flebile all’attesa di una verità processuale è comprensibilmente spazzato via dalle dichiarazioni in prima persona.
      Per il pubblico non c’è catarsi.

      2. Violenza di genere, maschilismo, misoginia

      Diversamente da molti, io noto che la violenza di genere è un problema sentito spesso anche dalle teste maschiliste e reazionarie, perché è qualcosa che riguarda un anteriore del contratto sociale. Tocca delle corde emotive che non necessariamente hanno a che fare con un senso di equità e di giustizia nei rapporti tra i sessi, perché mette in allarme nella gestione degli affetti. I maschilisti hanno madri, hanno figlie hanno sorelle, e per quanto votino un partito politico reazionario, non è che a queste donne non vogliano bene, e non è che non capiscano il dolore inferto. Lo stupro è un reato sul corpo, e molti maschilisti, sentono il dolore del corpo in chi amano o in chi immaginano di voler amare. Mi è anzi capitato spesso, quando argomentavo di questioni come il lavoro per le donne, i modi di rivolgersi alle donne – che ah il femminicidio si è importante! Come modo per derubricare altre istanze. Di contro, anche nelle persone, per esempio posso parlare per me, che hanno una rubrica femminista dentro, un’agenda politica sulle questioni di genere, la vicenda di Palermo tocca una corda emotiva, mi tocca da qualche parte in una dimensione preopolitica e animalesca, di donna e di madre e di amica, questa corda riverbera e può farmi parlare con maggiore veemenza.
      E’ un meccanismo umano che ha aspetti salubri e aspetti insalubri.

      Vale la pena ricordare inoltre che la chat degli stupratori ci fa confrontare con le prove di un contesto psichico e culturale non maschilista ma misogino. Più volte mi sono trovata a distinguere tra maschilismo e misoginia, e mi pare che in questa occasione la differenza sia calzante: il maschilismo ama le donne, ma assegna una rigida attribuzione di ruolo e designa alcune attività in cui le donne devono esprimersi, riguarda quindi una soluzione politica delle risorse umane. La misoginia odia le donne, e le fa mezzo di un esercizio dell’odio e della morte. Nella peggiore delle ipotesi il maschilismo è una patologia nevrotica – ma nevrotici siamo tutti – la misoginia è una patologia psichiatrica, che associa disturbi di personalità.
      Questo non vuol dire che come tante patologie gravi – non possa essere culturalizzata, non possa edificare un raccapricciante orizzonte di senso. I giovani che hanno partecipato allo stupro e scritto quello che hanno scritto appartengono un mondo in cui esiste una cultura patologica della misoginia. In Italia queste comunità esistono e sono relativamente diffuse – meno di quanto purtroppo accade in altri paesi dove episodi del genere e femminicidi sono molto ma molto più frequenti. Ma a chi capita di frequentare contesti internazionali dove esperti di violenza di genere si confrontano, risulta interessante notare certe ricorrenze, certe uniformità tra i ragazzi di Palermo e che con quelli di città del Messico. Dicono le stesse cose.
      Intorno a queste culture gravemente misogine, sta poi la cintura politica ibrida non puramente misogina ma neanche semplicemente maschilista – una misoginia diciamo agita su un piano simbolico: non stuprano ma minimizzano lo stupro, riescono a essere blandamente amorevoli con le figlie, ma è un attimo perché siano radiate dal gruppo sociale, dicono che se l’è cercata, e che la carne è debole. Mi sono confrontata diverse volte con questa mentalità. A ognuno di noi succede.

      3. La chat misogina

      Si decide allora di pubblicare questa chat  – e questa chat è il messaggio nella bottiglia di una cultura infernale, di un villaggio in fiamme. E’ per molte persone il buco della serratura dentro cui vedere qualcosa che temono, per altri il film proiettato in prima serata di aspetti che ritenevano potessero essere tenuti nascosti e che ora vedono enormi negli occhi degli altri. La chat dei giovani è un oggetto politico incandescente. Non doveva essere pubblicata così come non dovevano essere resi noti i nomi dei colpevoli perché incoraggia gli aspetti deteriori delle reazioni emotive, incoraggia prese di posizione che non hanno efficacia politica sulla lunga distanza. Perché sia qualcosa di utile, è necessario uno sforzo emotivo e celebrale che diverse persone non riescono a fare.
      Ora però, siccome il danno è fatto, le frasi le leggiamo, bisognerà provare a fare questo sforzo. 

