Alcune questioni sulle buone prassi in terapia

 

Sulla mia pagina Facebook ho fatto un piccolo sondaggio e ho chiesto ai miei contatti le caratteristiche salienti per loro di un buon terapeuta. Almeno un terzo ha messo al primo posto l’empatia, o l’accoglienza. Le caratteristiche di secondo livello a ben vedere, erano poi spesso derivate dall’empatia – perché facevano riferimento alla capacità del clinico di allinearsi spontaneamente ai desiderata e agli stati emotivi del paziente. Per esempio c’era chi chiedeva una distanza non intrusiva ma calda, oppure di non essere giudicato, oppure chi faceva riferimento alle sue capacità affettive. Solo alcuni, e mai in prima battuta chiedevano una preparazione clinica, rarissimi un lavoro su di se. Altre caratteristiche importanti di questa come altre professioni – erano a stento menzionate da colleghi, come per esempio la possibilità di reperire un pensiero e delle soluzioni creative, il lavoro clinico su di se.
Solo una collega, con cui ero molto d’accordo e spiegherò dopo perché – parlava dell’importanza del piacere che deve provare chi fa questo mestiere. Trovo che il fatto che questa sua risposta sia stata isolata, non sia un caso.

 

Nell’idea collettiva dunque prima di tutto un terapeuta deve essere gentile e accogliente: il pensiero va alla difficoltà di mostrarsi fragili e di voler trovare un posto sufficientemente buono, dove poter mettere in campo cose personali avvertite come sgradevoli, ma anche delicate e a cui si è anche in qualche modo affezionati. E’ un’idea che ha un suo fondamento reale, ed effettivamente un terapeuta rifiutante può lasciare i pazienti interdetti. Ma anzi, possiamo approfondire questa necessità dell’empatia del terapeuta in due ulteriori direzioni che sono altrettanto importanti e meno romantiche. Infatti, in primo luogo l’empatia è una cosa che in questa circostanza fortifica i processi logici e certi ragionamenti deduttivi: per fare un esempio tra i tanti, nel mio modo di lavorare per esempio è uno strumento prezioso per individuare narrazioni falsate, racconti forzati e poco veritieri aspetti omessi o manipolativi– perché siccome sono piuttosto consapevole delle mie capacità empatiche, quando non ho risposte emotive forti quanto meno le mie emozioni mi stanno dicendo qualcosa di importante riguardo a quello che mi viene raccontato qualcosa di omesso.

 

La seconda considerazione che farei però, è a un livello più grande, riguarda non solo l’idea di un terapeuta come genericamente empatico – cioè capace di allinearsi con gli stati emotivi dell’altro, e di sentirli, ma un terapeuta che ne abbia voglia. Deve averne voglia, perché in qualche misura questo è in un modo non esagerato, o retorico e quasi meno urgente di altre situazioni, la prova che questo terapeuta è una persona buona, una persona cioè che si dispiace del dispiacere dell’altro. Che a prescindere dall’orientamento suo, e dal grado di indigeribilità del suo paziente, ne sappia vedere il bambino interno in difficoltà e amareggiarsi per lui: questa cosa, secondo me è una cosa davvero importante del buon terapeuta, perché in studio arrivano anche persone che possono essere molto antipatiche, e respingenti, o anche semplicemente molto noiose, o apparentemente molto banali. E vengono perché quei loro difetti conclamati, sono stati la loro coperta inefficiente alle aggressioni del mondo, che per quanto non funzioni perfettamente, continuano a tenersela -e anche in studio saranno sgradevoli, antipatici, indisponenti. Perciò, se il terapeuta ha un buon grado di contatto emotivo e una buona empatia, dopo vedrà il bambino che questi pazienti sono stati, prima di tutto dirà che palle, questo o questa qui non ce lo vorrei – poi si dispiacerà di quello che ha visto.
Un buon terapeuta, cioè secondo me, è uno che nell’ordine in primo luogo sa dire Dio che persona tremendamente faticosa, e poi dire, lo capisco perché, lo sento, confusamente lo sento. E lo prende in carico.

L’empatia dunque, non solo come quella cosa che fa mettere comodo il prossimo. Ma quella cosa che serve a capire delle cose complicate che lo riguardano, e anche quella cosa che deriva dal volere il suo bene..

 

Ne deriva una conseguenza – un primo elemento per identificare terapeuti meno attrezzati, con qualcosa da perfezionare oppure, con il bisogno di un lavoro su di se per lavorare bene per cui, se vogliamo vedere cosa è almeno in astratto un cattivo terapeuta possiamo pensare in riferimento al punto uno: o una scarsa empatia, o un uso nevrotico dell’empatia che va contro i fini del paziente. Per esempio il terapeuta riconosce gli stati emotivi del paziente, li sente, ma li gestisce in modo poco accorto: si arrabbia sempre con il paziente, ha una risposta troppo spesso sfidante, oppure se ne difende e si chiude. Questo terapeuta difettato può ricordare quei genitori che con i loro bambini dimenticano di essere genitori e si collocano come tra pari, arrabbiandosi su un piano di parità con il bambino. Se quel comportamento di solito non porta niente di buono sul piano della pedagogia, perché rende tutti troppo forti e il comportamento da apprendere va sullo sfondo, fa altrettanti guai in terapia: il paziente si sente simultaneamente sopravvalutato ma anche aggredito anche se inconsciamente – e anche se non se ne rende conto, ciò che porta va sullo sfondo. E’ qualcosa che capita raramente, e certo ci sono bambini e pazienti che usano il creare rabbia nell’altro come modo di comunicare – e quindi anche questo può essere utilizzato in stanza. Ma terapeuti costantemente antagonisti hanno oggettivamente un problema, così come può avere un problema di efficacia un terapeuta che sentendo l’incandescenza di contenuti spinosi emotivamente – il sottotesto di un pensiero di suicidio o di omicidio, oppure una fantasia di carattere incestuale – vi gira intorno e li elude come proteggendo il proprio timore di essere scottati.

 

Il voler il bene dell’altro, non credo debba però essere la caratteristica principale, o diciamo meglio esplicitamente dichiarata come tale, di un buon terapeuta, e credo neanche il motivo principe della sua vocazione. Più specificatamente tendo a diffidare dai terapeuti che con convinzione dovessero dichiarare che fanno questo mestiere per una questione di buon cuore. Per fortuna ne capitano pochi e non solo perché dichiararlo sarebbe di cattivo gusto. Solitamente le motivazioni psichiche che fanno scegliere questo mestiere – come in generale le motivazioni psichiche che fanno scegliere le professioni di aiuto – sono molto meno nobili e talora sono indegne. Possono viaggiare dal desiderio di controllare l’altro, al piacere di sentirsi indispensabili e oggetto di dipendenza, dal ritorno narcisistico al desiderio di monitorare ossessivamente negli altri parti di se irrisolte. Nessuna di queste motivazioni scabrose è davvero un peccato, addirittura possono essere una risorsa , diventano un peccato quando non sono viste, e vengono occultate dall’idealizzazione di se del mestiere. Quel tipo di idealizzazione – io sono buono, e voglio aiutare te che sei debole, è una trappola mortale che costringe l’altro a un ruolo, il ruolo della persona in difficoltà, e quindi può introdurre nella terapia freni pericolosi ma anche vincoli mefitici. Il paziente può dispiacersi per esempio all’idea di potersi contrapporre al terapeuta, al farsi vedere forte. Il paziente per stare dentro al gergo psicoanalitico, potrebbe viversi come un bambino per cui crescere è una ferita alla madre che ora, non avrebbe più un ruolo.

