Sulla mia pagina Facebook ho fatto un piccolo sondaggio e ho chiesto ai miei contatti le caratteristiche salienti per loro di un buon terapeuta. Almeno un terzo ha messo al primo posto l’empatia, o l’accoglienza. Le caratteristiche di secondo livello a ben vedere, erano poi spesso derivate dall’empatia – perché facevano riferimento alla capacità del clinico di allinearsi spontaneamente ai desiderata e agli stati emotivi del paziente. Per esempio c’era chi chiedeva una distanza non intrusiva ma calda, oppure di non essere giudicato, oppure chi faceva riferimento alle sue capacità affettive. Solo alcuni, e mai in prima battuta chiedevano una preparazione clinica, rarissimi un lavoro su di se. Altre caratteristiche importanti di questa come altre professioni – erano a stento menzionate da colleghi, come per esempio la possibilità di reperire un pensiero e delle soluzioni creative, il lavoro clinico su di se.
Solo una collega, con cui ero molto d’accordo e spiegherò dopo perché – parlava dell’importanza del piacere che deve provare chi fa questo mestiere. Trovo che il fatto che questa sua risposta sia stata isolata, non sia un caso.
Nell’idea collettiva dunque prima di tutto un terapeuta deve essere gentile e accogliente: il pensiero va alla difficoltà di mostrarsi fragili e di voler trovare un posto sufficientemente buono, dove poter mettere in campo cose personali avvertite come sgradevoli, ma anche delicate e a cui si è anche in qualche modo affezionati. E’ un’idea che ha un suo fondamento reale, ed effettivamente un terapeuta rifiutante può lasciare i pazienti interdetti. Ma anzi, possiamo approfondire questa necessità dell’empatia del terapeuta in due ulteriori direzioni che sono altrettanto importanti e meno romantiche. Infatti, in primo luogo l’empatia è una cosa che in questa circostanza fortifica i processi logici e certi ragionamenti deduttivi: per fare un esempio tra i tanti, nel mio modo di lavorare per esempio è uno strumento prezioso per individuare narrazioni falsate, racconti forzati e poco veritieri aspetti omessi o manipolativi– perché siccome sono piuttosto consapevole delle mie capacità empatiche, quando non ho risposte emotive forti quanto meno le mie emozioni mi stanno dicendo qualcosa di importante riguardo a quello che mi viene raccontato qualcosa di omesso.
La seconda considerazione che farei però, è a un livello più grande, riguarda non solo l’idea di un terapeuta come genericamente empatico – cioè capace di allinearsi con gli stati emotivi dell’altro, e di sentirli, ma un terapeuta che ne abbia voglia. Deve averne voglia, perché in qualche misura questo è in un modo non esagerato, o retorico e quasi meno urgente di altre situazioni, la prova che questo terapeuta è una persona buona, una persona cioè che si dispiace del dispiacere dell’altro. Che a prescindere dall’orientamento suo, e dal grado di indigeribilità del suo paziente, ne sappia vedere il bambino interno in difficoltà e amareggiarsi per lui: questa cosa, secondo me è una cosa davvero importante del buon terapeuta, perché in studio arrivano anche persone che possono essere molto antipatiche, e respingenti, o anche semplicemente molto noiose, o apparentemente molto banali. E vengono perché quei loro difetti conclamati, sono stati la loro coperta inefficiente alle aggressioni del mondo, che per quanto non funzioni perfettamente, continuano a tenersela -e anche in studio saranno sgradevoli, antipatici, indisponenti. Perciò, se il terapeuta ha un buon grado di contatto emotivo e una buona empatia, dopo vedrà il bambino che questi pazienti sono stati, prima di tutto dirà che palle, questo o questa qui non ce lo vorrei – poi si dispiacerà di quello che ha visto.
Un buon terapeuta, cioè secondo me, è uno che nell’ordine in primo luogo sa dire Dio che persona tremendamente faticosa, e poi dire, lo capisco perché, lo sento, confusamente lo sento. E lo prende in carico.
L’empatia dunque, non solo come quella cosa che fa mettere comodo il prossimo. Ma quella cosa che serve a capire delle cose complicate che lo riguardano, e anche quella cosa che deriva dal volere il suo bene..