      Quando una casa brucia, ci muoiono dentro tutti gli abitanti.
      Nel dettaglio. C’è una giovane con la vita sotto scacco, che per rimettersi in piedi dovrà fare molte cose difficili che nessuno ha voglia di fare – a cui mandiamo un grande abbraccio e con cui ci complimentiamo per il grande coraggio nello sporgere denuncia. La ringraziamo anche, perché la denuncia ha un costo orribile e sono tutti bravi a chiedere di pagarlo senza sapere cosa implica. Poi ci sono questi sette ragazzi che nella migliore delle ipotesi saranno arrestati anche dopo il processo. Nella migliore delle ipotesi si sputtaneranno la vita e sempre nella migliore delle ipotesi si confronteranno con uno Stato capace di assumersi una funzione paterna. Per esperienza professionale so che se c’è una speranza di recupero per le patologie correlate alla violenza di genere questa speranza si materializza solo dopo il riconoscimento giuridico di un reato con sanzione penale conseguente. Ma se questo non dovesse avvenire, questi ragazzi che sono molto giovani, e sono dei figli anche loro, sono proprio fottuti per sempre. Fottuti spacciati, condannati al male. Bruceranno anche loro insieme alla casa.  Bruceranno altre case, rimarranno le persone orribili che hanno cominciato a essere. Faranno altro male.

      In una simbolica battaglia culturale per erodere terreno alle culture misogine, il dagli allo stupratore non è un’arma vincente. Il pubblicare foto e nomi come se fossero una taglia non è un’arma vincente. Proporre infine la castrazione chimica (Emma Dante, ma ti ha dato di volta il cervello? Assumiti le tue responsabilità di soggetto influente nella cultura nazionale. Mio spassionato e e deluso inciso)  è non solo inutile, ma direi che incoraggia la cultura dello stupro. Se punisci la violazione del corpo con una violazione del corpo, direi che entri in contraddizione sul piano dell’etica personale, ma se abiti la costa dello stupratore, quello minimizzerà la sanzione e troverà che la violazione del corpo è una regola condivisa. Se metti una taglia sulla testa di uno, direi che proponi un’idea di giustizia sommaria che quell’uno condividerà. Al di la del fatto che con ogni probabilità la castrazione chimica favorisce la genealogia mentale di altri progetti di aggressione alternativi, direi che la castrazione chimica è un tassello a favore della cultura dello stupro.

      • 4. Che fare

      Io penso che ci siano due direzioni. Una riguarda i microcosmi personali – si notano delle cose nella chat degli stupratori che possono essere oggetto di una riflessione utile. Per esempio, tutti sono molto convinti che il problema sia il fraintendimento del consenso, perché si è convinti che alla base della violenza sessuale ci sia l’idea che se una donna dice no, voleva dire si. La persona che esercita questa violenza la porterebbe avanti in base a questo fraintendimento. Io però se leggo quella chat, ma anche pensando ad altri casi con cui mi sono confrontata, non penso neanche lontanamente che questi giovani non cogliessero la negazione come tale. Quello è un problema di alcune insistenze indesiderate, di alcuni rapporti di confine, di negoziazioni ibride, ricatti sessuali etc. Ma qui la questione è diversa: la donna dice di no, piange sta male è gatta con i cani, è limpidamente decodificata come oppositiva – e l’opposizione è avvertita come erotizzante. La psicopatologia è evidente perché mediamente non è molto divertente scoparti una che non vuole scoparti, mentre queste persone sono erotizzate dall’opposizione.  Essi godono nel creare una subordinazione  in base a una forza fisica. Godono quando una donna non sta godendo, mentre il sesso è eccitarsi dell’eccitazione dell’altro. Il sesso è vitalistico, questi sono moribondi. Non stanno scopando – non sanno scopare, probabilmente potrebbero non diventarne mai capaci, se qualcuno non li aiuta. Sono condannati all’inferno privato della violenza. Non so se mi spiego, è come aver un morto di fame in un ristorante stellato, e quello non può  permettersi di assaporare un piatto buono – la patologia li estromette dal principio di piacere.
      La culturalizzazione del fenomeno trascende il male in una dimensione valoriale, per cui alla fine, questi agiscono con un codice di riferimento tramandato da gente che sta come loro, in un contesto dove lo Stato probabilmente fa anche i suoi tentativi ma non sono sufficienti. Allora una cosa si può fare è riflettere con i propri figli e figlie, non solo sul senso del consenso, ma anche sulle emozioni che genera il potere dell’altro. 