Per questo invece preferisco il riconoscimento nel clinico, di una sostanziale categoria edonistica, del piacere il piacere di stare con altre persone e lavorare su degli oggetti pieni di variabili come sono le vicende di vita. Questo egoismo edonistico del clinico ha per me il primo luogo un fondo di realtà spesso occultato dalla retorica pubblica, che vede le psicoterapie un posto dove le persone portano solo i loro lati tristi o fallimentari, o le loro esperienze spiacevoli. Ma non è vero perché la psicoterapia non è solo questo. E’ anzi anche, potenziare delle risorse metterle in scena, dar loro spazio – goderne e indicare la loro godibilità. E quindi anche, trasmettere l’idea che si fa bene ciò che piace fare, ciò che da piacere. Questo prosaico richiamo al piacere, libera anche il campo dalle asimmetrie delle dinamiche salvifiche e restituisce al paziente la titolarità delle sue azioni e delle sue responsabilità, anche in passaggi che possono essere – qualche volta – anche duri. Ho un ricordo molto nitido di quando il mio prima analista mi disse “a me di quello che fa lei non frega niente” e qualche volta, certamente con calcolo e preliminare attenzione anche io ho trovato opportuno dire “è una roba sua, non mi riguarda”. Spiazza, contravviene uno stereotipo materno della terapia, ma da aria, ossigeno, responsabilità e senso della potenzialità.

Ne consegue, che se vogliamo pensare a un astratto “cattivo terapeuta” o a un terapeuta che in un certo passaggio della sua vita non funziona al meglio, io credo che sicuramente ci sia il terapeuta che non si diverte a lavorare, che ha perso il bandolo del piacere, per cui nelle sue prassi di lavoro avanzeranno sul campo solamente dimensioni superegoiche, difensive, scabrosamente anaffettive.

 

Buona parte delle cose di cui ho parlato, e insieme ad altre che fanno un buon terapeuta, si sorvegliano meglio quando il terapeuta abbia attraversato almeno, una terapia su di se. Due è anche meglio. Ho un’idea della psicoterapia come un lavoro artigianale, o forse come il lavoro di domatore di bestie feroci e bizzarre, che possono essere risorsa magica se le addestri a fare quello che vuoi tu, ma che scassano tutto se non ti sei esercitato a parlare con loro. L’inconscio di un terapeuta è qualcosa a metà tra un violino e un leone da circo, tra un rabdomante e un serpente. Può riconoscere i suoi simili e portarli sulla retta via ma può anche esserne terrorizzato e azzannarli senza pietà. Il terapeuta è un portatore di ombre che deve far crescere altre ombre. Dunque sarà bene che lavori con tutte questi suoi mostri li addestri, e li ascolti.

 

Questo lavoro su di se, che faccio fatica a pensare senza un lavoro di analisi personale – uno dei pochi motivi salienti di attrito e contrapposizione tra scuole analitiche e non – implica il raggiungimento di una maturazione professionale che porta a usare la propria organizzazione caratteriale e di personalità, in maniera più completa e funzionale di quanto possa accadere spontaneamente. Per capire esattamente cosa intendo, dobbiamo fare un passo indietro.
Oltre ai terapeuti ci sono le relazioni terapeutiche, le migliori delle quali spesso si avvantaggiano di una combinazione ben azzeccata delle parti. Quel certo paziente giovane uomo, in quel certo periodo di vita si troverà particolarmente bene con un terapeuta uomo, più grande di lui. Quell’altro invece, con una donna della sua stessa età. Oppure quel certo paziente giovane si accomoderà meglio con un paterno silenzioso, che mantiene un livello di attivazione basso, che interviene poco, che è introverso. Il secondo invece, magari molto simile a quel tipo psicologico potrebbe fare grandi cose potendo affidarsi a una figura carismatica, da idealizzare, che indugia in dichiarazioni anche direttive.

Il bravo terapeuta giovane professionalmente, è quello che sa lavorare bene con la sua equazione personale: come i giovani scrittori che scrivono bene racconti presi di peso dalla propria adolescenza, se gli si mette davanti un paziente complementare possono fare grandissime cose. Con il tempo però il bravo terapeuta maturo professionalmente deve saper fare come i grandi scrittori che si inventano storie lontani da se stessi, e vestono panni che non sono propri. Il grande terapeuta è un vecchio maschio che sa fare la madre giovane e e scintillante, o l’analista donna di suo estroversa e spumeggiante che sappia passare in uno stare doloroso, silenzioso e muto. L’indovinare questa capacità di modularsi nello stile relazionale, è il terzo elemento che fa la differenza tra un clinico ben equipaggiato e uno mal equipaggiato. L’accorgersi che spesso si deve ruotare il proprio stato d’animo a seconda della faccia del paziente che arriva in stanza è un buon segno.

 

Questa cosa arriva a coinvolgere variabili sottovalutate spesso, in termini di linguaggio e di gergo di classe. Variabile di genere e di classe sono estremamente importanti in questo lavoro, e mentre quelle di genere sono state al centro di importanti convegni, pubblicazioni, osservazioni, le variabili di classe, e di come incidono nel modo di funzionare delle terapie mi pare siano molto meno dibattute. Divengono molto importanti, anche per chi come me esercita esclusivamente la libera professione: perché il sistema sanitario nazionale sta collassando nel momento in cui in realtà la domanda di psicoterapia aumenta, e nel privato cominciano ad arrivare potenziali assistiti che prima erano destinati solo al servizio pubblico.

Ora ognuno ha familiarità maggiore con il proprio gergo di classe e con la propria appartenenza di classe, che non dimentichiamoci sono questioni investite anche di proiezioni affettive. Un certo mondo sociale ci ricorderà il padre, o la madre o entrambi, e questo condizionerà il nostro modo di viverlo.  Ci saranno poi pazienti che incarneranno ciò da cui si scappa, e pazienti che invece impersoneranno il punto dove si vuole socialmente arrivare – e già queste sono cose da monitorare con grande attenzione. Ma ci saranno pazienti che parleranno lingue che ci sono estranee e si conoscono poco, o si guardano con diffidenza, lingue che sono echi di visioni politiche ed economiche e anche echi di idee e dimestichezze private. Un buon terapeuta deve saperle usare tutte e vincere eventuali idiosincrasie ed ostilità. Deve saper essere borghese o parolacciaro, deve saper dire rapporto orale e pompino, deve dire parti basse e culo. Saper parlare francamente di morte e di soldi oppure arrivarci piano, tollerare elitarismo e populismi – non ci devono essere totem culturali che gli impediscano questa operazione.

