Riflessioni sulla vicenda di Marie Claire

Avevo deciso di ripubblicare il post qui sotto, quello sulle considerazioni psicodinamiche dell’anoressia, in seguito all’ennesima querelle su una copertina, un’immagine di donna magra su un giornale femminile che aveva indotto molti commentatori e commentatrici a protestare indignati con la direttrice del giornale in questione, Marie Claire, la quale aveva con quella foto estetizzato un modello malato di femminilità. Troppo magra, troppo triste. Alcuni e ad alcune ci avevano visto l’eterna sanzione verso una corporeità più florida, altre invece un invito all’estetizzazione dell’anoressia come pericolo per le giovani menti, altri ancora – soprattutto dopo che molti addetti ai lavori hanno di nuovo insistito sul fatto che non ci si suicida per le foto sui giornali, hanno spiegato che no è perché vendono un modello di femminilità triste, che estetizza la tristezza.

La discussione mi ha fatto risalire nella mente, come cibi che non riesco a digerire mai del tutto, tutte le obiezioni e i fastidi che mi provocano i due terzi degli interventi in proposito, pur rendendomi conto del fatto che, la questione del corpo femminile brucia chiunque la tocchi, per l’incredibile potenza esistenziale di cui dispone, per il fatto forse di esse il vero centro dello stare al mondo nostro e altrui. Il corpo è sesso, piacere, unione, procreazione, morte. Dalla capacità della donna di attrarre dipendono nell’ordine: la sua felicità, il suo godimento, il godimento del maschio, la trasformazione in madre, la trasformazione in padre, l’esistenza di figli e figlie. E quindi se parli del corpo parli sempre male: perché o pensi che conti solo lui, e no è troppo sei sessista, oppure se dici che non è tutto sei sessuofobica, se ti concentri sullo charme erotico sei futile (se donna) arrapato (se maschio) se invece dici che non è solo charme erotico sei cozzarona invidiosa (se donna) impotente bacchettone (se maschio). Parlare del corpo sui giornali è pericoloso quasi quanto parlare di soldi tra eredi.

Eppure, benchè possa dispiacere alle Alessandre Serre, alle varie direttore di giornale il discorso sui modelli femminili ha sempre senso, per via della tirannia che ha quel potere del corpo femminile, e per la sua adattabilità alle dittature dei contesti culturali, i quali usano sempre le iconografie del corpo per dire cosa c’è di meglio da offrire al mondo come prestazione esistenziale. Fintanto che scarseggiava da mangiare trionfavano le veneri del paleolitico, le Sofie Loren, che – a dispetto del sanguigno desiderio di bistecche, ci avevano i fianchi prorompenti. Qui che le bistecche te le tirano dietro, una elitaria ascesi è ancora il segno distintivo di un traguardo sociale, di un’alta borghesia guadagnata sul campo: da Sabrina a Marie Claire niente è più upper class di una pora stellina che ti viene da darle un bignè al cioccolato.

A ciò aggiungiamo il pepe della lotta generazionale, invenzione culturale del dopoguerra. Prima infatti le figlie incarnavano l’estetica delle madri e dei padri, e lottavano per dimostrare di possedere quella salubrità funzionale all’indipendenza e prodromica di un sano e famigliocristiano erotismo da fienile. Belle ragazze in salute eccochè! Ora – nel senso di almeno da 50 anni se Twiggy non è stata un ologramma – il desiderio di vedere le proprie bimbe mangiare va contro alla controcultura adolescienziale che rifiuta il cibo dei padri, che rivendica una perenne incerta magrezza, una perenne insoddisfazione, una depressione che è uno stato ideologico ed epistemologico, e alla fine certo anche estetico. Quante quante copertine di Marie Claire ci sono state prima di adesso e anche quando noi eravamo ragazzine! Ah le occhiaie! E quelle belle scollature che facevano vedere uno sterno scheletrico! Ah l’immortale seduzione di questo languore adolescenziale e culturalizzato. Si voleva andare a letto con certi morti di fame senza speranza – alcuni dei quali morti suicidi per davvero come Cobain, e si rivendicava l’iconografia mortifera di un corpo fatto di sensualità profonda.
A questo tipo di estetica le anoressie sono sempre state piuttosto funzionali – dalla Hepburn in poi.

Che però non vuol dire che l’anoressia si trasmetta per emulazione. Ed è per questo che avevo pubblicato il post, piuttosto risentita dalla strumentalizzazione e la conseguente grave relativizzazione di un disturbo molto molto grave attraversato da dolorosi vettori suicidari. Così come trovo che un altro problema che riguarda la discussione dei modelli femminili è l’immancabile tratto genitoriale riduttivo delle donne e del loro immaginario e dei loro desideri che pervade chi ne scrive. La questione è tosta perché quando ci si preoccupa per qualcosa di cui qualcun altro non si sta preoccupando viene subito da vestire i panni di una diversa età mentale, di una diversa maturità. Viene subito da dire, ehi io vedo quello che tu non vedi, e sono boni tutti a cazziare Michela Murgia quando poi non si sono posti mai in quel ruolo e assunti il rischio della asimmetria della preoccupazione.

