Sesso e genere: il corpo casa. Alcune note

La questione del rapporto tra identità sessuale e ruoli di genere, è un tema che continua a infiammare il nostro dibattito culturale a cicli regolari, per una serie di motivi, il primo dei quali è strettamente politico. Le differenze sessuali sono utilizzate per mettere in campo delle prescrizioni comportamentali rispetto a ciò che uomini e donne possono e devono fare nella loro vita quotidiana per tanto, l’argomento ha una rilevanza pratica enorme. 

Per quanto mi riguarda devo ammettere che c’è anche una fortissima fascinazione filosofica e scientifica intorno all’argomento. E’ un tema che ha delle questioni divertenti, intriganti, anche di sociologia, di studi culturali, ci ritorno regolarmente non tanto, o non solo, perché personalmente me ne senta toccata  quanto perché appunto mi diverte. Ci ritorno anche perché per noi analisti, è un luogo interessante di costruzione delle teorie – e una sponda a cui dobbiamo tornare spesso per lavorare in modo rigorosamente rispettoso con i nostri pazienti – i cui modi di stare male, passano quasi invariabilmente tramite l’interpretazione del proprio ruolo di genere. 
La professione che svolgo, che è quella di analista, d’altra parte mi obbliga a una doppia attenzione etica all’argomento, perché come terapeuta sono terapeuta di tutti, non per dire solo delle donne, o solo degli uomini, e perché come terapeuta ho rispetto dei contesti politici che riescano a produrre felicità anche con scelte quotidiane che non sottoscriverei. La mia vita privata in questo mi ha aiutato, e i libri di vite lontane hanno contribuito. Per quanto io sia una donna professionalmente piuttosto ambiziosa, che lavora almeno 40 ore a settimana, figlia, nipote e bisnipote di donne ambiziose e lavoratrici – non mi sconvolge per niente e capisco perfettamente quella che sta felice a casa con i bambini. Questo saper rispettare scelte di politica privata altre dalla mia,  nella gestione del ruolo di genere, è per me una conditio sine qua non della mia posizione etica professionale. 

Di solito, la questione viene posta in termini molto semplificati, per cui si collocano due poli del dibattito, quello essenzialista e quello costruttivista.  Questa dicotomia mette da una parte quelli che in base all’identità sessuale decidono che derivano tout cort dei comportamenti da prescrivere come giusti e appropriati, essenzialisti – e dall’altra quelli che invece ritengono che sia il contesto politico e culturale a costruire le immagini di genere sfruttando la materia inerte del corpo. E’ anche fascinoso notare come il potere combinatorio delle nostre abilità retoriche riesce a fare in modo che si ritrovino tutte le posizioni in tutti i partiti politici. E’ pieno di femministe gioiosamente essenzialiste, ma può capitare di assistere al curioso panorama di qualche costruttivista profondamente conservatore. In linea di massima però – La prima delle due posizioni mentali impone un vincolo, la seconda lo rifiuta. Così come noto le seguenti ricorrenze: tra le fila delle posizioni essenzialiste, abitano molti modi di pensare poco sofisticati, poco aggiornati, quanto francamente impreparati, mentre la posizione costruttivista vanta di per se competenze, riflessioni, in generale un lavoro intellettuale molto più forte. Emotivamente io sento di appartenere, come progetto politico e come modo di affrontare le cose più ai secondi. E per quanto io sia presto approdata a una posizione, con alcuni cardini essenzialisti – come sento parlare di “le donne” e “gli uomini”, metto mano alla pistola.  Siamo determinati da una grandissima quantità di essenze infatti, che si combinano tra loro. 

Nella mia personale soluzione, che non saprei bene dove collocare in questo continuum, io considero i cervelli degli uomini e delle donne troppo poco differenti perché siano contrapposti. Per quanto si trovino alcune differenze biologiche, a livello del corpo calloso, per esempio, quando si vanno a fare dei disegni di ricerca sui processi logici non arrivano mai risultati veramente apprezzabili, che portino a chi sa quali plateali differenze.  Fare questi disegni di ricerca pone problemi ermeneutici molto complicati. Anche l’accento che si mette sui diversi appannaggi ormonali – che dopo tutto sono altri mediatori come i neurotrasmettitori, mi lascia piuttosto fredda. Interpreto gli ormoni come delle macchine, quelli ce l’hanno di una marca, noi di un’altra, ma sempre macchine sono. Non mi pare che introducano variazioni dirimenti, o che possano vantare il potere di altri fattori. 
Sento molto potente invece, il resto del corpo che abitano i nostri cervelli, e sento che le differenze tra corpo degli uomini e corpo delle donne, siano un oggetto semanticamente rilevante al di la del mondo che si abita.  Questi corpi diversi, hanno connotazioni diverse con capacità diverse. Per esempio uno può portare dentro un altro corpo e l’altro no. Uno vede la propria eccitazione sessuale e l’altro no. Uno perde sangue per dei giorni al mese e l’altro no, a uno cresce la barba sotto al mento e all’altro no. Uno gode sessualmente mettendosi dentro un oggetto, l’altro mettendo il pene da qualche parte. Uno ha la forza per fare cose che mediamente l’altro non può fare, uno può partecipare alla procreazione fino a un certo punto della vita, l’altro molto più a lungo. Considero queste caratteristiche del nostro corpo ambiente, dirimenti, e questo mi fa dire, grosso molto, che è vero, siamo scritti da molte variabili intorno a noi.

