Toccata e fuga per un altro Shostakovitch. A proposito del 27

 

Non finì nei campi di concentramento, sfuggì miracolosamente alle rastrellate, e a dir il vero non patì neanche delazioni. Fu protetto dal sole lontano che prende in cura alcuni bambini, e non altri, scappò solo da un collegio a un altro, da un ammasso di macerie a un altro, la rapina dall’infanzia mai avuta come un incubo confuso e potenziale, come condanna possibile e necessaria, come cattivo romanzo aperto ancora da scrivere.Il campo di concentramento come estetica di una disgrazia profetizzata.

Per questo ci sarebbe tornato a guerra finita in numerose occasioni. Nel sonno le SS venivano a prenderlo, in una sorta di ripresa permanente, un’ossessione della condanna mancata, del peccato non espiato. In questi sogni stava sulla porta dei lager urlando terrorizzato come fosse un personaggio di Barnes, con un’eterna valigia davanti alle scale del piano, pronto per la meritata condanna a morte.

(La moglie lo svegliava stancamente, con apprensione ma anche con imbarazzato senso di noia, come se le urla della notte fossero una specie di connotazione del marito, una cosa come i capelli ricci, un particolare della sua fisiologia. Aiuto gridava aiuto! E lei voleva dormire.
Anche lei bambina era scampata alla medesima condanna. Ma fu protetta con più coerenza e determinazione – i tedeschi vennero che stava dentro a un confessionale con sua madre e un prete arrabbiato si mise tra loro.
Un giusto.
Ma anche: essa fu più amata quando era necessario)

Addirittura, in certe sere di inverno sonnacchioso, la luce gialla della cucina le figlie al telefono grigio, la moglie in salotto, se tutti insomma non si curavano di lui, se lo lasciavano alle sue trame incompiute, si legava alla televisione in una sorta di orrida ipnosi e frugava dentro ai documentari sui campi di sterminio. A cercare di capire che posto avrebbe avuto, a tentare di sentire quanto avrebbe sofferto – ma soprattutto credo, a spaventarsi. Come se la condizione permanente del terrore dell’imminente tortura e chiamata, fosse l’unico tassello possibile per la sua infanzia disgraziata, l’unica coperta, l’unico modo di stare.

Il segno della croce. Istanze delle donne e cultura cristiana.

 

Recentemente, ripensando al dibattito sulle questioni di genere– mi sono trovata a constatare come spesso la risposta alle istanze femministe, faccia capo a una loro eventuale convergenza con i dettami della cultura cattolica o più genericamente cristiana. Per esempio, in questi giorni a proposito del Metoo, e dei vari scandali sessuali da Weinstein in poi, si è parlato di puritanesimo, di moralismo di stampo cattolico. Spesso anche in una sostanziale buona fede, alcuni ritengono che a muovere l’ondata di risentimento, sia una sorta di generalizzata paura del sesso, che lo fa schiacciare sulla violenza, e un desiderio di conformismo a una morale dominante, anche questa credo sentita come motivata da una paura interna del potere sessuale. Da un certo punto di vista, è un fatto che mi stupisce. Conoscendo da vicino l’antropologia che connota l’attivismo femminista, con cui spesso mi trovo in una posizione di distanza e di scomodità, so però che se c’è un popolo davvero ostile alla religione e poco compatibile con la Chiesa cattolica, quello è il popolo femminista.
Da un altro punto di vista – forse quello che riguarda le donne che parlano di se e non le femministe attive quella argomentazione indica qualcosa di vero, anche se per quanto mi riguarda quel qualcosa di vero, viene giudicato in maniera diametralmente opposta.