Eppure un modo dovremmo trovarlo. Delle querelle che sono uscite dopo la copertina di Marie Claire, copertina per me banale e tuttalpiù iscritta in questo problema dell’appropriazione della cultura dei corpi delle donne, per cui alla fine fuori dal sesso non riescono a stare mai (sesso magretto, o sesso opimo che sia) sono usciti solo imbarazzanti attacchi reciproci sulla qualità del corpo con le tondette che dicevano alle magrette, ah sei troppo magretta, e le magrette che dicevano alle tondette sei troppo tondetta e tu sei invidiosa di me, no tu di me, e neanche un discorso complessivo sul corpo schiacciato sulla cultura dominante e sul sesso – come le accuse reciproche tristemente dimostravano.

Che è il vero nostro problema – Quelle borzettate sul corpo sono il nostro problema. Ma, ultima domanda, è politico e utile discuterne a proposito di moda? A proposito di riviste che campano sulla iscrizione ai codici di comunicazione sessuale? Le uniche riviste che se dicono che le donne sono prima di tutto corpo non vanno fuori tema? Forse si, ma con altri temi riuscirebbe meglio, e se proprio di vuol fare è una critica che esige strumenti molto sofisticati, oltre che un modo di parlare delle donne e alle donne che sia più interlocutorio e paritario di quanto le opinioniste del miglior femminismo siano abituate a fare. Quei giornali non sono solo i produttori di un immaginario, ma sono anche il prodotto di un immaginario. E allora, bisognerebbe ragionare insieme tra pari, su cosa si immagina e cosa davvero si desidera per se, e su quali parti di se si tendono a trascurare per i diversi altari – della classe sociale (mi pare assolutamente misconosciuta nel dibattito) dell’eros (invece sopravvalutato) della nevrosi (assente del tutto).

Sessismo e giocattoli e qualcos’altro.

Qualche giorno fa, una mia amica mi sottoponeva questo articolo chiedendomene un parere. Riguarda l’annosa questione del sessismo nei giochi, e in particolare le ultime proposte della LEGO per quanto riguarda la sua proposta etnografica, diciamo così. Per anni e anni infatti, i bambini hanno giocato con costruzioni e pupazzi che rappresentavano piccoli maschi all’opera: in particolare maschi operai maschi ingegnere maschi capocantiere – ma certo anche maschi contadini e allevatori e i magnifici maschi marinai. Le femmine nel mondo lego sono state sempre sottorappresentate di parecchio. Diciamo con la stessa proporzione in cui erano presenti ne’ i Puffi: ossia una femmina, in quel caso puffetta. Una femmina generica la cui identità è fondamentalmente il fatto di essere femmina. L’articolo riporta che ad oggi Lego ha deciso di introdurre alcune modifiche, che secondo l’autrice non sono sufficienti: c’è una mamma c’è una donnina che accudisce una omino anziano, e ci sono alcune professioniste altamente specializzate. E’ questo il sessismo? Chiedeva allora la mia amica, forse pensando – ma non è altrove? Non ci sono cose più importanti?
Questo tipo di obiezioni capita spesso quando si parla di rappresentazioni di genere e non hanno sempre a che fare con un maschilismo implicito, ma qualche volta con una certa dose di scetticismo in merito al potere dei modelli e delle immagini. La rappresentazione conta meno della realtà, la realtà è fatta di cose materiali come le donne licenziate quando sono incinte, come le donne che non possono accedere a certe carriere, come le donne mobbizzate perché si devono occupare di un disabile in famiglia, e come le donne che devono lavorare a casa e al lavoro perché i soldi servono ma i cessi li pulisci te e certo come le donne picchiate, le donne malmenate le donne lasciate sole da mariti che non si occupano dei bambini.
Su queste questioni io allora ho tre ordini di considerazioni.

1. La prima riguarda il potere delle rappresentazioni. Il mondo rappresentato nei giocattoli ha senza dubbio un ruolo importante perché è una importante rappresentazione del possibile che hanno i bambini, giocando giocano con l’ipotesi di mondo che domani si troveranno ad abitare. Un’imprenditoria culturale veramente forte – in termini di marketing ancor più che in termini di ideologia – è un’imprenditoria capace di inventare un nuovo desiderio di mondo facendo finta che sia un’evoluzione del vecchio, e questo è qualcosa in cui riescono pochi geni di talento. Una buona imprenditoria è quella che però, almeno intercetta la realtà del mondo esistente: nel quale donne che fanno lavori qualsiasi ce ne è assai. Il successo presso i più piccoli di cartoni animati attenti alle tematiche di genere – molti bambini di oggi che vanno alla scuola materna per esempio strepitano letteralmente per la dottoressa pelouche, una bimbetta che aggiusta i giocattoli ispirandosi a sua mamma che è dottore – mi fa pensare che a un bambino piccolo giocare con un contingente di operai costruttori dove ci siano anche delle operaie, non farebbe sto gran problema.
Ritengo quindi la polemica fondata, e anche penso sia necessario come dire parlarne a casa, dire qualcosa ai bambini in proposito – maschi o femmine che siano – perché l’oggetto culturale non vive da solo, ma continua la sua attività ogni volta che è toccato da qualcuno. Non sarà un problema per i bambini far loro notare lo scollamento tra la realtà la fuori e la noiosa pletora di maschi monocromo che maneggiano.