Ho un’idea precisa di terapeuta che non funziona bene in questo contesto. Ero in consultorio e una giovane collega (gioventù che spiega benissimo il suo errore) parlava di un suo paziente adolescente. E raccontava “ho detto, possibile che non gli piaccia un film decente? Se gli chiedo un film questo risponde i cinepanettoni! Ma insomma questo è un posto con un certo tenore un certo prestigio! Si sforzi!” Probabilmente per la giovane collega, per la sua storia personale sociale e di classe, quel tirocinio era un punto di arrivo, un’idealizzazione che proteggeva l’idea di se. La capisco, in altri frangenti devo aver provato qualcosa di simile, magari dopo aver fatto molti lavori umili per mantenermi agli studi – ma di fatto quell’idealizzazione aveva sbarrato la porta alla comunicazione con il giovane paziente. Bisogna essere pronti a tutti i piani metaforici. Se uno ti parla solo di cinepanettoni, wow è vanno benissimo i cinepanettoni. Ma anche se una ti parla solo del braccialino di Tiffany che non si nota molto tu stai sul braccialino di Tiffany. Lo usi come una piccola piattaforma. Se non ci riesci – hai un problema.

 

Un’ultima classe di considerazioni per quel che riguarda aspetti più ristrettamente tecnici. Non nascondo la mia predilezione per psicoterapie di orientamento psicodinamico, forse con qualche perplessità verso i filoni freudiani più ortodossi – per esempio al di la dei limiti economici e materiali guardo con diffidenza tecnica oltre che deontologica cure prolungate che prevedano tre sedute settimanali. Ugualmente avverto una certa lontananza con le prospettive per esempio cognitivo –comportamentali In generale ho una formazione psicodinamica l’ho scelta perché la consideravo migliore di altre, troverei ipocrita dire che oggi ho cambiato idea. Tuttavia, mi rendo con agio conto del fatto che un bravo psicoterapeuta è un bravo psicoterapeuta con qualsiasi strumento in mano – basta che lo sappia suonare molto bene. Ci sono ottimi e salubri cognitivisti, ottimi sistemico relazionali e persino – ottimi lacaniani – altra parrocchia con cui ho rapporti sofferti. Ci sono anche psicoterapeuti che sono talmente bravi, da saper suonare bene strumenti diversi – e questo per esempio per me, è una sorta di ideale regolativo: saper suonare strumenti clinici diversi.

Tuttavia, ho una sorta di sensazione di metodo per cui: prima di tutto ne devi saper suonare uno, e anche benissimo. Un buon terapeuta arriva a fondo nell’approfondimento di un orientamento operativo e per come la vedo io ci deve stagnare a lungo, esplorarlo, applicarlo fino alla morte, romperlo e ricostruirlo vedendo quello che succede. Questo prototipo dell’apprendimento professionale diventerà uno schema mentale con cui avvicinare cose che riguardano altri approcci, di cui deve saper cogliere però la tridimensionalità, le radici psichiche e storiche. Non basta piluccare, si deve essere capaci di trapiantare, sapere di cosa vivono le radici, dove si possono fare innesti e dove no. I corpi teorici sono infatti piante vive, che crescono interagendo con l’ambiente seguendo ognuna il suo codice genetico: una fiorisce con un certo clima una con un altro. Una su un certo terreno cresce di più l’altra muore. Un approfondimento forte degli strumenti, o delle piante teoriche porta a un modo migliore di lavorare.

vent’anni

 

Guarda la ragazza, diciannove anni, venti chi sa – seduta al ristorante con due uomini e una donna, i genitori e uno zio, gli zii e il padre – o meglio, guarda principalmente i lunghi capelli biondi sulle spalle, quel mondo esistenziale e quella scelta politica di certe ragazze (o aspiranti tali) – di tenerli liscissimi e tagliarli tutti pari e perfetti, a fare dei capelli un vanto composto e affidabile, una naturale compostezza.   (Quanto di più lontano pensa lei, dal suo tignoso presente, e dalla sua indigesta giovinezza.)
Tiene la testa bassa, sulle braccia incrociate in ascolto. I capelli, prendono una piega prevedibile quando arrivano alla schiena.

-Se posso darti un consiglio – dice uno dei due adulti, e prosegue con una lunga tirata, su cosa è opportuno fare, citando i desideri di lei, ma anche lo stato dell’arte e dell’economia e statistiche e numeri. Lei rimane immobile mentre gli altri due annuiscono sorridenti ma anche presi nel far vedere quante cose della vita sanno, quanto è meglio essere vecchi e brutti, come la pelle liscia del volto sia al tutto inutile alle magagne quotidiane.
China la testa di lato la signora, arriva il cameriere che vuole togliere i piatti, il vento muove la tovaglia del tavolo, e la ragazza coi capelli ordinati invece, rimane sempre ferma.

 Tutti dicono che i vent’anni sarebbero quelli a cui tornare volentieri, per tutte le possibilità che incarna l’assenza di definizione, per via della seduzione fantastica che rappresenta quel crocevia magnifico, e certamente anche la naturale bellezza dei corpi con poca storia, il ventre prima della madre, le gambe di cerbiatto o gazzella o lepre, la levità della morte lontana.
In certi casi anche, forse però non quello della ragazza con i capelli lisci e tagliati con ordine, la seduzione è anche in quel coraggio avventato e stolido, l’incoscienza che fa fare cose e ingaggiare battaglie, o la va o la spacca senza manco saperselo dire, posseduti come si è dal desiderio.
La naturalezza dell’indicativo che hanno certi beati titolari dei vent’anni –  come un bacio di Dio.

Tuttavia, nonostante una riottosa complicazione mi desse per un verso parecchi nodi al pettine – ma per un altro un consistente contingente di anticorpi, e spade e cerbottane, e scudi e cannoni, ho un ricordo mefitico della legione di invidiosi che suscitava la pelle mia e dei miei amici e delle mie amiche, al tempo della ragazza di spalle. I continui rivalersi della saggezza, le profezie di sventura delle pance sopra la cintura dei pantaloni. I professionisti affermati e vecchi che civettuoli e puzzolenti ti dicevano eh no il mercato è saturo, è un lavoro difficile, le candidate a cuginanza fittizia che ti spiegavano che con gli uomini bisognava fare in altro modo, la legione di quelli che in odor di sfiga avevano bisogno di dirti eh da più grande capirai capirai. E te con sti vent’anni a espiare il peccato delle occasioni perdute dagli altri, a scontare gli errori che non è detto che farai.
Fatti coraggio ragazza mia, alza la testa e mandali affanculo – ti è concesso e anzi, necessario.

qui.

L’accordatore

 

In primo luogo, era stato un bimbetto biondo e ceruleo e guanciuto, un bimbetto ossia di una bellezza vitrea e impressionante, in cui forse per gli occhi precocemente evasivi, e una solitudine prolungata a cui si era abituato con diligenza, c’erano già una traccia indefinita, una via di fuga, qualcosa di inafferrabile. Un bambino cieco che non era cieco.