Noi – noi italiani, magari anche italiani di una certa Italia e di un certo contesto – siamo figli di un mondo la cui morale dominante sacralizzava il sesso, e lo faceva tramite le vie antitetiche e parallele della istituzionalizzazione e della demonizzazione. In primo luogo l’atto sessuale era infatti concepito come sofferto traguardo da poter raggiungere dopo una selva di riti iniziatici – corteggiamento, fidanzamento matrimonio fino alla prova ultima della deflorazione testimoniata alla famiglia e al clan. In secondo luogo l’atto sessuale era oggetto di una demonizzazione, ossia di una sacralità alla rovescia: per cui il sesso era rappresentato come regno del male, come luogo della caduta, con eguale produzione di riti recinti e narrazioni collettive: la narrativa della tentazione, la prostituzione fino all’orgia diabolica, lo scambismo e il vasto e pruriginoso arcipelago delle perversioni.
In questa cornice narrativa la libertà di compiere un atto sessuale era particolarmente osteggiata, e lo era ancora di più per le donne. Perché il sesso era identificato con loro con il loro corpo, e la vita di molte dipendeva dal posto che veniva loro assegnato, con la carriera conseguente – se quella della sposa, o della mignotta (oppure in diversi casi, la sposa di Dio). Il sesso era vincolato alla procreazione, il piacere connesso alla trasmissione generazionale.
Il sessantotto – ma soprattutto una coorte di importanti cambiamenti sociali ed economici che lo hanno preparato e gli sono succeduti – primo fra tutti la larga accessibilità alla contraccezione, gli elettrodomestici, l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro – hanno scollato parzialmente il ruolo della donna dall’essere prima di tutto mezzo di quella riproduzione, il centro della sacralità del sesso, e quello è stato a sua volta privato del suo potere magico o in altri termini, del suo dazio. Il peccato si è polverizzato in una sessualità quotidiana e accessibile, con gli adolescenti che hanno rapporti sessuali e ne parlano ai genitori, giovanotti devotissimi che cambian idea e concepiscono comunque rapporti prematrimoniali – il sesso è diventato un oggetto vitale ma da prima serata, equiparato ai beni di prima necessità, come una minestra, come un piatto di pasta.

Ma questa è la cosa che noto per le donne soprattutto: prima c’era un forte impedimento ad agire sessualmente il desiderio, mentre era protetta la libertà di ritrarsi. Oggi è molto più garantita la libertà di offrirsi ma è assolutamente coartata la libertà di ritrarsi: se prima una donna doveva giustificarsi per aver desiderio di cedere prima del sacro vincolo del matrimonio, se era un soggetto eversivo perché godeva impunemente in maniera soggettiva, ora c’è una sorta di segreto obbligo culturale alla consumazione sessuale: la donna che dovesse esitare prima di avere un rapporto sessuale viene biasimata socialmente come all’antica, come residuo del mondo cattolico che si è combattuto, ma anche come complessata come soggetto che non ha la necessaria disinvoltura con la sacralità del piatto di pasta.
Perché non vuole mangiare questa donna con me?
O meglio – dovremmo dire spezzando una lancia in onore del transfert – perché non dovrebbe farmi da mangiare, come la mia mamma?

La coartazione dell’atto sessuale, in tempi in cui   questo combaciava ipso facto con una bocca da sfamare, si univa a un modo sessista di guardare alle donne per cui alla fine – sono sempre quelle che obbediscono a una legge dominante, mai quelle che la promuovono insieme agli uomini per loro autentiche motivazioni – per inciso, questa è una relativamente frequente deriva sessista delle prassi femministe, talmente frequente che è uno dei buoni motivi per cui io regolarmente sento di dovermene allontanare. Questo insieme di questioni, ha fatto scotomizzare il fatto che si, quella vecchia prospettiva premoderna e normativa, garantiva la libertà di quei sentimenti che rispetto al sesso e all’atto sessuale chiedevano tempi psichici di negoziazione lunghi, accordi con la propria intima organizzazione emotiva, tempi della relazione a lunga cottura. E mi colpì molto in questo senso, la lungimirante e al tempo dal sapore ferocemente reazionario, dichiarazione che Horkheimer rilasciò nel 1972 in una ultima intervista molto bella prima di morire.
Oggi – cito a memoria perdonatemi – non possiamo più avere Romeo e Giulietta. Oggi Giulietta direbbe: aspettami prendo la pillola e sono subito da te.

Ad oggi la pressione culturale e lo sguardo sessista producono la stessa deformazione speculare e contraria. Se le donne protestano con il metoo, se parlano di contatti sessuali prevaricanti in quanto indesiderati, non stanno rivendicando la libertà dell’atto di sottrazione stanno – al solito – aggregandosi a una presunta morale dominante quanto invisa, oppure al solito . proprio come le loro sorelle puttane di cinquant’anni fa, rsi rendono colpevoli di non accordarsi sempre e comunque alla normativa preferita dall’orizzonte culturale.