      In secondo luogo – e questo è un tema fondamentale oggi, in un momento storico in cui la tecnologia favorisce nel bene come nel male la formazioni di gruppi gestiti da un leader carismatico, per cui chiunque per esempio lavori nelle scuole si confronta quotidianamente con forme di bullismo che nei decenni precedenti erano molto più rare  in termini di frequenza – secondo me un’altra cosa su cui riflettere con i figli, a scuola, ovunque – è la gestione della leadership tossica. Se in un gruppo arriva quello che alza l’asticella tu che fai? Io sono sicura che tra questi sette, ce ne è almeno uno in uno stato mentale ibrido, in cui la cultura misogina era ancora un partito di minoranza, ma che non ha avuto anticorpi di sorta nella gestione della leadership tossica.

      In terzo luogo. 
      L’Italia è un paese abbastanza maschilista e solo in alcune aree gravemente misogino. Bisogna saper stare in questa cosa, e se si esagera imputando a troppi le caratteristiche di alcuni si perdono potenziali alleati preziosi. Se si vuole combattere le aree dove sussiste una cultura dello stupro – che sono isolette sparpagliate per tutto il paese – e in alcune aree geografiche particolarmente estese – la prima cosa da fare è: non attaccare tutti i maschi, non confondere maschilismo e misoginia, prendere quelle aree nel dettaglio e studiarne le peculiarità richiedere interventi pubblici perché questa cultura sia invertita, offrire presidi di diverso tipo, ivi compresi quelli della salute mentale sempre più smantellati, ma anche progetti nelle scuole sempre poco finanziati. Cercare alleati non accontentarsi del ruolo di Giovanna d’arco contro i cattivi.

      Infine un piccolo suggerimento – che rubo da colleghe che ne hanno fatto un progetto nelle scuole romane diversi anni fa.
      Una cosa buona che gli insegnanti possono fare da subito nelle loro classi, per esempio è:
      prendere questo episodio, isolare dei personaggi: la vittima, i parenti della vittima, gli stupratori, i parenti degli stupratori, l’opinione pubblica etc. e chiedere ai ragazzi di scrivere e recitare tutte le parti. Nel dettaglio: alle ragazze si assegneranno però soprattutto le parti vicine agli stupratori, e ai ragazzi le parti vicine alla vittima. Perché la cultura dello stupro, è una cultura arcaica, di meccanismi di difesa arcaici, dove nessuno pensa cinque minuti a qualcosa di diverso del bisogno del momento. E’ una cultura ferina e manichea, una cultura dell’amigdala, dell’attacco e della fuga, che non conosce i circuiti della corteccia frontale, del pensare, dello stare sugli stati d’animo dell’altro che è un processo intellettuale.
      E delle democrazie mature.

      Barbie

      1. Intro e trama

      Ieri sera ho visto il film Barbie, di cui tanto si sta parlando. Ne sono stata parzialmente delusa, e mi ha sollecitato moltissime riflessioni, specie in considerazione del successo ottenuto, e dei pareri discordanti e anche molto accesi che ha sollecitato. Quando un prodotto culturale ottiene questo ordine di effetti – dal botteghino ai dibattiti sulla spiaggia, dagli intellettuali che si indignano agli articoli ponderati – è sempre un prodotto interessante, è sempre una macchina sofisticata, è sempre qualcosa che va preso molto sul serio e con un certo rispetto di partenza. Non saranno mai né sufficienti ma neanche davvero pertinenti le teoresi della strumentalizzazione, o quelle del mero marketing, della furberia capitalistica, e tutte quelle strategie che minimizzano la capacità di aver messo al mondo un sofisticato macchingegno dell’immaginazione, e che fanno passare regolarmente il grande pubblico come una massa di imbecilli. Il film funziona per tante cose, e tra canovaccio e contesto di approdo ci dice tante cose su come stiamo messi, su da dove veniamo e che direzione sembriamo prendere. Queste cose le voglio dire tutte, sono molte, perciò cercherò di organizzare il discorso in paragrafi. Sperando di fare cosa utile, a chi vuole saltare pezzi, o a chi vuole rateizzare una lettura troppo lunga. 
      Intanto la trama. Esiste un mondo di gioco, Barbieland dove ci sono le barbie di tutti i tipi, che dominano il reale, fanno quello che desiderano, lavorano, governano, vincono premi nobel, etc. mentre i ken sono sulla spiaggia e si intrattengono variamente. E’ un mondo felice, gioioso, giocoso, fuori dalla morte e fuori dalla storia, senza passato e senza futuro – non si vedono bambini, e che. mantiene una certa varietà interna di barbie strambe, barbie tonde, barbie afroamericane.
      A un certo punto la Barbie Major smette di sentirsi bene, e a suo agio, perché comincia a notarsi addosso dei difetti fisici. Questo – le viene spiegato  – dipende da come qualcuno sta giocando con lei, e per sistemare la situazione le si consiglia di andarla a rintracciare nel mondo reale. Barbie dunque va, la segue Ken, anche se lei non vorrebbe.  Nel mondo reale, sintetizzando molto, succedono alcune cose importanti. In primo luogo Barbie viene a contatto con la Mattel che è la sua azienda produttrice, dipinta come maschilista e diretta da personaggi autoreferenziali e grotteschi, in secondo luogo conosce la ragazza e la madre della ragazza che hanno giocato con lei, una la critica per essere l’incarnazione di un clichet e l’altra rivela di essere essa stessa dipendente della Mattel progettato la comparsa di alcuni difetti fisici,  per rendela più realistica. Infine Barbie e Ken scoprono il maschilismo imperante nel mondo reale, il fatto che nel mondo reale tutto quel potere che lei aveva a Barbieland non esiste. In virtù di questo, Ken, torna indietro e si industria, con un transitorio successo per introdurre il dominio maschile a Barbieland. 
      Quando Barbie, con le due donne del mondo reale, torna a Barbieland scopre che le barbie sono condannate ad avere un ruolo marginale – vallette, fidanzate, cameriere tuttalpiù, e quindi organizza un piano con le sue amiche per risolvere la situazione. Tutte le barbie decidono a mostrarsi seduttive e sottomesse, disponibili sessualmente inducono i ken ad avere una relazione con loro, ad appassionarsi al punto tale da litigare per loro, in modo che mentre litigano loro si possono riprendere il potere. Così fanno. Il resto del film è coda meno interessante: Barbie dichiara di essere pentita a Ken per il precedente trattamento dei Ken a Barbieland che ora vivranno nell’uguaglianza, e decide di diventare una donna vera andando a vivere nel mondo reale.