Era cresciuto in un appartamento disordinato, quasi psicotico. Figlio di musicisti, la sua infanzia era trascorsa divisa in due, tra un salotto verde muschio di flauti e pianoforti, la moquette ai piedi, le tende pesanti, e dall’altra parte, dietro le doppie ante di una porta mozartiana, con riccioli dorati e ambizioni nobiliari, in mezzo a una kazbah di giocatoli vecchi e sporchi, piatti, pentole, cucina, privato, sonno, veglia, distrazione. Non un’infanzia cattiva, e neanche un’infanzia severa, e neanche ancora un’infanzia non amata. Ma probabilmente un’infanzia sciatta, forse un po’ dimenticata. In cui ci si doveva arrampicare sulle note per capire lo stato d’animo delle persone importanti.
(Suo padre aveva una passione inconsulta per un uso sfrenato e romantico del pedale.

Poi era stato un ragazzino di quelli che scivolano per le vie del quartiere come un colpo di oscurità, come un rivolo di fango dopo un giorno di pioggia. La frangia davanti agli occhi, tutto un ciondolare di braccia e solitudine, sulla pelle i segni dei cattivi voti a scuola, di insuccessi poco borghesi all’itis e financo agli istituti parificati. I vecchi gli cercavano la protesta negli occhi, le bambine lo scansavano – inutilmente – per paura della seduzione. Voci, false, di tossicomania, amicizie pericolose lo avevano inseguito, le madri con le collane di lapis, e gli anelli di ambra lo guardavano con interrogata apprensione.
Non sembrava avere amici – non se ne ricorda il tono di voce.

Soltanto più tardi si sarebbe appreso, con scandalo e imbarazzo per se stessi e il proprio mesto pessimismo, che aveva trovato strada e successo. Era diventato un famoso accordatore, lavorava con pianisti che gli pagavano biglietti fino al cielo pur di portarselo con se. Nessuno l’aveva più visto per le strade, e a dire il vero neanche altrove, non si sapeva di fidanzate, o fidanzati.

(La ragione del suo successo, mi fu dato di sapere per una serie di fortuite coincidenze, era nella natura animale e magica del suo rapporto con i pianoforti e i loro suoni. S’avvicinava agli strumenti come un mago, un rabdomante, un allevatore di leoni, un addestratore di foche, come un’incantatrice di serpenti. Ci parlava li blandiva, ci cantava insieme, faceva ripetere i suoni fino alla perfezione, fino all’unisono. Come se il suo orecchio assoluto fosse una madre, una madre sufficientemente buona).

 

(qui)

Mitzvà

 

 

(Ho scritto questo racconto oramai, molti anni fa, ci sono molto molto affezionata, riguarda la mia prima analisi, la morte del mio primo analista e maestro Gian Franco Tedeschi a cui devo molto, e l’acquisizione importante per me del desiderio di fare lo stesso lavoro. E’ stato anche un racconto importante per la mia sicurezza personale,  perché fu leggendo questo racconto che Luigi Aurigemma mi diede la sua benedizione, e si decise a prendermi sul serio, prima di questo racconto – ogni volta che tentavo con lui di parlare di lavoro, di pazienti, di clinica e di Jung, scartava sempre, andava altrove. Quando invece fu pubblicato, su “La Rivista di Psicologia Analitica” lui ebbe l’onestà intellettuale di scrivermi una lettera, e dirsi che si era sbagliato, per via forse della mia giovinezza, quando questo probabilmente è un mestiere per vecchi. Cominciò un nuovo corso.
Un caro saluto allora ai miei vecchi, che mi mancano tanto)

 

Il giornale rimasto aperto minacciava di volare via, io lo tenevo sulla pietra del parapetto coi pugni stretti, avevo la sinagoga alle spalle e dicevo se mi mettessi a piangere adesso direbbero tutti che è tanto salutare anche se di cattivo gusto e allora come faccio a piangere che sono anche così malvestita oggi, eppure li’ sul giornale c’è scritta questa cosa, questa cosa della morte e insomma, mi sembra il minimo piangere.
Ma vedete che è una cosa imbarazzantissima piangere malvesititi per la morte del proprio analista. Avere trent’anni, aver smesso di fumare pensandoci ancora troppo spesso, avere un fidanzato ancora da troppo poco tempo, avere un lavoro ma non si sa se ti fanno il contratto, insomma essere alle soglie della normalità occidentale piangendo il proprio analista in più per strada e in più con una maglietta troppo larga è veramente un’esperienza difficile.

Lo studio era un’icona. Certi ebrei e certi antisemiti concordano sull’aspetto delle cose e discordano sugli aggettivi da affiancarci. Nello studio c’era poca luce e sembrava che fossero le foto in bianco e nero a mangiarsela oppure la stanchezza degli scaffali. Sul pavimento c’era un vecchio parquet di listarelle che saltavano e sopra i tappeti lisi, (lui ci inciampava sempre e io dicevo oddio ora mi casca addosso che imbarazzo trovarmi con uno junghiano in braccio… e però no, non è mai cascato). C’era un tavolo vecchio con sopra souvenir di saggezze svariate buddha di giada, dee dalle cento braccia, alberi di pipe e in un angolo quello che valeva di più, una menorah proprio cheap, una menorah da motel che pure col tempo vedevo lui accarezzarla piano, in momenti di profonda ispirazione. E poi c’erano un mucchio di altre cose e tutte insieme facevano di quello studio una spelonca di saggio, e c’era un’appiccicosa aria talmudica e tutto era quello che si pensa quando si pensa a un vecchio ebreo, con stima o disprezzo secondo gli occhi di cui si dispone.

Alla fine mi sono messa a piangere forte. Ho avuto anche un ultimo pensiero fortemente semita e forsanche vagamente nevrotico, in cui mi dicevo con tutti i soldi che ho speso in terapia se non piango alla morte del mio analista segno che non sono brava negli investimenti, devo piangere se non altro per patrocinare la causa. A pensarci ho cominciato a piangere sapendo che io e il mio analista avremmo riso di gusto di questa considerazione. E ora mi rendo conto di quanto sia fortissimamente commovente, di quanto sia un grimaldello di lacrime, ricordarsi quando si ride insieme a una persona.
A quel punto proprio mi sono abbandonata alla disperazione nera, era mattina, una mattina calda di estate caldissima, una mattina di luglio ancora piena di macchine e persone, io volevo andare a un funerale ma non avevo fatto in tempo.

La casa stava in un bel quartiere di alberi, glicini, portieri in livrea. Come ho appreso in seguito mediante frequentazione di nevrotici di diversa risma e credo religioso, si trattava di un quartiere ad altissima densità di psicoanalisti. Immaginavo gli psicoanalisti incontrarsi dal giornalaio a scambiarsi facezie psicoanalitiche, di coloritura diversa a seconda la scuola di appartenenza – junghiani e freudiani guardarsi amabilmente tacciandosi di nevrosi l’un l’altro, vuoi per l’eccessivo tasso di materialismo vuoi per l’inflazione di spiritualismo. Mi immaginavo allora questi nuvolosi signori distinti, quello colla barba l’altro colla pipa, scambiare sorrisi autocoscienti, e già nella mia immaginazione provavo una stima infinita per quel dosaggio del sorriso, che se non ridi passi per maniaco depressivo ma se ridi sempre, sono guai. Immaginavo che compravano tutti il corriere della sera. Perché mi dicevo, gli psicoanalisti sono persone intelligenti mica possono votare a destra, d’altra parte se votano rifondazione è segno che il loro training non ha avuto l’esito sperato.