Di questo riflesso pavloviano in merito alle motivazioni del femminile a respingere le richieste sessuali indesiderate si possono dire tante cose, la prima è quella che ha mosso questo post – ossia che si è vero che il femminismo e la chiesa cattolica sono due contesti profondamenti antitetici e quasi nemici, per un vasto profluvio di motivazioni che ci porterebbero troppo lontano affrontare qui, ma forse una certa prospettiva normativa aiutava un certo tipo di psicologie femminile, e la maggior parte delle donne in una vasta classe di occasioni – le proteggeva, forse disconoscendole, ma le proteggeva. Il reato d’onore era pur sempre un reato. Un uomo che importuna una donna era qualcuno che violava qualcosa di importante per il collettivo di importante per la donna, con nomi diversi – ma era, la stessa cosa. Scendendo di più nella prospettiva psicologica, che è la mia, ho la sensazione che i processi di crescita di adultizzazione, l’ingresso nel sesso potessero avere sotto quella norma, per altri versi perniciosa e patologica, un più vasto spettro di passaggi graduali. Allargando lo sguardo, anche quel mitologema della natività per me, l’idea di spiegare la prosecuzione della specie fondamentalmente con il miracolo, la sacralizzazione della vita sessuale metteva molte donne in un’organizzazione narrativa che le sosteneva rispetto alla gestione del titanico potere di generare, e al dolore che questo comporta per esempio, quando non ci si riesce, o quando lo si fa ma si vivono conflitti interni.
Quindi capisco perché poi vengono a dire che chi lamenta gli abusi sembra una puritana nemica del sesso. Perché questo è il culmine e il paradosso, il sesso è nel corpo della donna, però la sua identità ha a che fare sempre con gli uomini e se ti sottrai sei nemica del maschio.
Ma non è così che funziona. La libertà è non volerne uno senza che questo precluda di volerne un altro.

Un ricordo

 

La terza volta che andai a Parigi, fu nel 1995, e fu con i miei genitori, a ridosso della fine di un amore grande quanto modesto. Mi portarono forse per consolarmi, ma mia madre voleva andare anche a trovare la sua cara amica Liana – un tempo rossa, aristocratica e fascinosa, ma all’epoca già malata, sull’orlo della sconfitta. (Devo portare i golf rosa pallido, le diceva con disappunto, come se i colori delicati, e la cipria, quanto di più incongruo per la sua natura di broccati, e velluti pesanti, fossero l’ultimo baluardo di resistenza alla morte, o anche, lo strenuo tentativo di rimanere eleganti -sofisticate -degne) .
Era inverno, la città era bianca e splendente, la mia amicizia con lei doveva ancora arrivare. Facevo foto alle seggiole sul ghiaccio dei giardini di Lussemburgo, constatavo il pallore della tristezza poco appassionata. Sorridevo davanti ai corridoi di palazzi olimpici. Tutta quella retorica mi faceva provare la nostalgia di una nostalgia mai provata.
(La questione dei grandi amori mancati)

L’albergo era vicino alla casa dell’amica di mia madre, che per la verità conoscevo pochissimo. Aveva vissuto con mia madre quando ancora studiavano. Era stata un animale intrigante e bizzarro, dominante e sofisticato. Era sposata con un grande analista, e non avevano avuto figli – come avrei saputo più tardi, lei non ne aveva mai voluti. Il grande psicoanalista, per me all’epoca era qualcosa di prossimo a un vecchio, ma anche quel tipo di adulto, di uomo, di signore, che vive nel mondo confuso di cose non interessanti e sconosciute – avevo un’idea confusa anche del suo lavoro – e al primo pranzo a casa loro, mi parve che parlassero in toni e mondi e parole che in nulla avevano a che vedere con me, e che anzi mi escludessero, lui Liana, mia madre e mio padre. Il primo pranzo mi divisi, ricordo, tra la pena per lei, così lontana dalla sua identità, così erosa, e una noia vergognosa e non pronunciabile.
(Li sentii dei vecchi senza figli. Lui in particolare)

Ma la seconda volta che andammo a pranzo con loro – a cena non si poteva, lei si stancava presto, raccontai che nel ristorante di un museo, mi avevano rubato la borsa.
Allora il marito di Liana, Luigi, il vecchio che si occupava di cose da vecchio mi guardò con estremo interesse. Mi chiese, ma dimmi cosa c’era. E io gli dissi che c’era il mio portafoglio, la macchina fotografica e un diario, perché ho sempre avuto un gran bisogno di scrivere.
Fu molto allarmato. Il diario! Disse guardandomi negli occhi- Il diario! Ma che cosa terribile, E’ una cosa terribile.