Ma il corpo, è il nostro primo ambiente culturale.

Definire il corpo come primo ambiente culturale, secondo me è di grande aiuto, perché in questo modo, ne capiamo meglio la sua connotazione particolare, di essere cioè simultaneamente: un oggetto parlante, intrusivo, capace di produrre da solo significati, ma anche di essere un oggetto a sua volta riparlato, ridetto ricodificato dal mondo culturale in cui è iscritto. 
Definirci come cervelli che abitano una serie di cornici produttrici di senso, dalla prima delle quali è però è terribilmente impervio uscire, ci aiuta a capire come costruiamo i nostri modi di vivere, e di abitare i nostri corpi. Ci aiuta a capire bene la successione di discorsi, e la sovrapposizione di discorsi che implica il nostro usare il corpo, e la tensione di questioni che implica la propria interpretazione di identità sessuale, e ruolo di genere. 

Se il corpo è una specie di casa, la nostra casa, da una parte ci sarà il come noi la abitiamo, e come noi ne interpretiamo le diverse funzioni, dall’altra ci sarà indubbiamente il tema di come la città dove è situata la nostra casa interpreta le case. Il momento storico in cui sorge, etc.. Quando noi ci approprieremo della nostra casa corpo, da una parte quella avrà un significato come dire a prescindere, dall’altra ci sarà una questione di come è parlata dal suo contesto.
Il che effettivamente succede anche con le nostre case, quelle dove dormiamo. Un secolo fa l’angolo cottura era l’abominio, e il corridoio il segno di un ordine mentale e politico che testimoniava l’accesso alla borghesia. Oggi la cucina  – spazio della nutrizione e della funzione materna può essere molto contratto, e in linea di massima, si testimoniano possibilità di ordine mentali che non sprechino tutti quei metri che si mangia un corridoio, ma anche una visione dello spazio vitale che può rispecchiare una nuova gerarchia di valori. Gli ingressi stanno sparendo. Si può piovere direttamente in un salone.

Ora, la parte particolarmente problematica di questa idea di corpo come primo ambiente culturale, è che implica una sua autonoma istigazione alla produzione di significati, che prescinde dalla società in cui si vive. Il costruttivismo dice che il nostro modo di interpretare i ruoli di genere è parlato dai nostri contesti, e noi ci prendiamo quello che il contesto dice del nostro corpo: la donna casalinga è parlata cioè da una società che dice che le donne sono casalinghe, e ivi compresa la donna che fa la madre è parlata da una società che racconta le donne come figlie o come madri. Ma io penso invece che la casa corpo imponga alla mente che la abita di rispondere a delle domande. 
La casa corpo dice: io posso concepire un figlio, che fai di questa mia possibilità? Oppure
io per sollevare un mobile ci metto molto più sforzo di quell’altro il maschio

Oppure, io mi sento male fisicamente, per alcuni giorni nel mese. 

La casa corpo costringe la mente a delle decisioni che producono degli atti semantici. Anche senza contesto culturale, ci imporrebbe una nostra personale microcultura, la costruzione di un nostro micromondo.  Ma dovremmo dire, anche senza contesto familiare, perché un’altra importante agenzia della lettura del proprio ruolo di genere, riguarda la famiglia in cui cresciamo, gli uomini e le donne da cui veniamo.  Sia come loro arredano e rispondono alle domande sulla propria casa corpo: come la nostra madre ha vissuto il suo corpo di donna, come nostro padre quello di uomo, sia come interpretano, si relazionano, arredano il nostro corpo di figlie e di figli. Nella nostra costruzione della nostra microcultura individuale, su cosa fare del nostro sesso, e quindi come arredare la sua rappresentazione – il genere, questi esempi e queste relazioni sono dirimenti. In base a queste prime e fondanti esperienze, muoveremo la nostra avventura nel mondo dei codici culturali sulle case corpo degli adulti. Accetteremo, criticheremo, faremo nostre tesaurizzeremo.