      2..Estetica

      L’idea di rappresentare il mondo di Barbie, in una terra immaginifica antitetica al mondo è una idea cinematograficamente fantastica, divertentissima, e merita da sola il successo del film. Consente l’esplorazione di un’estetica, di un gioco, l’invenzione di qualcosa, e la traduzione verosimile di una presenza ipotetica che è stata nella testa di molte bambine. E’ prendere sul serio la fantasia di queste bimbe e giocare con i loro spazi ludici e simbolici. A essere precisi, considerando il fatto che Barbie imperversa da diversi decenni, in realtà di giocare con gli spazi ludici e simbolici anche delle loro madri. L’ho trovato quindi azzeccato e divertente, un colpo di ingegno. E meritano tutti i premi possibili i professionisti che l’hanno messo in atto: costumisti, scenografi, direttore della fotografia, etc.

      Tuttavia, per altri aspetti  proprio questo mondo immaginario mi è apparso sleale e disonesto, schiacciato sugli ultimi anni –  molto autocompiaciuto e fuorviante.  Se infatti nel film barbieland è l’antitesi politica e ideologica del maschilismo del mondo concreto, libertaria e inclusiva, in verità, nel mondo reale non era esattamente così. Barbie è sempre stata: una signorina delle media borghesia, il cui compito principale è dimostrarsi attraente qualora incontri un uomo, per tanto la ratio principale del suo essere al mondo è essere piacente. Le barbie che sono venute, solo negli ultimi anni ad allargare la pletora di giovani wasp bionde e dalle lunghe cosce, con fazzoletto al collo e capelli al vento, da posizionare nella (meravigliosa) cabrio rosa le nere, le infermiere, le eventuali (parche) professioniste, le etniche di vario ordine e grado, sono solo lo specchio dell’ingresso nella rappresentazione della donna borghese, di maschere diverse. Ma sostanzialmente, l’alfa e l’omega di Barbie era vedersi con uno e andare alle feste e cambiarsi d’abito all’occorrenza. Con la sua fisicità platonica, astratta orientativa, che doveva essere diciamo il gioco teorico dell’eventuale sessualità possibile. Se proprio dobbiamo riconoscere un qualche ruolo culturale alla Barbie, in termini di emancipazione, l’unica direzione è l’esplorazione della seduzione e della persona che deve piacere la conquista dell’età della ragazza come soggetto sessuale oltre che come oggetto. Se prima della Barbie, le donne dovevano giocare a fare la mamma, ora potevano giocare con il fare la gnocca, che è mi pare la grande scoperta dell’adolescenza femmina nel novecento. E anche il nostro grande problema di oggi. Quindi la Barbie, amici della Mattel, non è mai stata per un cazzo libertaria, democratica e tutte quelle belle cosette, Barbie era invece la quintessenza della donna nel maschilismo americano – a noi ci è risultata per molti anni migliorativa, perché l’America è un paese meno maschilista del nostro. – ma comunque maschilista. Quindi la prima cosa che mi ha lasciata perplessa, è che il produttore Mattel che cerca di vendere una presunta autocritica, parte decisamente col piede sbagliato: Barbie non è mai stata un’antitesi della società maschilista, ma un suo strumento, certo – in Arabia Saudita può assolvere a una qualche funzione, forse anche nell’entroterra siculo degli anni settanta. Ma che lo scopo della Mattel era far giocare le bambine a chi scopre il vaccino, è una stronzata che grida vendetta.
      Di contro, va detto – a 6 anni, 8 anni  – le bambine hanno questo tema del corpo e della donna che saranno. Il tema politico è un tema adulto, ma quando si gioca alle barbie è lontano e secondario. Barbie è stato un giocattolo del rapporto col corpo e con la seduzione. Mi pare pure giusto che ci sia questo gioco per quell’età.