Fu un momento magico, e non so dire bene perché. Quello che scrivevo mi pareva illegittimamente importante per me, e legittimamente inutile per gli altri, e pensavo che il ladro avrebbe cercato i soldi, e buttato il resto – era una borsa di poco conto. E invece questo vecchio che poi tanto vecchio ancora non era, diceva con gli occhi e con tutto, è una cosa importantissima! Veramente!
(Lo disse con questo trasporto fuori luogo, che parlava dell’amicizia a venire, perché passata ancora non c’era.)

E poi alla fine del secondo pranzo, dopo aver parlato con mia madre della salute di sua moglie – la sua adorata moglie, come avrei saputo dopo– fece questa cosa per me allora incredibile. Mi diede la sua carta di credito, aurea e scintillante, a me che avevo vent’anni e non mi conosceva per niente, e mi disse. Compra la borsa più bella che c’è, la più adatta a te, quella che ti piace di più e non voglio sapere quanto spendi. Te la regalo io. Vai da sola e comprala.

(La possiedo ancora, e forse dovrei cominciare a usarla. E’ una valigetta marrone, di un negozio molto bello. Ho paura che si rovini. Forse la dovrei portare a studio, e tenermela li vicino, mentre lavoro, mentre faccio il suo lavoro. Non cominciammo a chiacchierare subito. Ero troppo giovane. Diventammo davvero amici, qualche anno dopo, all’inizio perché non stavo bene io, e ne parlai con lui, poi perché volevo fare il suo mestiere, poi perché cominciavo a farlo, poi per lui anche, per la sua vita che se ne era andata, per le figlie che non aveva avuto. Mi manca come mancano queste persone che hanno occupato un posto non grande nella vita, ma l’hanno fatto in un modo tale, per cui non ci sono sostituzioni né riassorbimenti. Quell’andarsene che lascia i bordi del vuoto come bruciati)

Lettera dal 1914

 

Considerando le furiose reazioni che ha suscitato la lettera delle donne francesi in merito al Metoo, tutto sommato mi sento piuttosto soddisfatta. La lettera è una elegante prolusione dai mondi del passato, l’elegia della sempre perfettamente abbinata tradizione francese che ha da sempre estetizzato – dall’amor cortese alla nouvelle vague – il gioco dei sessi e il presunto charme dell’eterno femminino. Alcune firmatarie sono celebri. Deneuve sulla questione dell’eterno femminino ci ha costruito una pregevole carriera, la Millet ci fece un best seller in declinazione sporcacciona, e anzi in una intervista recente, s’è trovata anche a dichiarare che insomma, considerando le sue esperienze d’orgia con uomini poco attraenti, tutte ‘ste lagne per lo stupro mica le capiva tanto. Inoltre c’è la Chiche, una psicoanalista che evidentemente si ritroverà imparentata con tutta la teoresi del desiderio, del femminile come oggetto del desiderio e di tutte le grammatiche radical chic a cui si presta la psicoanalisi, quando ha poco esercizio col servizio pubblico e con i cambiamenti sociali ed endopsichici della sua utenza.

Ho trovato la lettera vecchia e sfasata. La difesa di un vecchio mondo elegante che non sa capire dove c’è una domanda di cambiamento sociale nelle regole del gioco, o forse dovremmo dire dei giochi, quello dell’eros e quello del potere, e che non ha i mezzi per cogliere – anche se la saggezza dell’età raggiunta dovrebbe poterli vantare – il senso delle diverse denunce convogliate dal caso Weinstein. La lettera è infatti coerente alla sintassi di un mondo che evidentemente molte persone non vogliono più, e che è quello delle nonne europee e borghesi. Ci sono le belle signore che come missione psichica hanno il narcisismo delle rose e del saggio di Freud del 1914, secondo cui una donna deve come prima cosa, per la sua intima felicità e quella dell’altro, pensarsi come stupenda e attraente, in modo che l’altro veda la rosa che lui non è – e la colga. Questa stessa donna è quella che a un certo punto intuisce che esser rose è bello, ma dirigenti di comparto in un’industria alimentare forse è meglio, ma non potendo avere per costituzione il mezzo per diventare dirigente – ah il complesso di castrazione! – ripiegherebbe sul fare un figlio, che è tanto una bella soddisfazione. In alternativa, siccome fare la rosa è più bello che diventare un’ortensia affettuosa e casalinga, ci si intratterrebbe sulla soglia tra ruoli di appetibile bella di giorno, o  di domatrice  di plurimi simultanei & sbarazzini amanti dei salottini.
Ora niente in contrario – se son vite felici, son vite bellissime. L’Europa sarebbe meno adorabile senza L’ultimo metrò, e meno divertente senza la smandrappata vita di Caterina M. –  ma queste vite non sono La Vita, e non possono più sperare di rubricare sotto la propria scala di valori le vicende di un mondo che percorre altre strade.