Ne deriva una conseguenza – un primo elemento per identificare terapeuti meno attrezzati, con qualcosa da perfezionare oppure, con il bisogno di un lavoro su di se per lavorare bene per cui, se vogliamo vedere cosa è almeno in astratto un cattivo terapeuta possiamo pensare in riferimento al punto uno: o una scarsa empatia, o un uso nevrotico dell’empatia che va contro i fini del paziente. Per esempio il terapeuta riconosce gli stati emotivi del paziente, li sente, ma li gestisce in modo poco accorto: si arrabbia sempre con il paziente, ha una risposta troppo spesso sfidante, oppure se ne difende e si chiude. Questo terapeuta difettato può ricordare quei genitori che con i loro bambini dimenticano di essere genitori e si collocano come tra pari, arrabbiandosi su un piano di parità con il bambino. Se quel comportamento di solito non porta niente di buono sul piano della pedagogia, perché rende tutti troppo forti e il comportamento da apprendere va sullo sfondo, fa altrettanti guai in terapia: il paziente si sente simultaneamente sopravvalutato ma anche aggredito anche se inconsciamente – e anche se non se ne rende conto, ciò che porta va sullo sfondo. E’ qualcosa che capita raramente, e certo ci sono bambini e pazienti che usano il creare rabbia nell’altro come modo di comunicare – e quindi anche questo può essere utilizzato in stanza. Ma terapeuti costantemente antagonisti hanno oggettivamente un problema, così come può avere un problema di efficacia un terapeuta che sentendo l’incandescenza di contenuti spinosi emotivamente – il sottotesto di un pensiero di suicidio o di omicidio, oppure una fantasia di carattere incestuale – vi gira intorno e li elude come proteggendo il proprio timore di essere scottati.
Il voler il bene dell’altro, non credo debba però essere la caratteristica principale, o diciamo meglio esplicitamente dichiarata come tale, di un buon terapeuta, e credo neanche il motivo principe della sua vocazione. Più specificatamente tendo a diffidare dai terapeuti che con convinzione dovessero dichiarare che fanno questo mestiere per una questione di buon cuore. Per fortuna ne capitano pochi e non solo perché dichiararlo sarebbe di cattivo gusto. Solitamente le motivazioni psichiche che fanno scegliere questo mestiere – come in generale le motivazioni psichiche che fanno scegliere le professioni di aiuto – sono molto meno nobili e talora sono indegne. Possono viaggiare dal desiderio di controllare l’altro, al piacere di sentirsi indispensabili e oggetto di dipendenza, dal ritorno narcisistico al desiderio di monitorare ossessivamente negli altri parti di se irrisolte. Nessuna di queste motivazioni scabrose è davvero un peccato, addirittura possono essere una risorsa , diventano un peccato quando non sono viste, e vengono occultate dall’idealizzazione di se del mestiere. Quel tipo di idealizzazione – io sono buono, e voglio aiutare te che sei debole, è una trappola mortale che costringe l’altro a un ruolo, il ruolo della persona in difficoltà, e quindi può introdurre nella terapia freni pericolosi ma anche vincoli mefitici. Il paziente può dispiacersi per esempio all’idea di potersi contrapporre al terapeuta, al farsi vedere forte. Il paziente per stare dentro al gergo psicoanalitico, potrebbe viversi come un bambino per cui crescere è una ferita alla madre che ora, non avrebbe più un ruolo.
Per questo invece preferisco il riconoscimento nel clinico, di una sostanziale categoria edonistica, del piacere il piacere di stare con altre persone e lavorare su degli oggetti pieni di variabili come sono le vicende di vita. Questo egoismo edonistico del clinico ha per me il primo luogo un fondo di realtà spesso occultato dalla retorica pubblica, che vede le psicoterapie un posto dove le persone portano solo i loro lati tristi o fallimentari, o le loro esperienze spiacevoli. Ma non è vero perché la psicoterapia non è solo questo. E’ anzi anche, potenziare delle risorse metterle in scena, dar loro spazio – goderne e indicare la loro godibilità. E quindi anche, trasmettere l’idea che si fa bene ciò che piace fare, ciò che da piacere. Questo prosaico richiamo al piacere, libera anche il campo dalle asimmetrie delle dinamiche salvifiche e restituisce al paziente la titolarità delle sue azioni e delle sue responsabilità, anche in passaggi che possono essere – qualche volta – anche duri. Ho un ricordo molto nitido di quando il mio prima analista mi disse “a me di quello che fa lei non frega niente” e qualche volta, certamente con calcolo e preliminare attenzione anche io ho trovato opportuno dire “è una roba sua, non mi riguarda”. Spiazza, contravviene uno stereotipo materno della terapia, ma da aria, ossigeno, responsabilità e senso della potenzialità.