Possiamo considerare come uno dei vettori fondamentali del processo di individuazione, ossia del nostro itinerario di sviluppo verso la piena identità, il trovare il nostro vero modo di vivere il nostro corpo, privatamente e socialmente. Sta a significare che, non è soltanto importante il nostro sesso, ma anche come noi lo interpretiamo nella nostra vita sociale. La nostra interpretazione del nostro ruolo di genere. Se mettiamo in campo una rappresentazione di genere che non sta bene con la nostra profonda identità noi ne soffriamo. Per questo non ci può essere teoria psicologica che sia completamente costruttivista, o completamente essenzialista. Perché buona parte delle psicoterapie deve andare a rivedere come si è andata arredando l’identità sessuale. Cosa si è deciso di fare delle domande che pone il corpo: so fare i figli, mi eccito sessualmente in questo modo,  ho questo tempo e via di seguito. Quel modo di risolvere le domande poste in quella casa,  sono state esaudite nel modo migliore per quella persona? Le strade che ha preso per via delle sue vicende familiari, sono state strade adatte? Le cose che ha messo nella casa per via dei suggerimenti culturali, sono funzionali ai suoi bisogni? E quelle che non ci ha messo, non mancheranno?

 Per questo, dicevo, come analista, da una parte non riesco mai a prendere sul serio qualsiasi siscorso generalizzante su gli uomini e le donne, dall’altra non riesco a sottovalutare del tutto il potere culturale, delle domande del corpo. Forse porre il dibattito in quell’ellisse aiuta all’inizio, ma sclerotizza un po’ la questione, eludendo il tema centrale.

La regina degli scacchi

Esiste uno specifico tipo di film o di telefilm, che per diversi aspetti mi capita di trovare deludente, come sceneggiatura, per esempio, come costruzione dei dialoghi, e anche magari come ricostruzione psicologica dei personaggi. Telefilm che funzionano per il loro aspetto di fabula, non per la ricostruzione plausibile di uno stare al mondo, di una persona, o di una serie di relazioni. La serialità televisiva, ha di contro fornito una serie di prodotti che invece hanno per me soddisfatto insieme tutte le mie domande del caso, e trovo che in giro circolino dei veri capolavori, il capostipite dei quali per me rimane i Soprano, ma da allora a oggi gli esempi, ed è una cosa bellissima, non si contano – ci sono moltissime serie ben fatte. Buona letteratura. 
La regina degli scacchi, rispetto a quei numerosi nomi, è per me decisamente inferiore. Eppure rimane un lavoro, che ha dei meriti, con un tentativo diciamo etico? Narrativo? Non lo so ben definire, che vorrei evidenziare. Al di la di un alto livello consueto nelle produzioni americane – costumi, fotografia, ambienti – ho pensato che una lettura analitica di questo film mi potesse aiutare a mettere in luce cosa mi è piaciuto.

La storia è nota a molti. C’è questa bimba intelligentissima che non ha un papà e perde la mamma in un incidente, mamma che l’ha già esposta a una vita di abusi, e che finisce in un orfanotrofio. E’ molto infelice, e molto incapace di gestire le relazioni, ma è li che impara a giocare a scacchi diventando un vero portento, così come è li che comincia la sua dipendenza dagli psicofarmaci, a cui seguirà la dipendenza da alcool. La miniserie è la storia della sua carriera da piccola orfanella con questo talento brillante, a bellissima campionessa del mondo, incapace di relazioni durature, dipendente gravemente da alcool e droghe, ma unica donna  – fascinosa ed elegante – in un mondo di uomini. Un romanzo di formazione.
 

La cosa che fa riflettere della serie, come scelta narrativa, è che Beth, in linea di massima incontra: o persone che non hanno una reale connotazione negativa, o persone che hanno invece una forte connotazione positiva. E questa scelta narrativa, probabilmente voluta, da una parte è l’aspetto fortemente debole della sceneggiatura, l’aspetto psicologicamente anche, purtroppo, poco credibile. Persone torturate da un mondo interno persecutorio, come quello che perseguita Beth per tutte le puntate, solitamente ingaggiano relazioni con oggetti persecutori, con persone che insomma si rivelino adatte per personalità a reificare profezie di sventura. E’ difficile che persone gravemente maltrattate, non riescano a fare in modo di continuare a essere maltrattate. E invece Beth: ha all’orfanotrofio un’amica eccezionale, trova nella madre adottiva (a 15 anni! Gli esperti di adozione osserveranno la cosa con perplessità) una relazione facile e piacevole, incontra sulla strada uomini che per lo più la amano, le vogliono bene, sono gentili, vince nemici che la guardano con ammirazione.  Con una serie di elementi francamente inverosimili. Non si fila nessuno, non si caga nessuno, mai che faccia una telefonata a sapere ciao stronzo come stai? 
E però l’amichetta dell’orfanotrofio le da tremila dollari, così sull’unghia per andare in Russia.  Gli ex innamorati si consociano insieme, nonostante il due di picche trasversale, per aiutarla a vincere il campione in carica.
Siamo nel regno Disney.