La lettera cade dopo una serie di dichiarazioni e denunce che hanno sfondi diversi e un unico elemento in comune: ossia il problema della soggettività femminile rispetto al maschile quando si avvantaggia di una sperequazione di potere – il che, purtroppo, avviene troppo spesso. Il caso Weinstein, il metoo e tutte le diverse declinazioni nazionali hanno messo in luce non solo il desiderio di un cambiamento sociale, ma il fatto che c’è già stato un cambiamento endopsichico. Il cambiamento riguarda una serie di nuovi modi del femminile (nuovi relativamente eh) di relazionarsi al maschile e di pensarsi con l’altro. Quando per esempio questo femminile è sul luogo di lavoro, oggi, anche se si candida per interpretare la pantera, la damina, la femmina attraente, non ha sempre in primo luogo l’urgenza di essere letta come oggetto narcisistico del desiderio sessuale – ergo, la parte che trovo decisamente grave e colpevole di quella lettera – politicamente in riferimento alle professioniste che la firmano – scientificamente in riferimento alla collega che si fa promotrice – è l’occultamento del problema del ricatto sessuale sul luogo di lavoro.   Reagire al metoo rivendicando il selvaggio dovere dell’eros, eludendo le numerosissime denunce di donne che o hanno avuto un posto perché hanno ceduto a una richiesta o hanno perso un posto perché si sono opposte, vuol dire sostenere che nella salubrità della psiche umana l’imposizione di potere erotico, che prescinde dall’attrazione, è normale. L’impossibilità di contenimento a fronte della risposta relazionale dell’altro non è diagnosticabile. E questa, scusatemi psicologicamente, dolente per la Chichè – è un’idiozia.

La verità è che eros violento e selvaggio, non è stato mai. Lo è per i cani barboncini e gli animaletti della foresta, ma l’eros è sempre stato cinicamente liberato e imbrogliato dal potere, dalle logiche, dalle subordinazioni ad altre funzioni psichiche a cui l’identità dei soggetti è subordinati. La contessa, se la scopano nei romanzi: nella realtà si azzardano ben pochi. E’ bello che ogni tanto lo sia, è letterario è vitale ma allo stesso tempo a volte è mortale, patologico e masochistico. Piuttosto le stanze degli analisti, come sanno di solito gli analisti – pure da parquet in mogano, sono piene di uomini affranti dell’uso che il loro inconscio fa del desiderio.  Qui si potrebbero scrivere fiumi interi, e gli esempi e le storie cliniche sono infiniti –  ma se un uomo si scopa dieci donne al giorno e fa perdere il lavoro a qualcuna di loro, il problema non è mica l’anarchia del desiderio ma la storia psichica del suo rapporto con il femminile che gli fa accedere a un godimento pubblicitario e iconografico quanto dimezzato – oltre che comportarsi in maniera non erotica ma sadica verso la partner di turno. Parimenti, la signorina che si intesta una comparizione in un film n virtù di una squisita fellazio con un signore che  non l’aggrada per niente, forse dovrebbe lavorare sullo stato dell’arte non solo del suo rapporto con il maschile e con i padri, il cui sguardo può essere ottenuto dolorosamente solo se li si prende per le palle, ma dovrebbe anche  approfondire lo stato di coma in cui versa il suo narcisismo benigno, se per pubblicizzare una buona recitazione deve garantire un pompino. Perchè appunto, almeno in una prospettiva analitica, eros non è selvaggio – eros è la moneta psichica delle nostre vicende relazionali passate e del nostro modo di giocarsi quelle presenti.