Mentre piangevo a dirotto arriva una coppia di premurosi turisti ispanici, una signora con un ragazzino. La signora parlava italiano e chiedeva cosa è successo? Per un po’ la mano sulla spalla mi è sembrata una cosa così ovvia che non ci ho fatto caso poi ho messo a fuoco sul cappelletto colla visiera di plastica, la canotta verde acqua, gli occhiali da sole blu cobalto. E poi ho visto pure il bambino e tutti e due mi guardavano solerti e interrogativi. Allora la mano sulla spalla mi è sembrata assolutamente poco ovvia e anche imbarazzante. Ringraziai la signora che ora guardava gli annunci funebri. Dissi che si, era mancata una persona cara. Poi sorrisi un po’ forzatamente ma in modo da esortarla ad andarsene. E allora la signora diede un colpettino e se andò col ragazzino e io piegai il giornale e guardai la sinagoga. La sinagoga rimase muta.

Quando parlava sputava e faceva anche delle smorfie strane. Mi avevano avvertita di questa cosa. Aveva nel volto qualcosa di infantile e un naso piccolo un naso di un altro, forse un’ipotesi di naso. Camminava a passi piccolissimi. Aveva gesti lenti invece, una segreta malattia, uno scacco della natura che lo costringeva a calcolare le mosse, a combattere con delle forze oscure, per prendere una penna per esempio, come se un diavolo gli volesse tenere la mano lontana dal portapenne. Ma vedevo che aveva imparato una strategica pazienza, e allora aspettavo silenziosamente la fine di quelle lotte minimaliste. Portava le bretelle, come piccola concessione glamour alla caducità della civetteria e aveva una moglie e due figlie, che io spiavo avida nei ritratti sulla scrivania. Sembravano tutte belle, tutte sorridenti, e io cercavo nelle foto qualche traccia di umanità, magari un difetto, magari una promessa.

Arrotolai il giornale piano e lo misi nella borsa di stoffa. Rimasi a guardare il fiume a mettere a fuoco le cose. I platani dall’altra parte. Un tizio con un cane sotto il guinzaglio che penzola. Gabbiani col becco grosso.

Mi mettevo sulla poltrona di pelle vecchiotta. Raccontavo delle cose, raccontavo dei sogni. Facevo quasi sogni su commissione. Ci andavo due volte a settimana e se si avvicinava la seduta e io non avevo sbrigato neanche un po’ di lavoro onirico mi sentivo in colpa. Ma sognavo Certo non facevo quei bei sogni junghiani di cui si parla nella letteraura specializzata. I pazienti di analisti junghiani sognano cose meravigliose archetipiche e fiabesche, sognano vecchie streghe, urobori, quadrati e mandala. Io facevo sogni caserecci, magari anche ridanciani. Ho pensato che facevo dei sogni freudiani magari corretti dalla cultura cinematografica. Per esempio sognavo di andare a sciare con Fantozzi, oppure sognavo di essere con Walter Matthau nel letto di mia madre. Poi le raccontavo a lui. Era come un gioco. Io raccontavo il sogno, lui se lo beveva piano ad occhi chiusi, se lo assaporava. Io intanto attendevo. Studiavo le rughe e poi venivano le domande e mentre si parlava il sogno si trasformava in qualcosa d’altro, prodigio dell’ermeneutica.
Spesso mi portavo il sogno trasformato appresso per tutta la giornata. Come una specie di amuleto, oppure come una specie di piccolo dizionario. Poi la sera a casa, l’avrei lasciato in uno scaffale, insieme ad altri sogni trasformati e così mi mettevo insieme la mia piccola enciclopedia onirica che sapevo mi sarebbe tornata utile.

Guardavo ancora: la sponda del fiume, il bianco del lastricato, il verde confuso dell’acqua. Due figure piccole che litigano sul margine dell’isola. Lei incrocia le braccia, sbuffa, ha un’aria impettita. Lui si è fatto lontano sembra che voglia dare calci ai sassi, ma non ce ne sono. Sono due ragazzini, 16 anni, dovevano essere a scuola, mi sa.

Alla fine della seduta con un bel sorriso mi regalava sempre qualche massima taoista. Buttava questi sassi nello stagno del mio inconscio, mentre le acque consce del mio razionalismo si indispettivano. Diceva cose tipo “Se un cavallo torna vuol dire che è tuo” “Non si può camminare sempre sulla punta delle zampe” e via con metafore concernenti galline e polli. Nei momenti di crisi galoppante, quando arrivavo alla seduta attanagliata da angosce fidanzatesche, angosce familiari angosce ancestrali mi diceva “ascolta il tuo tao”. Questa qui mi piaceva molto. C’erano mattine che l’angoscia mi legava in uno stato fuori del giorno, come prima del tempo. La vita mi si ammassava davanti, tutta insieme e forte e spaventosa. Allora dicevo “ascolta il tuo tao”. Il che di per se già mi distraeva essendo che stavo pagando uno per trovarlo, il tao. Ma mi portava via dall’angoscia e mi metteva alla ricerca di qualcosa più dentro e più sano, della paura. E poi mi alzavo. Per oscure alchimie delle faccende psichiche “ascolta il tuo tao”, funzionava. Bisogna dire che il mio Tao come si è scoperto in seguito non aveva proprio la forma sperata dal mio analista. Il mio analista voleva che in fondo al cuore ci trovassi una sbriluccicante stella a sei punte, e a questo fine talora mi suggeriva speranzoso: “si legga un po’ di salmi”. Ma non è riuscito a lenire la mia allergia per l’ortodossia ebraica. Tuttavia, per mantenermi vivo il senso dell’origine, ogni tanto chiudeva la seduta con una storiella yddisch sempre a proposito naturalmente, in modo da appagare le acque razionali del mio io e allo stesso tempo facendo l’occhiolino al mio tao, come a dirmi che se ora ridevo segno che dalla mia storia non scappavo.

Ora lei si è girata. Dice qualcosa e si allontana. Lui rimane fermo. Lei se ne va proprio via. Lui torna indietro. Vorrei far notare loro che sono un’isola anche piccolina e, presumibilmente, si incontreranno dall’altra parte.

Oltre al fatto che ero raonevolmente folle, ero approdata nel suo studio perché un giorno avrei voluto fare il suo stesso mestiere. Questo di per se è un segno di squilibrio psichico, a rifletterci è anche piuttosto evidente. Uno deve studiare tipo dieci anni, farsi torturare pagando per altrettanti per poi ottenere di stare in una stanza con delle persone sovente tristi, per molto tempo. Un mestiere per cui uno si fa pagare per essere intristito.
Forse era il fascino che su di me esercitava la categoria. Un mestiere così è un ventaglio per i salotti antichi, un’etichetta per i vini d’annata. Forse era l’idea dello studio, i libri il lettino. Forse il limpido sapore della gratitudine. Forse il segreto dominio sui pensieri per un’ora, la possibilità per un momento di mettere i guanti e toccare piano senza che si rompano i sogni degli altri, metterli in controluce e guardarne i colori.