      3 Femminismo per tutte le bambine

      Sono stata affascinata dall’ipotesi narrativa, del passaggio tra mondo fantastico e mondo reale, e ho trovato meravigliosa la trovata dell’uno che quando lo si corregge cambia l’altro. L’idea dell’importazione del maschilismo a Barbieland, e la possibilità di rappresentare in quel contesto cosa è il maschilismo, è una cosa efficacissima e bellissima, e sono grata al film perché rende mainstream una categoria che era di nicchia, e fruibili delle parole che era ardimentoso usare: una femminista intelligente sa che in molti contesti per arrivare non dovrebbe usare certe parole, specie in Italia: femminismo, maschilismo, patriarcato. Che in questo film queste cose diventino un tema, una cosa fruibile dalle più piccole, una cosa che scavalchi i confini di una certa appartenenza culturale e politica, ma se vogliamo anche di classe è una operazione che ha davvero grandi meriti. Quando Ken importa il patriarcato a Barbieland  si rappresenta una strategia per assurdo, fa capire tante cose che sono assurde nella vita quotidiana, ed è una questione che ha un oggettivo merito politico. Non so come va in Usa infatti, non so come va  – per certo in tanti paesi – ma la chiave della lettura di genere, per quanto negli ultimi decenni sia tornata in auge, rimane da noi un fatto di nicchia.  A destra è praticata di meno che a sinistra, e anche a sinistra, viene messa in campo da un piccolo sottogruppo, che ha letto, che si occupa delle cose del femminismo. Il film rende il problema politico delle donne un tema per bambine, e per adolescenti, per bambine adolescenti di piccoli paesi, per bambine e adolescenti figlie di famiglie dove la cosa non è messa in questione. E questo è un merito innegabile. 
      Né, come dicevo sopra, trovo serie le obiezioni della strumentalizzazione in termini di marketing. Sono decenni che abbiamo acquisito la pervasività dell’ideologia, non vedo perché l’ideologia non debba permeare uno stile di fruizione del capitale. Tutti  abitiamo in questa fruizione ideologizzata del capitale, sarebbe intellettualmente onesto tenerlo sempre a mente. La verità è che il film arriva come assertivo appassionato e urticante, e l’idea della strumentalizzazione è per un verso consolatoria per  i molti maschi aggrediti che leggo sulla stampa (non sono così incazzate è il capitale che vuole vendere bambole e birckenstock) e per altro per le molte donne che si sentono defraudate dalla complessità di una riflessione.
      Il problema dunque per me è narrativamente ben posto.

      4.Una triste e discutibile soluzione

      Dopo di che però c’è la tragedia della soluzione.
      Ken importa il patriarcato, e Barbie organizza una sommossa, con le donne che simulano sottomissione, ma soprattutto relazione, per riprendersi il potere. Dunque abbiamo per me due orribili scelte di regia, che mi hanno davvero molto intristita e infastidita in un colpo solo: da una parte le donne non hanno alcun interesse a essere capaci soggetti politici, e a conquistare il potere coi mezzi della politica, devono quindi prostituirsi fare le zoccole, le troie, vendersi. Hanno ragione allora tutti quei detrattori del metoo, che sembrano i registi occulti di questo film: le donne usano il sesso per prendersi il potere, di più usano gli affetti le relazioni, è giusto è una buona strategia,  approfittandosi delle povere debolezze maschili – non hanno una vera intelligenza razionale, non hanno un pensiero strategico, quindi fanno le troie, ingannano.
      Ma c’è pure questa cosa tragica in Barbie, l’eros è assente, la relazione sessuale è un mezzo, e l’alibi è una farsesca e un po’ fastidiosa quanto ipocrita misandria, che raggiunge dei vertici talmente smaccati da non essere molto credibile. Dai dirigenti della Mattel a tutte le varie declinazioni di Ken, passando per il padre dell’adolescente del film i maschi sono rappresentati come vanagloriosi, idioti, perditempo, narcisisti presi da se stessi. Si muovono su un continuum che va dal cazzone inutile al cazzone al comando. Quindi raggirabili e in caso ci si può scusare un po’ così in corner a fine film

      Questa doppia soluzione mi ha fatto alla fine rigettare il film, e chiedermi se serve a qualcosa, o è soltanto il tragico epifenomeno di questo deerotizzato momento storico.