Infine, banalmente, tutte queste cose, sono curiosamente ovattate anche da una prospettiva di classe, che nell’elegiaca celebrazione dell’eleganza dell’erotismo (si parla di eros per dire, mica di porno che è molto più cheap Mon Dieu) non ha cognizione delle ricadute sulle signore qualsiasi, che, in provincia, o si tengono la mano sul culo o si giocano il posto di barista per mantenere una famiglia da madre separata.

esperienze traumatiche atteggiamenti ermeneutici

 

Premessa.
Questo post prende le mosse da un libro molto bello e interessante – si tratta di Trauma e Perdono, di Clara Mucci, uscito per i tipi di Raffaello Cortina. Mi è servito: mi ha aiutata a mettere ordine nelle cose che so, ad aggiunge conoscenze e infine ci ho ho fortemente discusso. Queste cose – conoscenze nuove, ordine delle conoscenze vecchie, discussioni e diverbi interiori con le tesi esposte, sono per me gli ingredienti fondamentali di un testo di clinica – mi sono trovata a controargomentare internamente il perché di certe mie convinzioni che a mia volta avevo espresso nel mio libro sulle psicoterapie. Nel complesso quindi mi pare un testo utile.

Per gli psicoanalisti, e in generale per tutti gli psicoterapeuti di formazione psicodinamica, il concetto di trauma e la sua funzione logica nella eziopatologia dei disturbi, ha un ruolo fondamentale, le diverse lettura arrivano a svolgere una funzione identitaria. L’edificio psicoanalitico si è infatti fondato per rispondere alla domanda: qual è la causa di un certo comportamento patologico e di un grave malessere denunciato? E la prima risposta che Freud trovo fu nell’idea del trauma: un episodio in età infantile, di violenza di abuso, o di incesto – che poi poteva essere stato dimenticato ma i cui effetti potevano rimanere attivi nell’inconscio. In un secondo momento della sua ricerca poi Freud avrebbe cambiato idea ritenendo che in realtà che il trauma ci sia stato o meno, è secondario, e anzi spesso non c’è stato affatto, e si ha a che fare con una fantasia di trauma, che svolge una funzione narrativa nella vita del soggetto. Questa tensione, tra trauma reale e fantasia inconscia è una polarità interna che in psicoterapia si presenta frequentemente, e vede i clinici sottolineare l’importanza di questa o quella prospettiva. Cosa deve succedere nella stanza con un paziente: bisogna ricostruire un passato reale, o bisogna trattare il ricordo come una narrazione soggettiva? L’emergere di una narrazione di trauma ma presa e in quanto tale iscritta in un discorso o interpretata come una narrazione? La questione del trauma diviene un organizzazione simbolica della questione più vasta dello stare in terapia come analisti. Come ci relazioniamo con il materiale che arriva?

La questione attualmente si fa più complicata per due ordini di motivi. Il primo è che il grande trauma in età infantile non fa danno solo per il dolore a cui espone nell’hic et nunc la persona traumatizzata, ma perché ne determina in modo a volte irreversibile a volte non facilmente correggibile una serie di modalità problematiche di stare al mondo, che rimangono: nello stile delle relazioni, del pensare, del fare le cose, dell’essere con gli altri, in una prospettiva più pulviscolare nelle difese adottate, nei modi di processare le informazioni. La seconda è che spesso, purtroppo molto spesso anzi nella maggioranza dei casi – a determinare l’emergere di una psicopatologia grave non è un singolo episodio traumatico, ma una costellazione di episodi traumatici, l’essere immersi fin da piccoli a stili di accudimento abusanti o fortemente deficitarii – per cui i clinici parlano di Trauma Cumulato. La ricerca più recente ha molto contribuito a sistematizzare gli esiti dei comportamenti abusanti in età infantile, specie se provenienti da figure di riferimento, in particolare grazie agli studi sugli stili di attaccamento – dimostrando come, ad accudimenti fortemente deficitari, abusanti, dove bambini sono esposti a violenze o al vedere le proprie figure più importanti fortemente aggrediti, elaboreranno uno stile di attaccamento per esempio disorganizzato oppure insicuro vicino allo stile disorganizzato che a sua volta li renderanno più vulnerabili alle patologie.

