la saldatura tra psicopatologia e razzismo

Per spiegare come si saldino, razzismo e psicopatologie personali, facciamo un gioco, prendiamo un bambino figlio di immigrati e valutiamo una serie di trame, confrontando soprattutto due ipotesi paradigmatiche – tra le mille che si possono immaginare.

IPOTESI UNO:

Un bambino nasce come terzo figlio di una famiglia dove: c’è un relativamente buon matrimonio, una madre che ha un buon rapporto con la sua funzione materna, e anche con la sua identità di donna e di madre, e tutta la famiglia vive in una comunità in cui è ben inserita. Anche il padre del bambino sta bene: ha un lavoro, è contento di aver portato la famiglia in una situazione di maggior benessere.  Immaginiamo che siano in un paese del nord est per esempio, che sono arrivati in Italia con altri del loro paese, e anche che per una lungimirante politica delle amministrazioni locali ci sia una relativa integrazione. 

Questo bambino crescerà felice e anche con un importante bagaglio di competenze, come capita a tutti i bambini che tengono addosso due culture, avrà rispetto ad altri: due vocabolari, due modi di pensare, si abituerà presto a edificare un ponte interno tra questi due mondi. Purtroppo – questa è anche in un paese come il nostro una funzione matematica dell’immigrazione, più ce ne è, più lavora bene, più va incontro a feroci forme di discriminazione e di aggressione – la vita del nostro bambino sarà spesso segnata da episodi di razzismo che lo faranno soffrire. Così come la sua infanzia sarà costellata della rabbia del papà quando è aggredito per il colore della pelle, o della mamma quando le capitano queste stesse cose. Tutta la sua infanzia sarà costellata da questi problemi.  

A queste sfide il nostro bambino reagirà costruendo un carattere reattivo, e affinando un particolare talento nella selezione delle persone importanti. Col tempo dovrà imparare di chi fidarsi. Qualcuno potrà trovarlo una persona irosa per esempio, perché in certe occasioni reagisce con molta veemenza. 

Tuttavia, questo bambino ha ottime probabilità di diventare un adulto capace e con talento per la vita. La sua infanzia rassicurante gli ha dato delle risorse: nella scuola dove va si fa degli amici anche italiani a cui si lega, si fa una fidanzatina. Può anche essere un un gran secchione – come capita spesso e fortunatamente a coloro i quali sentono di dover portare a termine il mandato di padri che stanno lavorando sodo. Quando incontrerà, e lo incontrerà spesso, qualcuno che lo aggredisce per il fatto che è nero, dopo una serie di situazioni dolorose e umilianti –  tirerà fuori una serie di reazioni che lo metteranno nel campo relazionale con la persona razzista, in una posizione di forza: rimarrà imperturbabile in un caso, ma con un volto molto altero, successivamente imparerà a reagire con sarcasmo, se invece è un altro tipo di maschio convocherà i suoi pari e organizzerà una ritorsione. A seconda della equazione personale, soffrirà, ma psicologicamente non soccomberà. Il razzismo per lui, come per la sua famiglia, sarà sempre un grave problema politico, non un problema psichico. Il suo essere soggetto nel mondo, il suo avere diritto ad abitare il mondo, non sarà mai messo in discussione dall’aggressione razzista. L’aggressione razzista gli toglie delle libertà fuori di lui, contingenta il suo spazio pubblico, non toglie mattoni dal privato. Non traumatizza. Che vuol dire: non diventa gli occhiali con cui vedere tutta l’esperienza e l’identità.  

Questo per diverse questioni, che dividiamo in due gruppi. Un gruppo di questioni riguarda la vita di questo nostro bambino quando viene al mondo, e un secondo gruppo riguarda la vita del clan di questo bambino quando diviene adolescente e adulto. 