Però io studiavo filosofia. e dicevo che me ne faccio di Platone, se non aiuto qualcheduno a ricordarsi quello che ha visto. Magari se se lo ricorda lui, me lo ricordo pure io.

Spostai lo sguardo sul parapetto. Fissai per un po’ le macchioline della pietra. Nere, bianche, grigie, ocra in certi punti. Le macchine sembravano più lontane ora. Era molto malato, era anziano, non sono andata al funerale, era legittimo andare al funerale che diritto ho io di andare al funerale io ero l’allieva prediletta la paziente preferita, che tanto quando si parla di psicoanalisti non è che cambi tanto una o l’altra cosa. Ma il funerale è già finito.

Mi avevano detto che l’analisi era una cosa dolorosa. Uno mi aveva detto: un sentiero di spine, l’altro una strada di cocci. E nelle sedute io diligentemente cercavo di pestarli i cocci, in cerca di sane sofferenze catartiche. Per la verità chi va in analisi nei cocci ci dorme e magari li per li non è che facesse tutta questa differenza… e poi certi cocci, a guardarli bene non sono neanche così male. Di certi cocci sono rimasta gelosa e me li sono tenuti per me.

Vero che c’erano volte in cui io arrivavo li, mi sedevo tutta di buon umore con tutt’un sacchetto di leccornie psicoanalitiche tipo lite colla madre, sogno di transfert magari addirittura con un rabbino capo, magari con un pezzo di ghetto di Venezia, che se proprio devo sognare ghetti sogno sempre quello di Venezia come mai non si sa, cioè si sa mio padre, è di Venezia. E allora insomma c’era un bel daffare e dire e stare zitti insomma erano sedute di parole e silenzi proficui e poi me ne andavo e lui mi aveva dato la mano, un sorriso pure, una qualche massima di gru per esempio, che lao tze le gru le teneva in gran conto, sono animali da metafora le gru, e io che gru non ero per niente uscivo e finiva che piangevo. Che certe volte i sogni ridisegnati sembravano condanne senza appello. E mi doleva dover sospendere le mie velleità per essere solo e solo paziente. Quello lo so era il mio coccio preferito. Mi ci tagliavo, e allora lo rigiravo lo smussavo. Ma pure, è sempre stato quello che mi ha detto la strada da fare.

Formiche, che portano briciole di pane in una frattura di pietra. Metto un dito prima della frattura. La formica cerca un varco, prima si sposta a destra, poi a sinistra, sempre col peso della briciola. Io intanto ricordo queste cose, e dico che tutto è andato come doveva.

Col tempo le mie velleità psicoanalitiche ottennero maggior credito. Ma fu un processo lento.
Al mio analista piaceva avermi come allieva. Avevo un sacco dei connotati giusti, studi filosofici, famiglia intellettuale, e persino lo shabbat da riscoprire. Ma era onesto e sapeva che un buon analista oltre tutte queste belle cose deve avere anche una preziosa inguaribilità, qualcosa magari di minuscolo, di ridotto all’osso, un piccolo diamante che punge e che vede. Forse voleva essere abbastanza bravo e togliermi persino il piccolo diamante, il più brillante dei cocci e sapevo che dentro oscillava tra l’orgoglio per il nuovo adepto, e un sottile dispiacere, per quella spina troppo preziosa.

D’altra parte per giuramento professionale era obbligato a dare credito ai sogni più che alle coscienze.

Lascio passare la formica. In fondo, questa formica mi pare coraggiosa a fare questo viaggio sull’orlo del parapetto. Non è una formica qualsiasi, di quelle che vivacchiano in basso negli angoli protetti dalle erbacce, questa è una formica particolare, fa avanti e indietro tutto il giorno lungo la linea dell’orizzonte.

Quindi mi iscrissi a psicologia. E cominciai a leggere le cose che volevo leggere. Leggevo gli eroi dell’oligarchia junghiana, ma ho sempre manifestato una malsana preferenza per l’arrabbiata bratacomiomachia freudiana. I libri da leggere erano decisi a fine di certe sedute, in conclusione di certi sogni, come se ora, alla piccola enciclopedia onirica, potessi metterci le note. E poi se ne discuteva insieme, e si diceva che io tutte quelle cose dovevo scriverle e io, non le scrivevo mai.
E intanto il mio analista si ammalava. Non lo vedevo che si ammalava. Cominciò a farsi trovare seduto, anziché raggiungermi nello studio. Anticipò l’orario della visita perché diceva, nel pomeriggio sono troppo stanco. Certe volte, la malignità della malattia gli rendeva difficile la parola. E cominciò a permettere che accadessero certe cose, come se fossero un ultimo lusso prima di un destino che cominciava a farsi sbirciare. Prendevamo il caffè, il tempo della seduta si allungava.
Ma a me lui sembrava sempre lo stesso, enorme, incrollabile, forte, iperuranico. Transfert, direbbero.

Mi accorsi che la formica conosceva la strada, che percorreva sicura un sentiero invisibile, avanti e indietro dalla crepa nella pietra fino al cibo dimenticato da qualcuno. Mi ipnotizzava guardare questo diligente andare e venire tra il cielo e il fiume.

Imparai il suo modo di lavorare, imparai la sua testa, le sue domande, i suoi witz. Ora portavo sogni dipanati come matasse e quando mi capitavano occasioni di scacco avevo la sua testa a disposizione, sapevo sempre cosa mi avrebbe detto. E mi acciambellavo nella comoda culla della allieva preferita. Mi ha sfiorato il sospetto qualche volta, che un bravo analista ha solo figli unici. ma questo senso di figlia prediletta mi rimaneva addosso, e io mi ci stringevo come a una coperta. Ci rendevamo conto entrambi che la strada era finita e che io dovevo andare a imparare qualcos’altro. Ma esitavamo sulla soglia. Come certe cene tra amici: tutta la sera per parlare di quella cosa e non si capisce mai se ora la questione è importante o pretestuosa, se è perché davvero che quel libro va letto, o è per via del freddo fuori del portone.
O chi sa, forse al padrone di casa non va la notte che sta per arrivare.

Due giorni prima avevo atteso a lungo fuori della stanza. In quegli ultimi tempi addirittura era a letto. Parlava poco e io andavo lo stesso. Lo stavo accompagnando da qualche parte e non me ne accorgevo. Io raccontavo le mie ultime novità le mie ultime riflessioni i miei ultimi studi. Raccontavo di libri e di sogni e lui ascoltava mentre illustravo come avevo imparato a sbrigliare le matasse. Sorrideva con sforzo e rimaneva immobile. Ma io avevo giorni buoni e lui era contento. In quegli ultimi giorni, mostravo il lato luminoso del brillante.
La sua stanza intanto, mi sembrava sempre più vuota. Mi sembrava che ci fosse solo lui e basta.

