Avevo deciso di ripubblicare il post qui sotto, quello sulle considerazioni psicodinamiche dell’anoressia, in seguito all’ennesima querelle su una copertina, un’immagine di donna magra su un giornale femminile che aveva indotto molti commentatori e commentatrici a protestare indignati con la direttrice del giornale in questione, Marie Claire, la quale aveva con quella foto estetizzato un modello malato di femminilità. Troppo magra, troppo triste. Alcuni e ad alcune ci avevano visto l’eterna sanzione verso una corporeità più florida, altre invece un invito all’estetizzazione dell’anoressia come pericolo per le giovani menti, altri ancora – soprattutto dopo che molti addetti ai lavori hanno di nuovo insistito sul fatto che non ci si suicida per le foto sui giornali, hanno spiegato che no è perché vendono un modello di femminilità triste, che estetizza la tristezza.
La discussione mi ha fatto risalire nella mente, come cibi che non riesco a digerire mai del tutto, tutte le obiezioni e i fastidi che mi provocano i due terzi degli interventi in proposito, pur rendendomi conto del fatto che, la questione del corpo femminile brucia chiunque la tocchi, per l’incredibile potenza esistenziale di cui dispone, per il fatto forse di esse il vero centro dello stare al mondo nostro e altrui. Il corpo è sesso, piacere, unione, procreazione, morte. Dalla capacità della donna di attrarre dipendono nell’ordine: la sua felicità, il suo godimento, il godimento del maschio, la trasformazione in madre, la trasformazione in padre, l’esistenza di figli e figlie. E quindi se parli del corpo parli sempre male: perché o pensi che conti solo lui, e no è troppo sei sessista, oppure se dici che non è tutto sei sessuofobica, se ti concentri sullo charme erotico sei futile (se donna) arrapato (se maschio) se invece dici che non è solo charme erotico sei cozzarona invidiosa (se donna) impotente bacchettone (se maschio). Parlare del corpo sui giornali è pericoloso quasi quanto parlare di soldi tra eredi.
Eppure, benchè possa dispiacere alle Alessandre Serre, alle varie direttore di giornale il discorso sui modelli femminili ha sempre senso, per via della tirannia che ha quel potere del corpo femminile, e per la sua adattabilità alle dittature dei contesti culturali, i quali usano sempre le iconografie del corpo per dire cosa c’è di meglio da offrire al mondo come prestazione esistenziale. Fintanto che scarseggiava da mangiare trionfavano le veneri del paleolitico, le Sofie Loren, che – a dispetto del sanguigno desiderio di bistecche, ci avevano i fianchi prorompenti. Qui che le bistecche te le tirano dietro, una elitaria ascesi è ancora il segno distintivo di un traguardo sociale, di un’alta borghesia guadagnata sul campo: da Sabrina a Marie Claire niente è più upper class di una pora stellina che ti viene da darle un bignè al cioccolato.
A ciò aggiungiamo il pepe della lotta generazionale, invenzione culturale del dopoguerra. Prima infatti le figlie incarnavano l’estetica delle madri e dei padri, e lottavano per dimostrare di possedere quella salubrità funzionale all’indipendenza e prodromica di un sano e famigliocristiano erotismo da fienile. Belle ragazze in salute eccochè! Ora – nel senso di almeno da 50 anni se Twiggy non è stata un ologramma – il desiderio di vedere le proprie bimbe mangiare va contro alla controcultura adolescienziale che rifiuta il cibo dei padri, che rivendica una perenne incerta magrezza, una perenne insoddisfazione, una depressione che è uno stato ideologico ed epistemologico, e alla fine certo anche estetico. Quante quante copertine di Marie Claire ci sono state prima di adesso e anche quando noi eravamo ragazzine! Ah le occhiaie! E quelle belle scollature che facevano vedere uno sterno scheletrico! Ah l’immortale seduzione di questo languore adolescenziale e culturalizzato. Si voleva andare a letto con certi morti di fame senza speranza – alcuni dei quali morti suicidi per davvero come Cobain, e si rivendicava l’iconografia mortifera di un corpo fatto di sensualità profonda.
A questo tipo di estetica le anoressie sono sempre state piuttosto funzionali – dalla Hepburn in poi.
Che però non vuol dire che l’anoressia si trasmetta per emulazione. Ed è per questo che avevo pubblicato il post, piuttosto risentita dalla strumentalizzazione e la conseguente grave relativizzazione di un disturbo molto molto grave attraversato da dolorosi vettori suicidari. Così come trovo che un altro problema che riguarda la discussione dei modelli femminili è l’immancabile tratto genitoriale riduttivo delle donne e del loro immaginario e dei loro desideri che pervade chi ne scrive. La questione è tosta perché quando ci si preoccupa per qualcosa di cui qualcun altro non si sta preoccupando viene subito da vestire i panni di una diversa età mentale, di una diversa maturità. Viene subito da dire, ehi io vedo quello che tu non vedi, e sono boni tutti a cazziare Michela Murgia quando poi non si sono posti mai in quel ruolo e assunti il rischio della asimmetria della preoccupazione.
Eppure un modo dovremmo trovarlo. Delle querelle che sono uscite dopo la copertina di Marie Claire, copertina per me banale e tuttalpiù iscritta in questo problema dell’appropriazione della cultura dei corpi delle donne, per cui alla fine fuori dal sesso non riescono a stare mai (sesso magretto, o sesso opimo che sia) sono usciti solo imbarazzanti attacchi reciproci sulla qualità del corpo con le tondette che dicevano alle magrette, ah sei troppo magretta, e le magrette che dicevano alle tondette sei troppo tondetta e tu sei invidiosa di me, no tu di me, e neanche un discorso complessivo sul corpo schiacciato sulla cultura dominante e sul sesso – come le accuse reciproche tristemente dimostravano.
Che è il vero nostro problema – Quelle borzettate sul corpo sono il nostro problema. Ma, ultima domanda, è politico e utile discuterne a proposito di moda? A proposito di riviste che campano sulla iscrizione ai codici di comunicazione sessuale? Le uniche riviste che se dicono che le donne sono prima di tutto corpo non vanno fuori tema? Forse si, ma con altri temi riuscirebbe meglio, e se proprio di vuol fare è una critica che esige strumenti molto sofisticati, oltre che un modo di parlare delle donne e alle donne che sia più interlocutorio e paritario di quanto le opinioniste del miglior femminismo siano abituate a fare. Quei giornali non sono solo i produttori di un immaginario, ma sono anche il prodotto di un immaginario. E allora, bisognerebbe ragionare insieme tra pari, su cosa si immagina e cosa davvero si desidera per se, e su quali parti di se si tendono a trascurare per i diversi altari – della classe sociale (mi pare assolutamente misconosciuta nel dibattito) dell’eros (invece sopravvalutato) della nevrosi (assente del tutto).