      Io capisco che il film ha anche avuto successo per questo: perché la libertà è’ difficile, la libertà ci impone standard alti, e tutti ma soprattutto tutte noi, ci confrontiamo con il diritto emotivo alla felicità che il novecento ci suggerisce e che passa attraverso, non solo il maschilismo ma anche: il divorzio, le relazioni che finiscono, le relazioni che ci deludono, il rapporto con i figli che è complicato,  e capisco che un film che dica: sei a prescindere dalla relazione con questi stronzi, la maternità non è importante, i figli possono scomparire, capisco che sia una seduzione.
      Ma noi vogliamo questo ragazze? Ma davvero si deve lottare per avere il potere senza eros? Davvero il campo relazionale non deve poterci definire? Davvero stiamo bene se pensiamo che gli uomini siano una manica di cretini?  Davvero non sappiamo lavorare con dei figli e un compagno?  Nell’economia del film nessuna e nessuno è mai stato innamorato, la relazione non assume mai un valore, la relazione compare solo come tranello per la conquista del potere. 
      Ora questa cosa più che consiglio è la fotografia di una crisi imminente o già in atto – una messa in questione del campo relazionale sempre più massiccia considerata come attacco all’identità. Il che però mi pare una mezza sconfitta più che una resa. 

      Insomma dei tanti femminismi che ci sono oggi sulla piazza, Barbie va a prendere il sottogruppo più antiquato, retrogrado superato dalle stesse forme storiche, e lo unisce a un revanchismo deerotizzato, per cui oltre tutto, in tutto il film non si vede uno straccio di bambino, di neonato, di progetto, di futuro, di umanità, ma quasi una sorta di velato separatismo. Si riqualificano i rapporti tra persone dello stesso sesso, e in particolare le vie matrilineari, e si abdica completamente sul tema di una relazione tra i sessi bella e rispettosa.
       Quella va a disegnare giocattoli e come massima ambizione va dal ginecologo.

      Ragazze, carino eh, ma con tutti i meriti, ve la lascio. 

      Un caimano de noantri

      Appena ha saputo, il mio fornaio ha cambiato la sua immagine di copertina sui social, e al posto del suo forno, ci ha messo una immagine di se stesso con Berlusconi. Penso che sia stato autenticamente triste per questa morte, penso che sia morto qualcuno per lui che è stato importante. Un riferimento, un modello da seguire. Sono dispiaciuta per il mio fornaio, e rifletto molto sul suo dispiacere, perché lui è a sua volta, nel suo stile piuttosto rustico, un modello etico interessante per me. Dal mio fornaio gli ospiti schizofrenici della casa famiglia vicina possono sempre venire a mangiare, il mio fornaio insegna il mestiere a extracomunitari senza permesso di soggiorno e li mette in regola. Il mio fornaio ci aveva un buco di forno e ora daje e daje ha un posto grande e bello pieno di piante di rosette di fiori e di bambini. Il mio fornaio ci ha una dipendente ucraina, e quando è scoppiata la guerra è diventato una cellula di smistamento farmaci.
       Quando il mio fornaio piange Berlusconi io penso delle cose.

      Non ho per il resto, molte persone nella vita che piangano Berlusconi. La maggior parte dei miei cari, l’ha odiato con furore, e io per parte mia, ho un ricordo del suo governo pieno di rabbia e di astio. La ricchezza enorme e sospetta, le televisioni terribili, l’harem di ragazzine: mi pareva l’epigono di un mondo corrotto che veniva dal passato, a tirarci indietro in un arcaico sultanato. Lo ricordo vecchio e puerile, sedersi sui troni con le gambe divaricate dei gradassi di provincia, non prendere in fondo niente sul serio salvo i quattrini suoi, e il fastidio per questo stare sul cazzo a molti. E mentre io ero nella stagione della massima serietà – dei grandi amori, delle scelte professionali della vita da vincere, della politica da fare, per lui tutto era soavità, tutto barzelletta, tutto disincanto: sindacati soavità, Luana Englaro soavità,  mafia soavità, le corna alle foto coi ministri, i capi di stato inchiavabili cessi, la scuola   – internet impresa inglese! – tutta una leggerezza tutta una leggiadria. E in effetti si può dire che, al di la delle accuse che gli sono state rivolte in ambito giudiziario, politicamente è stato un inutile e rumoroso cazzone, che non ha lasciato una cosa una che sia memorabile per questo paese. Chi ha creduto che fare impresa e fare governo vogliono lo stesso talento, dovrebbe ricredersi guardando quello che ha lasciato.
      Niente.