Le cose nella mia borsa. Chiavi di casa, agenda, un rossetto, un fazzoletto, un libro -di quelli che fanno ridere, un penna, della carta.

Aspettavo nel salone. Qualcosa ho capito e ho cominciato a mangiarmi avida tutte le cose che vedevo. Tutti i pezzi di anima che ci sono nella casa di una vita. I nomi sulle custodie dei cd, il graffio sullo sgabello del pianoforte, il grigiastro di candele mai usate. Un gruppo di libri in un angolo, nomi di oligarchie dignitose e remote. Mi sedetti dentro ognuna delle fotografie, dentro a viaggi compiuti, tra i testimoni del suo matrimonio, alla laurea della figlia. Toccai i posacenere d’argento, la scatola del tabacco le bottiglie per gli alcolici.

Poi mi hanno detto che questa volta davvero era meglio che me ne andassi.

 

Mi sono alla fine ripresa lo sguardo e le mani, mi sono accartocciata le mie cose e ho visto che era una di quelle giornate in cui Roma è piena di cielo. Non come certe ore in cui l’aria si inspessisce grigia sui tetti e si fa cosa dolorosa.
Ma era una mattina di cielo grande e alto e luminoso, che le chiese possono stendere i campanili, le case i tetti e si può camminare piano.

 

 

Scuola di danza

 

A sentire i rumori nella stanza, prima ancora di vedere i corpi non veniva proprio il pensiero della grazia, ma anzi rimbombava sull’assito del pavimento, la goffa permanenza nell’infanzia, tonfi, risate, ma anche riverberi di prime ambizioni. Il brusio da controcanto per i tre tempi che preludevano al quarto in cui, quella procace come una Carmen ottocentesca, si provava a fare la spaccata nell’aria, e riatterrava, fiera e troppo sensuale, per quella caserma dell’ascesi.

S’andava a scuola di danza un’ora prima dell’inizio del corso, con i capelli asserragliati nella crocchia, un’odissea di mollette nella testa, qualcuna anche del gel feroce ea domare un’anarchia contro culturale, le calze rosa e il body scuro. Le più grandi, le sopravvissute, le ambiziose, e qualche volta bravissime e bellissime, avevano pure un tutù vecchio da portare arrotolato ai fianchi, un vezzo di dimestichezza estrema con il palcoscenico che era meglio di una medaglia al valore militare, la prova di una prossimità persino emotiva, di una familiarità che sfiora nella routine con l’estetica teatrale.

Alle altre rimanevano i calzerotti, nel gergo del luogo e del tempo, i galloni della fatica quotidiana, la prova di un essere dentro, di un duro allenamento, da lasciar scendere dalla gamba alla caviglia, a dimostrazione di tentativi, tentativi, tentativi di esatta mollezza.
Si stava attaccate alla sbarra e si lasciavano ciondolare le gambe come compassi rotti, e poi certo, pure la schiena come un nastro di raso che scivola per terra con le mani.
Si aspettava la maestra di danza.

(Non erano tutte predestinate. Alcune erano escluse per l’ingratitudine di corpi troppo immanenti, altre per evidenti chiamate del godimento, certe ancora perché funestate da una proibizione nevrotica al piacere del corpo, al suo uso. La combinazione magica era in un precoce contatto interno con il dire delle cose senza parlare, insieme a una importante venatura ossessiva, con l’ambizione, e infine per le elette da Dio con un tipo specifico di sensualità, di femminino che in quel mondo si chiama talento. Ne ricordo poche, io non ero nessuna di loro –essendo goffa, ontologicamente ciarliera, robusta pigra e anche bizantina. Ma una certa Greta col collo e il modo di tenere le mani tipico dei cigni, a quindici anni volò alla Scala, e di li a Mosca. Tutte annuimmo con un grave cenno del capo.)

Quando la maestra poi arrivava, era tutto uno sbattere d’ali verso i confini della stanza, un assumere posizioni compite e corrette, ci si distribuiva lungo la sbarra, la maestra al centro, con lo specchio enorme alle spalle, la nostra coscienza infelice. Era una scuola modesta, non si disponeva di pianista, c’era un piccolo registratore. La maestra lo accendeva e faceva vedere l’esercizio. Esercizio questo primo, come il secondo, il terzo e il quarto, di apparente semplicità, e per il profano, forse di considerevole noia, e scarsa fatica. La danza è prima di tutto una questione di parossismi interni, di tensioni estreme in stato di fermezza, di movimento controllato dopo la soglia dell’angoscia. La maestra metteva musiche gentili e graziuose, cose sull’orlo di un punto croce, giri da vecchine con il tè delle cinque, a cui noi obbedivamo come soldati di trincea, mentre lei sberciava come un caporale di provincia, brandendo il bastone e colpendo le schiene e le gambe. Le gocce di sudore scendevano.
I padri questa cosa – non l’avrebbero mai capita.

(La maestra di danza mi guardava di rado, e mi regalava carezze meccaniche con estrema parsimonia. Apprezzava soltanto un certo mio modo di tenere il collo del piede,  e forse era il suo minimo sindacale per potersi dire che m’aveva incoraggiata. Mi vedeva come non mi vedevo io ancora. Bambina prima, e adolescente poi, io mi ricordo di me come di un animaletto insignificante e poco efficace – ma lei credo che indovinasse, certe connotazioni che mi sarebbero uscite da grande – forse in me vedeva i segni di mia madre e di mia nonna, in effetti prime cittadine di altri mondi. E forse ora che ci penso, altre cose che cominciavano a germogliare già allora.

Perché per esempio, le mie compagne, osannavano la maestra di danza, di cui io invece già allora, coglievo distintamente la piega infelice della bocca, e tutto un romanzo ingiusto che l’aveva resa ostile alle cose. Era una donna minuta e piacevole, eccessivamente esile direbbero le mie competenze di oggi, ma soprattutto una donna che faceva fatica a prendersi il diritto a quel secondo tipo di erotismo che è prima di tutto l’atto di ballare. Mi accorgevo che anzi, in tutte le occasioni importanti della vita aveva sempre esitato prima di afferrare il godimento, mentre tutti intorno a lei – in primo luogo la scintillante sorella – fioriva senza ritegno. Morì giovane, troppo triste, forse con meno gentilezza di quanta ne avrebbe meritata)

La sbarra durava a lungo, in un crescendo di epos e stacanovismo che non aveva uguali. Se ne emergeva sfiancate e alcune, particolarmente pronte – all’atto della danza vero e proprio. Si cambiavano le scarpe, si intingevano nella pece, qualcuna già sognava di guadagnare l’uscita, io ero divisa tra la convinzione di imparare qualcosa di meraviglioso (che mi è rimasta) e d quella di fare qualcosa di assolutamente incongruo con ogni parte di me (che mi è rimasta). Già un po’ antropologa, guardavo le mie compagne ai lati della stanza, muovere le zampe nervose e i colli lunghi come puledri stretti nel recinto. Io speravo in un arabesque e un divano.