Il discorso si fa molto complicato anche perché spessissimo invece, nella stanza della terapia arriva un uso narrativo di narrazioni di trauma, che sono nell’ordine: a volte narrazioni false, a volte narrazioni vere e amplificate, a volte narrazioni vere ma che sono tese a occultarne altre ancora più gravi. Narrazioni parzialmente veritiere non denotano un’assenza di patologia, ma denotano un uso della narrazione patologica che è messa in mano a organizzazioni psichiche difensive, o relazionali salienti che possono avere un significato importante nel contesto di un sistema familiare, o nel contesto di una relazione clinica. Bambini poco visti, o premiati solo quando erano in grande difficoltà dell’attenzione genitoriali, possono dilatare una narrazione traumatica per manipolare l’attenzione dell’analista per esempio – il che deve far capire non tanto quanto è stato brutto l’episodio raccontato, o al limite non solo – ma che cosa dolorosa deve essere ritenere di essere amabili soltanto dipingendosi come vittime. Invece, come mi è capitato di osservare lavorando nei centri antiviolenza o nei reparti di psicopatologia di infanzia e adolescenza, non è così insolito che una bambina alluda con zelo e scandalo all’abuso incestuale di un padre, che non è realmente avvenuto, e che invece è narrato per compiacere una madre sofferente e soddisfare una fantasia edipica. Quando arrivano narrazioni traumatiche allora, un orecchio analitico deve stare molto attento usando le sue conoscenze pregresse e le sue corde emotive – narrazioni coerenti, che hanno una precoce organizzazione monovalente e risolta sono più frequentemente oggetti narrativi tesi a proteggere qualcosa di davvero doloroso, e ad attrarre l’attenzione nella modalità che il paziente conosce. Ci sarà ossia un trauma vero, un trauma cumulato di qualche natura, ma potrebbe non essere quello narrato: le esperienze di abuso e di incesto per esempio, squadernano le capacità narrative spesso e volentieri, lasciano organizzazioni dissociate, non riescono facilmente ad arrivare a un orecchio clinico come un film di cui si conosce l’inizio, la fine e la morale – eppure siccome sono come dire, un piatto notoriamente succulento per i palati analitici – il trauma il trauma! – può capitare che vengano come offerti in dono.

In tempi più recenti poi, per un cambiamento non tanto o non solo di paradigma ma diciamo di sociologia della professione, che dalle stanze della nobiltà e della borghesia ha giustamente colonizzato le aree del servizio pubblico, e la cura di vite ed esperienze molto lontane dai damaschi e dalle poltone di velluto, la psicologia dinamica e la stessa psicoanalisi si sono confrontate con i traumi massivi, le esperienze psichiche devastanti delle aggressioni umane – i campi di concentramento, le guerre, gli stupri di massa, ma anche con i traumi occorsi per via di grandi catastrofi naturali, e dal DSM fino alla trattatistica specializzata è arrivato il disturbo post traumatico da stress ossia, quello che succede nell’esperienza psichica e interpersonale di una persona che abbia subito gravi aggressioni alla propria incolumità e lesioni al proprio corpo, o abbia assistito ad aggressione o morte di altri esseri umani con cui aveva una relazione importante e significativa. La resilienza dei soggetti, gli stili di attaccamento pregressi per esempio, la qualità delle relazioni con cui sono cresciuti, potranno essere determinanti per la pervasività del disturbo, e la possibilità che una buona psicoterapia riesca a ristrutturare in buona parte quello che era il funzionamento prima del trama, per approdare a quello che Mucci chiama perdono – ossia più che una comminazione di colpa al persecutore, una sua reiscrizione nell’umano, una sua rinarrazione e infine, un potersi riprendere la trama della propria vicenda esistenziale e svincolarla dalla vicenda traumatizzante.

Tutte queste cose non sono operazioni facili: perché il trauma massivo, è una specie di aggressione materiale alla rete affettiva del soggetto, qualcosa che brucia le immagini degli oggetti interni che di solito sono un implicito sostegno e un implicito codice identirario, ma anche – in un certo senso – un’effrazione del magazzino linguistico della vittima, che perde metafore, rimandi, strutture retoriche . Il grave trauma è quello che si impone come immagine congelata e non narrata costante e perenne, che scorpora dalla dimensione psichica le dimensioni consuete. La persona che ne è oggetto, rimane – questo Mucci lo spiega molto bene – in una sorta di ostaggio della riproposizione di qualcosa di perennemente indigeribile. Il topos del traumatizzato, che si sveglia nella notte con le immagini del suo tragico, che ricorda reiteratamente e ossessivamente il momento o i momenti in cui ha visto la morte di qualcuno o di se stesso, ricorda l’esperienza di quei pazienti che hanno un incubo ricorrente e reiteratamente lo ripropongono in terapia: c’è qualcosa che la psiche non riesce a digerire, linguisticamente ed emotivamente e che chiede ossessivamente di essere compreso, scisso, metabolizzato. Parlato.