Quando era molto piccolo la mamma lo ha allattato con piacere, ma occupandosi di lui moderatamente avendo altri due figli con poca differenza di età. Il padre è stato presente e lui ha potuto sentirsi sicuro di se quando per esempio lo mettevano a dormire, e quando ha cominciato a camminare. I suoi genitori sono stati per lui una base sicura da cui potersi allontanare e a cui poter ritornare. La mamma è una donna allegra e piena di risorse, che si è fatta delle amiche in questo paese, e che gli ha intimato di essere gentile in qualsiasi circostanza: per questo bambino, la gentilezza è uno stile spendibile derivato da un sottotesto che più o meno suona come: “noi siamo forti abbastanza, noi ce lo possiamo permettere”.  Tendenzialmente il suo mondo sufficientemente buono della prima infanzia, è diventato un mondo sufficientemente buono dentro di lui, e anche  una generale proiezione di fondo sul mondo circostante. Soffrirà molto questo bambino quando le aggressioni razziste strapperanno questa aspettativa ottimista del suo mondo interno, tuttavia siccome il suo marchio di fabbrica è nella salute psichica e nel moderato equilibrio, l’atto razzista sarà sempre vissuto come l’irruzione di un negativo, non come la conferma di una logica psichica. Il razzismo per questo bambino sarà: un suo importante problema politico e un importante problema psichico del razzista. A un certo punto capirà che mentre lui ha un mondo che spesso qualcuno cerca di sporcare procurando rogne, qualcun altro ha un mondo sporco dove le rogne sono un problema addirittura secondario. 

Questa sensazione di forza, che renderà la sua reattività spesso meno teatrale quando viene discriminato, sarà tanto più forte, qualora la sua famiglia mantenga nel tempo solide relazioni con il contesto o con una comunità di appartenenza. Se il ragazzo sarà aggredito durante il lavoro estivo per esempio, da una persona razzista, l’essere iscritti in una rete sociale dei suoi, il potervi fare ricorso, il saperlo più che il farlo, renderanno ancora una volta l’aggressione meno potente, meno capace di metterlo in discussione nella sua intimità. Si arrabbierà, sarà per lui una croce. Sarà per sempre per lui un problema. Non sarà un problema psicologico. Non investirà la sua capacità emotiva progettuale, non metterà in discussione il suo talento, la sua capacità di amare e di avere relazioni. Nella sua crescita avrà sempre un contraltare in una serie di piccoli quadri. Il papà che scherza con il collega banconista del bar e lo chiama sporco negro e ridono insieme, sarà uno di quei quadri interni, la mamma con un contratto regolarmente retribuito  sarà uno di quei quadri interni. I pic nic della comunità nel parco dietro la chiesa sarà un altro di quei quadri interni. L’amico che l’ha difeso da ragazzino, e quello che gli ha chiesto scusa etc. etc. etc. Tutti questi quadri interni, di piccolo benessere ceselleranno la sua identità, e la possibilità di essere orgoglioso di cose sue: interessi, talenti. Potrebbe diventare un uomo introverso – ma se la biologia del carattere lo assiste oltre allo sguardo della madre, niente gli vieta di diventare un soggetto carismatico.

IPOTESI DUE

Ora prendiamo questo nostro bambino, e vediamo cosa succede se emergono delle criticità a diverse altezze –  ce ne possono essere un’infinità ma noi ne proviamo alcune.

Per esempio quando nasce – la sua mamma è sola, perché il padre lavora in un’altra città e non conosce molte persone, ha si una sorella c’è una piccola comunità ma piuttosto disgregata, non ci sono servizi sociali adeguati di riferimento per lei. E’ molto spaventata per i soldi che non bastano, ed è sovraffatta dall’essere sola nel dover gestire tre bambini di cui uno è un lattante. Forse ha una depressione post partum. Forse è depressa da prima della nascita del nostro protagonista. Questa mamma, come tante mamme in difficoltà, né più né meno, potrebbe non essere accessibile. Può succedere che il bambino debba essere allattato e pianga a squarciagola, e la mamma stia piangendo, oppure stia guardando un punto fisso nel vuoto, oppure stia litigando al telefono con qualcuno, ma non gli da da mangiare, né va da lui,  né subito, né dopo dieci minuti.  Non lo sente. Forse quella mamma potrebbe essere stata una bambina non sentita a sua volta, e le urla del piccolo le potrebbero ricordare il dolore che ha provato lei inascoltata, un ricordo analogico, non verbalizzabile, provato quando non c’era la memoria, quasi un ricordo del corpo più che della testa. Magari questa mamma viene da una zona dove c’è stata la guerra, per esempio.  Nessuno è d’altra parte di aiuto a questa mamma, che in questo momento è isolata. I figli crescono intorno a lei fortunosamente e come funghi carichi di rabbia. Questo bambino crescerà in questa situazione di una mamma che non sente quando lui la chiama, che arriva tardi, che fa una cosa per un’altra. 