La maestra di danza ne avrebbe chiamata una ad una per fare per esempio delle piroette in diagonale, nella feroce celebrazione del darwinismo sociale del talento. La figlia della merciaia sarebbe caduta senza riscatto, la nipote del rabbino sarebbe stata punita per la sua rigidità, Costanza insomma insomma, poi veniva questa Francesca, volteggiava come una libellula, tutte si concedevano un sorriso.
Nessuna però,si poteva accasciare sulla terra, grande nemica di questa astrazione carnale.

 

Nella sua pedissequità – qui

Lacrime di coccodrillo

 

Volevo chiedere scusa in cuor mio a Paolo Villaggio tardivamente, e per averlo guardato a lungo con occhi disonesti. Se faccio a tempo anzi, un giorno o l’altro gli vorrei portare anche un fiore sulla tomba, un sorriso, uno sberleffo, una carezza. Scusami scusami scusami. Grazie e scusami.
Negli ultimi anni mi era parso amaro bianco e dispiaciuto, enorme anche e nelle ultime apparizioni televisive come anestetizzato da qualcosa, appassito, confuso. Ci avevo già fatto pace, devo dire, e pure parecchi anni fa, quando un mio caro amico mi aveva portato a vederlo a teatro, forse per via di un abbonamento non ricordo, fece un Avaro di Moliere al Teatro Argentina, semplicemente titanico. Io scoprii un mondo, e capii tardivamente che a detestarlo per tutti gli anni della mia velleitaria carriera di intellettuale, non ci avevo capito un cazzo. Mi vergognai ricordo, un bel po’. Forse questo mio amico aveva anche provato a dirmi nel foyeur del teatro che Fantozzi, e tutto Villaggio avevano delle cose interessanti da dire, e io dovetti risultare arrogante e confusa, come ero spesso in quegli anni. Poi mi ricordo che in quella interpretazione lui riuscì a mettere il dito nel tragico, e anche in una lettura magica, e persecutoria e feroce di quella commedia. Fu terribile ricordo – certo merito anche di una grande regia, e un ottima scelta di illuminazione – bluastra, livida lunare – ma ricordo che pensai che quell’attore per rendere quella scena, doveva avere un’intimità con aspetti torbidi, persecutori, maligni dell’esistenza che io gli avevo sempre negato.
Deficiente. Deficiente. Deficiente.

Avevo visto diversi film di Fantozzi, che per una persona della mia generazione era una sorta di obbligo sociale. Fantozzi era una delle monete culturali che univano ogni volta dei piani generazionali. Un’altra per esempio sarebbero stati i film Amici miei primo secondo e terzo. Altri ancora erano certi cantanti. L’effetto catartico che però aveva Fantozzi per la maggior parte degli italiani non era garantito da nessuno: Fantozzi era guardato dai più nei termini di un ridere di, e non di un ridere con. Forse parte integrante di quelle sceneggiature era la doppia valenza per cui, qualche spettatore davvero sofisticato riusciva a sopportare le conseguenze teoriche, l’idea di umano che tutta l’epopea del ragioniere trasmetteva, ma ecco, la maggior parte e forse, la maggior parte di noi coetanei borghesi e con la bocca sporca di latte, era grata al ragionier Fantozzi perché legittimava i più bassi istinti discriminatori, fortemente classisti, elitari. Tutti ridevano, perché si sentivano più fichi del Ragionier Fantozzi, ridevano perché lui era lo Sfigato di cui ridere, il non loro servile, respjnto, non amato, espulso, che loro si credevano – devo dire con cinismo in qualche caso clamorosamente a torto – che non li avrebbe mai riguardati. E io odiavo Fantozzi perché mi pareva, idiozia suprema che questo fosse il senso dei suoi film. Mettevo addosso a Villaggio lo sguardo della maggior parte degli stronzi, che non avevano il coraggio di farsi carico di quello che diceva.

Si rideva molto ricordo per esempio – unico momento in cui ci si sentiva di potersi identificare con il Ragionier Fantozzi – al pensiero della cagata pazzesca della Corazzata Potiomkin. Piaceva da pazzi l’idea anarchica e iconoclasta di uno che abbatte un mostro sacro quando, la questione di fondo non era abbattere tutto ciò che colto, ma abbattere quelle ridondanze della cultura che non portano da nessuna parte e che hanno fottuto la sinistra di questo paese intellettuale e non solo. Anche qui: vent’anni dopo, per la mia tesi di laurea in psicologia mi sarei imbattuta sui pipponi infernali, a proposito della carrozzina per le scale. Sulle teoresi delle teoresi delle teoresi. Fantozzi mi sarebbe tornato in mente, con sprazzi di gratitudine.

 

Io per parte mia ero stata di quelle ragazze giovani, che non reggono la dignità del cinismo, e si difendono con l’istinto materno. Devo dire, sono stata a lungo questo tipo di sguardo e vedo che ogni tanto torna, come un’ondata. Ma anche quel modo per cui – non reggevo Fantozzi, mi dispiaceva troppo, mi faceva piangere, mi indignava che se ne ridesse, e mi indignava pure Villaggio (te l’ho detto, scusami) mi faceva perdere di vista qualcosa, di poetico, di narrativo di importante.
Eppure non era solo colpa mia. Intorno a Fantozzi succedeva questo: quelli che ridevano di quello che tzk non erano, quelle che compiangevano quello che tzk non erano, gli intellettuali che spesso ne prendevano vergognose distanze. Forse a destra, qualche mente particolarmente brillante si decideva a coglierne il genio. Poca cosa.

Il fatto è che per una decisione voluta, forse con una precisa intenzione etica estetica e politica, niente di quello che ruotava intorno a Villaggio doveva essere in primo luogo decodificato come bello, polisemico, e orrore – profondo. I titoli di testa e i titoli di coda rinviavano a una smandrappata levità con il Font della grafica imparentato con i Film di Lory Del Santo, e la qualità della pellicola dubbia. Forse anche film poveri, di bassa pretesa, con tutto un cotè da narrativa popolare – questo, il vero specchietto per le allodole, in cui a file intere di centurioni spettatori sono caduti. Fantozzi, che era la chiave di un mondo ingegnoso e bellissimo, e fantasioso, a tratti nel senso del surreale diretto derivato di certi racconti di Buzzati – il direttore megagalattico di qua, le poltrone di pelle umana di la, e ora mi ricordo che cito sempre nel mio parlare, la meravigliosa “nuvola di Fantozzi” che mi ricorda certe storielle yiddisch alla rovescia, per cui niente, in gita pioveva solo in testa a Fantozzi, ecco tutte queste cose meravigliose e narrative, non erano indicate come estetiche, e bellissime, con i trucchi che la regia sa trovare per dirti come qualificare ciò che vedi, ma rese, operazione tragica nel tragico, banali, dozzinali, qualunque – un film di cassetta come un altro. Non si correva il rischio di apparire eruditi segaioli.

 

Mi ricordo infine il feroce sarcasmo con cui disse, in una serata da Paolo Rossi – diventerai famoso quando sarai morto. Solo da morto ti riconosceranno il tuo genio.Paolo scusaci davvero. Per buona parte è stata colpa nostra.
Non tutta.