Tutte queste cose, sono spiegate molto bene nel libro di Clara Mucci, che per me a essere precisi, sono quasi due libri. Uno che spiega molto bene la storia della psicoanalisi e della sua relazione con la narrazione del trauma più snello, il secondo corposo e centrale che spiega molto bene cosa fa il trauma massivo al soggetto che ne diviene vittima, ai suoi figli e ai suoi nipoti, da molte indicazioni importanti su come trattare questi pazienti e ha una bibliografia colta, vasta e ben orchestrata che include, preziosamente, un Primo Levi o una Judith Buttler oltre ai clinici di riferimento. Il problema per me è nella congiunzione dei due libri, e negli effetti che ha alla fine per uno psicoanalista che non si occupa solo di Disturbo Post Traumatico Da Stress, sul piano pratico e teorico, il mettere insieme questi due ambiti, il teorizzare una continuità che invece è tutto sommato forzata, e in virtù di questa forzata continuità, portare avanti una critica alla prospettiva ermeneutica in psicoanalisi che nella pratica clinica secondo me invece, una chiave di approccio semplicemente ineludibile, indistricabile dalla prassi di cura. Che non a caso è cura della parola.

Clara Mucci mette insieme, il disturbo post traumatico da stress con i trami infantili che possono presiedere agli sviluppi di psicopatologie successive. Chiaramente, trattandosi in entrambi i casi di traumi, l’operazione ha una sua logica, ma i rischi per me di creare confusione è molto alto, e l’idea di usare l’epistemologia per la cura del disturbo post traumatico da stress per invalidare l’arsenale che si utilizza per la psicoanalisi delle altre patologie almeno sul piano dell’ermeneutica mi crea delle perplessità. E’ molto bello il passaggio del libro del testo per cui è vero, che il clinico deve essere testimone di un evento, e per una sua missione etica e politica deve contribuire in qualche modo a ricostruire ciò che è veramente successo;  nella situazione del disturbo post traumatico da stress però questo è ben diverso da quello che capita nelle altre aree della psicopatologia, soprattutto se si considera vero secondo me fattore discriminante, che è l’età in cui il paziente subisce il trauma. Le diverse età infatti daranno al trauma una funzione diversa, e pervasiva in modo diverso, e il fatto che uno possa avere in stanza due pazienti coetanei adulti, uno che ha rischiato la morte per tortura cinque anni prima, e uno che è invece stato vittima di abusi nell’età preedipica non deve far pensare che si proporranno nello stesso modo, o che la famosa verità – venga alla luce con la stessa irruenza, e con lo stesso itinerario. Soprattutto l’azione del trauma è stata diversa . Più l’esperienza traumatica è precoce, cumulata più intesse drammaticamente e sfalda gli stilemi comunicativi e la grammatica linguistiche che connota il soggetto Da adulti il trauma brucia e paralizza, da piccoli struttura e crea. Né il sacrosanto dovere di accogliere la verità, può eludere l’aspetto squisitamente ermeneutico della cura della parola, dal momento che in campo non ci sono solo le storie raccontate dai pazienti, e la necessità di arrivare alla storia più fedele nei fatti. Infatti, e forse questo vale davvero per tutti,  la terapia deve anche aiutare una persona a trovare il suo modo di raccontare quella storia, e quelle future,  e se la verità traumatica può pure essere una, molte saranno invece le scelte della sintassi psichica che possono condurre a quella, e molti possono essere gli usi che una persona fa in terapia, come accennavo all’inizio, di frammenti esperienziali portati in stanza come verità fattuale.
L’antipatica epochè dell’atteggiamento ermeneutico allora, quella cosa che dice per ora non so se quello che mi dici è vero, ma cerco di capire perché me lo stai dicendo, sarà anche deontologicamente rischiosa, e comunicativamente scomoda, ma è davvero un ingrediente ineludibile per la maggior parte dei trattamenti.