       Altri che hanno avuto a che fare con lui, per esempio lavorando in fininvest ne celebrano una sorta di gentilezza, una medioevale generosità. Il dipendente che ha guai con la salute che si è trovato dei soldi sul conto. Il monarca simpatico che fa la battuta cameratesca all’operaio e penso anche – stante a quel che si è potuto osservare – il potente faccendiere che promette all’avvenente signorina – va bene ti farò fare quel lavoro che ti piace tanto. Il distributore di banconote e farfalline, l’erogatore di pranzi opulenti, dove cortigiani melliflui e grassocci, si ritrovano con i bottoni che saltano dalla pancia. Quel sintonizzarsi sui desideri, e quel disprezzo per le costruzioni, per cui in effetti, non c’era posto di lavoro in cui all’improvviso non potesse materializzarsi una bella gnocca in sostituzione di un onesto lavoratore.  Magari la bella gnocca era pure preparata, pure in gamba. Ma il punto sinistro era la soavità arcaica. Il Berlusca intercettava il desiderio suo – il desiderio di lei, e poi tutto il resto diventava una cosa di nessuna importanza. Questo almeno mi è stato raccontato da qualche devoto dipendente irritato per questo aspetto. 
      Il fatto è che Berlusconi è stato lo zenit di un punto di rottura.

      Fino a Berlusconi esisteva: una classe politica che si assumeva la responsabilità di risolvere le magagne di un paese con tante risorse quante difficoltà, che si incollava addosso nel bene e nel male il titolo di un fallimento dei progetti di parte.  Questa classe politica era spezzettata in partiti, in diversi orizzonti di senso, in diverse teorie della cosa pubblica, e di fronte aveva un elettorato, che le credeva o non le credeva, che valutava quanto era stato coerentemente difeso e quanto no, ma che in generale, accettava le regole del gioco, accettava il fallimento parziale. Si aspettava comunque che il politico fosse quello che in conseguenza della sua lettura del reale, proponeva una certa amministrazione del reale.
      Poi a un certo punto – lo scollamento tra questa classe politica e l’elettorato si è fatto enorme. L’Italia è cominciata a essere una macchina che si automantiene a stento senza cambiare in niente però, senza aggiungere niente, caso mai riducendo sempre un pochino la piattaforma dei diritti. Di settembre in settembre la retorica della crisi economica, rimpallava la crisi dello stato sociale, i politici sono apparsi sempre di più come mezzi di questa macchina che si mantiene e parla e si occupa solo di se stessa, e l’elettorato si è sentito sempre più spesso, a sua volta, vivere una vita propria, arrangiata, indipendente dalla cosa pubblica. Il nero come economia secondaria e parallela, gli stratagemmi per affidarsi alle cure nel privato giacché il pubblico arranca, la giustizia che non risponde ai soprusi,  i mille legacci burocratici a congelare qualsiasi progetto – le persone si sono sentite a fare del loro da sole. Tutto questo era – ed è, perché è perdurante – una sensazione parzialmente giusta, perché è vero che c’è una crisi del wellfare piuttosto importante, ciò non toglie che una vacanza in un posto qualsiasi fuori dal modesto cocuzzolo del primo mondo potrebbe raddrizzare le prospettive: un viaggetto in qualche posticino dell’Africa o anche in qualche stato USA, ti dovrebbe far baciare in bocca il peggiore dei ministri della sanità nostrana.

      Fatto sta che a un certo punto: quelli che parlavano del funzionamento della cosa pubblica, di cosa bisogna fare e di cosa si dovrebbe votare sono sembrati: o pazzi che parlano da soli, o – soprattutto – garantiti che si dilettano a giocare alla politica quando hanno abbastanza soldi per poterne fare a meno, mentre dall’altra parte è cresciuta una falange di persone che se la sfangano a prescindere, e che hanno un atteggiamento meramente utilitaristico rispetto alla cosa pubblica. L’ospedale come il 280, se passa me lo prendo. Che devi fare.