(Se osservate i bambini che piangono tanto e finalmente arriva la mamma ad allattarli spesso si nota che non riescono a mangiare mordono il seno materno e lo prendono a piccoli pugni. Non riescono a nutrirsi tanto sono risentiti e disperati. Melanie Klein ha genialmente cortocircuitato questa esperienza di primaria deprivazione con la struttura psichica dell’invidia. Se il seno materno, il correlato oggettivo del bene e del desiderio, ciò che contiene ciò che riempie si nega sovente, se la cura diviene un oggetto buono costantemente desiderato che fa diventare rabbiosi e cattivi quasi sempre, questa cosa diventa un modo di abitare il pensare: l’altro ha il potere delle cose buone e belle e io sono pieno di cose orribili brutte e cattive, e lo invidio tremendamente. L’altro ha il potere che io non ho)

Ora, immaginiamo una biforcazione socioeconomica: il caso in cui esiste un nido a cui il nostro bambino può accedere, dei servizi sociali a cui la mamma può fare riferimento, delle scuole materne ed elementari con il tempo prolungato, e una comunità di immigrati che magari vengano dallo stesso paese della donna,  e che facciano da rete, e il caso in cui invece non esista niente di tutto questo.

Se esiste un nido, una materna con il tempo prolungato, uno psicologo del servizio pubblico, un operatore sociale che venga a casa alcune ore a settimana, un paio di zie e un cognato, il nostro bambino potrebbe sperimentare delle esperienze correttive. Potrebbe capire che ci sono persone che ti danno da mangiare se lo chiedi, che ti accudiscono quando cadi e ti fai male. Rapporti prolungati con queste figure rappresentano dispositivi protettivi che con il tempo vengono interiorizzati, e metteranno il nostro bambino nella posizione di sapere che ci sono persone buone, ci sono persone accessibili, e che quando è saziato e ascoltato subito anche lui può essere una persona buona che esperisce se stesso sereno e non pieno di rabbia. 
A sua volta anche la sua mamma potrebbe essere una mamma migliore con questi dispositivi, con i bambini a scuola o al nido fino alle 4 può lavorare, può prendersi cura di se stessa, può anche perdonarsi il fatto di non essere sempre molto accessibile e quando va a prendere i bambini essere più responsiva, più adeguata, più efficace. In un mondo ideale,  chi sa che non possa fare lei una psicoterapia per se, pagando un ticket che l’aiuti a fronteggiare il suo disagio. Con tutte queste risorse dispiegate la ferita originaria del nostro protagonista potrebbe notevolmente rimarginarsi, forse gli rimarrebbero delle tracce  – probabile – che lo renderebbero un paziente nevrotico di domani, forse un domani potrebbe diventare un adulto ombroso, polemico, risentito, in qualche occasione sgradevole, provocatore petulante, ma anche un uomo capace di attivare delle risorse, di riparare il passato: un buon lavoratore, un buon padre, un marito affettuoso anche se di faticosa gestione.  In questa seconda ipotesi –  anche un uomo che patisce l’aggressione razzista con vissuti più esasperati e più marcati, vivendo magari  il rapporto con la comunità ospitante in maniera più gravemente sofferente. Quella cosa originaria del seno kleiniano con tutti questi stronzi bianchi ricchi che ti trattano male e ti fanno sentire una merda potrebbe tornare. Così come altre cose: per esempio, pensieri autoconsolatori che suonano come: mia mamma è una persona buonissima era una madre perfetta,  però questi stronzi non l’hanno mai aiutata. Il nostro ragazzo starebbe spesso a combattere una certa propensione al manicheismo, e gli potremmo ritrovare un’adolescenza turbolenta.