Tuttavia questo forzato tentativo favolistico alla fine, mi è piaciuto molto. Esce da una serie di stereotipi, e riesce a restituire qualcosa di molto vero, che forse ben rappresenta certi animaletti che hanno un grandissimo talento per la vita, e che hanno magari un grandissimo talento in qualche cosa.  In fondo, c’è una verità nel dire che in casi di trauma e abuso prolungato il vero campo di battaglia è una scacchiera interna, e che certe scelte, certe ossessioni  – sono l’isola in cui si controlla ciò che altrimenti non è controllabile. Ho trovato psicologicamente intelligente quel passaggio in cui la giornalista la intervista, e fa della psicoanalisi selvaggia dicendo – sua mamma e sua papà potrebbero essere il re e la regina? E la povera Beth giustamente risponde, ma veramente sono pezzi di legno. No a me piace il fatto di poter prevedere tutto, tutto quel che succede. E infatti gioca assai bene a scacchi, mentre non riesce a mettersi in gioco con gli uomini. 

Così come, se prendiamo il telefilm come una fotografia del mondo interno, e le relazioni che mette in campo, il correlato oggettivo di certe sue competenze interne, di certe sue potenzialità – io trovo l’idea di questa poverina comunque amata sua malgrado, una metafora gentile, poetica, della capacità di coltivarsi, di avere delle cose buone dentro, in cui credono le persone fuori, che le riconoscono e le coltivano e che incarnano i suoi talenti. Sul piano di realtà di Beth ce ne è pochine, le Beth fanno in modo avere guai, per ogni brava persona si incastrano con due stronzi, e per ogni brava persona ce ne è un’altra che esasperata si libera di loro, non va loro così liscia e di lusso, con questi sbruffoni campioni mondiali che invariabilmente si inteneriscono – succede, ma ogni tanto ecco. Una densità così alta di brave e amabili persone è piuttosto rara. Però mi sono detta, e finzione. Non è bello che la finzione ci provi? Anche la rappresentazione del conflitto USA URSS in questa chiave mi è molto piaciuta. Non è molto puerile quella retorica in cui siamo cresciuti, cattivi certi buoni altri e viceversa? Non è bello che si metta in campo un mondo etico dove tutto è possibile, dove si possa rappresentare questa unione etica dei mondi, con Beth che dice ai cattolici che le avrebbero dato i soldi per partire, io queste cose non le scrivo, e quella scena – oggettivamente meravigliosa della fine del film, di lei che scende dalla macchina e va a giocare  a scacchi con i vecchini al parco.

E anche, il film è la storia di una donna che fa carriera in maniera piuttosto incredibile, in un mondo di maschi. E’ edulcorato, è falso, perché non c’è una mano sul culo fuori programma, non c’è uno che la umili, non succedono mai le piccole cose tremende che sono successe alle nostre madri, più che mai quando sono state brillanti: (un esempio, mia madre, in quegli anni, un 110 e lode in storia moderna a Pisa, andò a un colloquio alla Gregoriana: la fecero aspettare nell’armadio delle scope), non ci sono le esclusioni programmatiche che c’erano di defoult all’epoca. Però ho trovato sano, utile, quel che di dato di realtà incolpevole, quel che di sapete allora funzionava così, non è che erano stronzi, era proprio il mondo che funzionava ocsì, per cui alla fine il film – puntellato da maschi gentili e generosi, e ragazze che dicono tu fai qualcosa per noi, grazie – beh è un film di grande carica femminista, con una potente equanimità, e secondo me una decisiva forza comunicativa. E’ un film femminista senza l’acrimonia – giustificatissima, ma a volte mi chiedo quanto efficace – in cui spesso il femminismo cade.

Non so bene perciò se riesco a restituire questa strana cosa per cui, mi è piaciuto qualcosa che nel complesso mi piace meno di altre. L’ho trovata benefica. Credo che abbia a che fare con la funzione psicologica delle favole, che è diversa dalla funzione psicologica della narrazione realistica. La regina degli scacchi non è un telefilm realistico, ma è una favola, una favola che ti fa vedere come possono andarti bene le cose se guardi al tuo mondo interno con la stessa gentilezza con cui la regia del telefilm ha guardato al mondo della protagonista. E’ una specie di film credo, sulla gentilezza, più che sull’intelligenza.