Ne consegue, che se vogliamo pensare a un astratto “cattivo terapeuta” o a un terapeuta che in un certo passaggio della sua vita non funziona al meglio, io credo che sicuramente ci sia il terapeuta che non si diverte a lavorare, che ha perso il bandolo del piacere, per cui nelle sue prassi di lavoro avanzeranno sul campo solamente dimensioni superegoiche, difensive, scabrosamente anaffettive.
Buona parte delle cose di cui ho parlato, e insieme ad altre che fanno un buon terapeuta, si sorvegliano meglio quando il terapeuta abbia attraversato almeno, una terapia su di se. Due è anche meglio. Ho un’idea della psicoterapia come un lavoro artigianale, o forse come il lavoro di domatore di bestie feroci e bizzarre, che possono essere risorsa magica se le addestri a fare quello che vuoi tu, ma che scassano tutto se non ti sei esercitato a parlare con loro. L’inconscio di un terapeuta è qualcosa a metà tra un violino e un leone da circo, tra un rabdomante e un serpente. Può riconoscere i suoi simili e portarli sulla retta via ma può anche esserne terrorizzato e azzannarli senza pietà. Il terapeuta è un portatore di ombre che deve far crescere altre ombre. Dunque sarà bene che lavori con tutte questi suoi mostri li addestri, e li ascolti.
Questo lavoro su di se, che faccio fatica a pensare senza un lavoro di analisi personale – uno dei pochi motivi salienti di attrito e contrapposizione tra scuole analitiche e non – implica il raggiungimento di una maturazione professionale che porta a usare la propria organizzazione caratteriale e di personalità, in maniera più completa e funzionale di quanto possa accadere spontaneamente. Per capire esattamente cosa intendo, dobbiamo fare un passo indietro.
Oltre ai terapeuti ci sono le relazioni terapeutiche, le migliori delle quali spesso si avvantaggiano di una combinazione ben azzeccata delle parti. Quel certo paziente giovane uomo, in quel certo periodo di vita si troverà particolarmente bene con un terapeuta uomo, più grande di lui. Quell’altro invece, con una donna della sua stessa età. Oppure quel certo paziente giovane si accomoderà meglio con un paterno silenzioso, che mantiene un livello di attivazione basso, che interviene poco, che è introverso. Il secondo invece, magari molto simile a quel tipo psicologico potrebbe fare grandi cose potendo affidarsi a una figura carismatica, da idealizzare, che indugia in dichiarazioni anche direttive.
Il bravo terapeuta giovane professionalmente, è quello che sa lavorare bene con la sua equazione personale: come i giovani scrittori che scrivono bene racconti presi di peso dalla propria adolescenza, se gli si mette davanti un paziente complementare possono fare grandissime cose. Con il tempo però il bravo terapeuta maturo professionalmente deve saper fare come i grandi scrittori che si inventano storie lontani da se stessi, e vestono panni che non sono propri. Il grande terapeuta è un vecchio maschio che sa fare la madre giovane e e scintillante, o l’analista donna di suo estroversa e spumeggiante che sappia passare in uno stare doloroso, silenzioso e muto. L’indovinare questa capacità di modularsi nello stile relazionale, è il terzo elemento che fa la differenza tra un clinico ben equipaggiato e uno mal equipaggiato. L’accorgersi che spesso si deve ruotare il proprio stato d’animo a seconda della faccia del paziente che arriva in stanza è un buon segno.
Questa cosa arriva a coinvolgere variabili sottovalutate spesso, in termini di linguaggio e di gergo di classe. Variabile di genere e di classe sono estremamente importanti in questo lavoro, e mentre quelle di genere sono state al centro di importanti convegni, pubblicazioni, osservazioni, le variabili di classe, e di come incidono nel modo di funzionare delle terapie mi pare siano molto meno dibattute. Divengono molto importanti, anche per chi come me esercita esclusivamente la libera professione: perché il sistema sanitario nazionale sta collassando nel momento in cui in realtà la domanda di psicoterapia aumenta, e nel privato cominciano ad arrivare potenziali assistiti che prima erano destinati solo al servizio pubblico.