      Allora in questo mondo all’apertura di una scissione insanabile arrivò Berlusconi. Barzellette, pacche sul culo, un buon talento per la traffichineria e per i quattrini, e sicuramente, uno di quelli del partito dell’autobus 280. Non gliene fregava di niente, manco ci provava, non ha mai saputo manco lontanamente cosa fosse un’assunzione di responsabilità. Era puerile infantile, istrionico e irriverente. Un grasso trickster, un sabotatore. Le persone ci si sono riconosciute. Se a ogni legislatura nessuno riusciva a rendere effettive le leggi precedenti e si tentava con la promulgazione di una nuova legge inefficiente, molti cittadini allora pensarono che a quel punto, che il loro leader dovesse essere il campione mondiale dell’arte di arrangiarsi, l’alleato numero uno della disillusione. Che il loro leader cioè non fosse uno come i precedenti che cercava di spiegare il reale e promuovesse progetti per questo reale, ma uno di loro, e quindi uno che sapeva principalmente soltanto – prendere per il culo quelli che facevano politica. Si scelsero come leader politico un antipolitico – il primo di una lunga serie. 
      Certo se passava il 280 lo prendevano. Votarono Berlusconi ma al pronto soccorso ci andavano, votarono Berlusconi e mandarono i loro figli alle scuole pubbliche. Votarono Berlusconi e se c’erano dei fondi per le imprese cercavano di accaparrarseli.  L’opposizione non riusciva più a far passare progetti, e loro non l’ascoltavano più. Votarono uno che mandò a puttane – stricto sensu – gli avanzi del servizio pubblico di cui continuarono a fruire.

      In pratica, è stato come se – potendo decidere chi mettere ad amministrare un ospedale, si fosse deciso che la cosa meglio è metterci un malato. Che però appunto è malato, vuole solo guarire lui, non ne sa niente delle malattie degli altri, non gliene frega manco tanto. Il massimo che riesce a fare, arrivato in cima è pensare alle medicine sue, secondo lui – non necessariamente secondo il medico suo. Con tutte le conseguenze del caso.

      La retorica di questo malato che parla di come si vive con la sua malattia, e di cosa deve fare un ospedale per tutti i malati, considerati come portatori della sua stessa malattia e non con loro richieste e bisogni e necessità, è un po’ quello che è stato considerato : l’innovativo linguaggio di Berlusconi. Il quale aveva il grande merito di esprimere a chiare lettere i bisogni di quelli come lui, e di rappresentare le soluzioni a questi bisogni sostanzialmente come più ampie articolazioni di questi bisogni. In Italia dobbiamo fare più imprenditoria! E come si fa a fare più imprenditoria? Bisogna aiutare l’imprenditoria! E il massimo dell’articolazione sul come aiutare di più quest’imprenditoria è stato dire: magari un po’ meno tasse ecco. Per altro proponendo una flessione davvero modesta da un punto di vista fiscale.  
      Questo si è tradotto in diversi risultati: meno autobus per tutti,  una generazione di eredi per i quali fare un progetto politico è un’onta – e il mio fornaio che se si è allargato, a Berlusconi non deve proprio un bel niente, se non un astratto e identitario incitamento, per il resto ha fatto tutto da solo.

      (Postilla, che devo alla me stessa di allora, due parole sullo strano maschilismo di Berlusconi, che aveva sospetto rispetto alle donne, una oscura e ossessiva sudditanza sessuale, unita a questa sua puerilità continua per cui, per un verso inquadrava le donne nella categoria pasticcini – una donna un pasticcino, molte donne una pasticceria, un primo ministro una pastarella scaduta – una festa per gli amici di partito una vassoiata di regazzine – per un altro però sovrapponeva con un certo agio la sua sudditanza sessuale alla sua totale mancanza di serietà per qualsiasi cosa, per qualsiasi ruolo, per qualsiasi interlocutore, per cui alla fine non gli era difficile concepire il concetto di donna di potere. Per cui succedeva questo: da una parte ci avevi uno che faceva battute inappropriate alla Marcegaglia, o che alludeva al culo di Michelle Obama, dall’altra teneva al suo governo più donne di quante ne avessero messe poi molti dei suoi successori – a principiare da Giorgia Meloni, la donna di destra più maschilista di tutti i suoi colleghi maschi. E trovo incredibile e paradossale che mentre il malato in ospedale cianciava la sua malattia in termini di harem, chiedendo al pubblico di mostrare i suoi stessi sintomi – sii uno stronzo maschilista come me, a tua figlia fai fare la zoccola – nel suo governo crescevano le uniche donne di destra che hanno saputo fare qualcosa di utile per le questioni di genere. Stefania Prestigiacomo e Mara Carfagna. E’ tutto molto complicato. Non ne sentiamo la mancanza  – ma a guardare il dopo viene un certo sconforto. )