Ma se disgrazia vuole che: il padre non raggiunge la madre, e la madre per la sua depressione perde i contatti con il contesto, non contatta la sua comunità, il bambino rimane senza figure secondarie. Immaginiamo inoltre l’eventualità per cui non c’è uno straccio di servizio sociale sul territorio, non ci sono nidi, materne ed elementari solo fino alle 12’30.  il nostro ragazzino è esposto a un dilatarsi dell’assetto patologico, è più difficile per lui accedere a dei fattori protettivi, a delle figure riparative, le credenze terribili che si sono cominciate a formare nella sua primissima infanzia si potrebbero fare molta più strada e cristallizzarsi in comportamenti, per esempio, precocemente antisociali, in alternativa o unitamente a comportamenti in cui lui si sente la vittima oltraggiata e bullizzata. Gli psicoterapeuti infantili sanno infatti che in generale quando ci si trova di fronte a vittime di bullismo, c’è molto da lavorare su una serie di comportamenti che tendono a generare il bullismo nel prossimo: precoci e sottili assegnazioni di ruolo, dichiarazioni fatte con lo scopo non sempre così inconscio di elicitare l’aggressione del prossimo, comportamenti volti a diventare stigmatizzabili. La base di questi itinerari relazionali è l’identificazione proiettiva: vissuti di forte aggressività vengono tenuti sotto controllo sollecitandoli nel prossimo. Un meccanismo che ha per esempio un suo ruolo in anche in alcune coppie dove emerge una violenza di genere – ma anche in molti casi di mobbing.  
Per capire bene dobbiamo considerare cosa succede psicologicamente quando tutte quelle risorse positive della prima ipotesi vengono a mancare. Se la madre e il padre non sono stati una base sicura, non è che manca semplicemente qualcosa, ma quella mancanza diviene un costrutto negativo: il bambino senza una cura orientativa e affidabile interiorizzata è qualcuno condannato a un’eterna precarietà, qualcuno condannato a un problema semovente. Un bambino senza un padre affidabile in circolazione a fargli da modello maschile declinato nei rapporti e nelle sfide, è un bambino che dovrà rifarsi a modelli collettivi che per diventare attraenti sono gonfiati nella direzione del potere dell’aggressività e della forza. Un bambino a cui è negata la sicurezza identitaria di una permanenza dei suoi codici culturali in un paese ospitante – investirà simbolicamente in maniera dilatata e distorta il significato della provenienza geografica dei suoi genitori. 

Nelle situazioni più critiche cosa può finire col succedere? che la psicopatologia pregressa si saldi con la psicopatologia sociale del razzismo, e trovi nella discriminazione una narrazione formidabile, formidabile per il manicheismo tipico delle organizzazioni borderline di personalità –  che funzionano per scissione idealizzazioni e svalutazioni estreme – tutti sono razzisti e cattivi io e la mia famiglia siamo poveri e buoni – formidabile per una profonda svalutazione di se delle organizzazioni depressive: io non sono adeguato al mondo, sono brutto e nero e faccio schifo, formidabile come strumento che smette di essere grave questione politica ma diventa oggetto di frattura e diffidenza di qualsiasi piano delle relazioni. Quando la saldatura tra psicopatologia sociale e psicopatologia individuale avviene si aprono le strade per i suicidi, cosa relativamente rara anche per le culture di provenienza di molti immigrati – e per le invece più frequenti  per la discese agli inferi della criminalità, una criminalità di chi spesso finisce per essere pedina e non testa di serie e che comunque condanna a una vita ai margini e dominata dal livore – come quella che abbiamo visto baluginare nelle storie di diversi protagonisti dell’arruolamento ISIS.