Ora ognuno ha familiarità maggiore con il proprio gergo di classe e con la propria appartenenza di classe, che non dimentichiamoci sono questioni investite anche di proiezioni affettive. Un certo mondo sociale ci ricorderà il padre, o la madre o entrambi, e questo condizionerà il nostro modo di viverlo. Ci saranno poi pazienti che incarneranno ciò da cui si scappa, e pazienti che invece impersoneranno il punto dove si vuole socialmente arrivare – e già queste sono cose da monitorare con grande attenzione. Ma ci saranno pazienti che parleranno lingue che ci sono estranee e si conoscono poco, o si guardano con diffidenza, lingue che sono echi di visioni politiche ed economiche e anche echi di idee e dimestichezze private. Un buon terapeuta deve saperle usare tutte e vincere eventuali idiosincrasie ed ostilità. Deve saper essere borghese o parolacciaro, deve saper dire rapporto orale e pompino, deve dire parti basse e culo. Saper parlare francamente di morte e di soldi oppure arrivarci piano, tollerare elitarismo e populismi – non ci devono essere totem culturali che gli impediscano questa operazione.
Ho un’idea precisa di terapeuta che non funziona bene in questo contesto. Ero in consultorio e una giovane collega (gioventù che spiega benissimo il suo errore) parlava di un suo paziente adolescente. E raccontava “ho detto, possibile che non gli piaccia un film decente? Se gli chiedo un film questo risponde i cinepanettoni! Ma insomma questo è un posto con un certo tenore un certo prestigio! Si sforzi!” Probabilmente per la giovane collega, per la sua storia personale sociale e di classe, quel tirocinio era un punto di arrivo, un’idealizzazione che proteggeva l’idea di se. La capisco, in altri frangenti devo aver provato qualcosa di simile, magari dopo aver fatto molti lavori umili per mantenermi agli studi – ma di fatto quell’idealizzazione aveva sbarrato la porta alla comunicazione con il giovane paziente. Bisogna essere pronti a tutti i piani metaforici. Se uno ti parla solo di cinepanettoni, wow è vanno benissimo i cinepanettoni. Ma anche se una ti parla solo del braccialino di Tiffany che non si nota molto tu stai sul braccialino di Tiffany. Lo usi come una piccola piattaforma. Se non ci riesci – hai un problema.
Un’ultima classe di considerazioni per quel che riguarda aspetti più ristrettamente tecnici. Non nascondo la mia predilezione per psicoterapie di orientamento psicodinamico, forse con qualche perplessità verso i filoni freudiani più ortodossi – per esempio al di la dei limiti economici e materiali guardo con diffidenza tecnica oltre che deontologica cure prolungate che prevedano tre sedute settimanali. Ugualmente avverto una certa lontananza con le prospettive per esempio cognitivo –comportamentali In generale ho una formazione psicodinamica l’ho scelta perché la consideravo migliore di altre, troverei ipocrita dire che oggi ho cambiato idea. Tuttavia, mi rendo con agio conto del fatto che un bravo psicoterapeuta è un bravo psicoterapeuta con qualsiasi strumento in mano – basta che lo sappia suonare molto bene. Ci sono ottimi e salubri cognitivisti, ottimi sistemico relazionali e persino – ottimi lacaniani – altra parrocchia con cui ho rapporti sofferti. Ci sono anche psicoterapeuti che sono talmente bravi, da saper suonare bene strumenti diversi – e questo per esempio per me, è una sorta di ideale regolativo: saper suonare strumenti clinici diversi.
Tuttavia, ho una sorta di sensazione di metodo per cui: prima di tutto ne devi saper suonare uno, e anche benissimo. Un buon terapeuta arriva a fondo nell’approfondimento di un orientamento operativo e per come la vedo io ci deve stagnare a lungo, esplorarlo, applicarlo fino alla morte, romperlo e ricostruirlo vedendo quello che succede. Questo prototipo dell’apprendimento professionale diventerà uno schema mentale con cui avvicinare cose che riguardano altri approcci, di cui deve saper cogliere però la tridimensionalità, le radici psichiche e storiche. Non basta piluccare, si deve essere capaci di trapiantare, sapere di cosa vivono le radici, dove si possono fare innesti e dove no. I corpi teorici sono infatti piante vive, che crescono interagendo con l’ambiente seguendo ognuna il suo codice genetico: una fiorisce con un certo clima una con un altro. Una su un certo terreno cresce di più l’altra muore. Un approfondimento forte degli strumenti, o delle piante teoriche porta a un modo migliore di lavorare.