Tuttavia ho anche la sensazione che il potere del giocattolo e delle rappresentazioni soprattutto per l’infanzia sia come esasperato, anche da parte di chi li difende strenuamente, come se fosse oggi l’unico agente responsabile dell’edificazione politica ed identitaria dell’infanzia. Contano molto ma molto di più i rapporti tra i generi che i bambini osservano a casa, le possibilità di identificazione che hanno a disposizione, e anche le aspettative consce o inconsce che gli adulti importanti hanno verso di loro. Per esempio ho sentito dire molto spesso in famiglie piuttosto conservatrici nell’organizzazione dei ruoli di genere, rispetto a una figlia: lei non è fatta per studiare, permettendole una pigrizia, una svogliatezza una resa dinnanzi alla scuola che al figlio maschio sarebbe stata garantita con meno prontezza. I giochi davvero sono una parte minoritaria rispetto a quello che accade in casa, a cosa fanno di se i genitori, che strade aprono ai figli.

Ma c’è un’altra cosa che mi viene da pensare, e che avverto come problema scottante, specie dalla mia angolazione professionale, e riguarda la rappresentazione del materno. Ci troviamo in un dibattito oggi, anche nella sua declinazione nel mondo infantile sui problemi dei giochi e delle rappresentazioni nel gioco, che ha al centro l’incandescente rappresentazione del materno. La difficoltà immane che ha l’Italia con la femminilità e la maternità ci sta portando a un tremendo invecchiamento del paese la cui unica salvezza, in mancanza di altro sembra essere la tanto vituperata immigrazione. Si cominciano a fare figli tardi, spesso non se ne fanno affatto, o se ne fanno pochi. Non esiste una rappresentazione della maternità iscritta nella vita civile. Le mamme rappresentate come lavoranti nel mondo dei giocattoli mi paiono assenti, nel mondo dell’animazione cominciano a comparire, ma sono piuttosto sporadiche. C’è un problema che il femminismo alle volte esaspera piuttosto che risolvere che ha a che fare con la coniugazione della sessualità con il resto dell’identità. Ho la sensazione che questo potere, che nell’infanzia cova come brace sotto la cenere in tutta la sua forza esplosiva, polarizzando i rapporti tra i bambini, venga spesso minimizzato nelle discussioni oppure reso l’unico significativo, ma riesce difficile pensarlo come compenetrante la realtà nel suo violento potere, differenziante. Eppure questa cosa che le bambine sono quelle che domani faranno dei bambini a me sembra importante.
Quello che mi sconvolge è che su cento operai ci sia solo una madre.

Mi fermo qui. Il resto spero nei commenti!

Nuovi mitologemi: Astrosamantha

Samantha Cristoforetti torna dallo spazio, e scopre in una misura variamente prevedibile – se qualcuno ci avesse pensato – di essere diventata l’icona di un cambiamento culturale in tema di rappresentazione di genere di possibilità del femminile tutto in salsa italiana, da consumare tutto alle nostre mense psichiche e mediatiche. Ha un nome italianissimo, una faccetta italianissima, aspetti e movenze gradevoli ma assolutamente non eccentriche. Tutto in lei avrebbe la rassicurante foggia della fidanzata ammodo alla peggio un po’ secchiona, e invece eccola la fluttuare nell’assenza di gravità, mandare foto gentili dallo spazio, assurgere al regno di chi può vedere le cose da una prospettiva preclusa ai mortali – eccola nei panni dell’astronauta, quanto di più mistico ci sia rimasto sulla piazza simbolica, quanto di più sconvolgente e metafisico. Noantri non si capisce molto di cosa si può arrivare a capire sospesi nella notte, ma la fascinazione estetica dello stare nel vuoto senza forza di gravità, di sopravvivere a un esistenza senza ossigeno, di guardare la materia quotidiana da quelle distanze siderali – le foto di Samantha del golfo di Napoli quando morì Pino Daniele! –… quella roba non si batte! Quella roba ha della magia!
O della stregoneria.

Avevamo fatto il nostro apprendistato culturale per quanto sempre troppo rurale, in fatto di cosmo, e avevamo appreso da Armstrong in poi che la grandezza dell’umano poteva passare da queste esoteriche imprese, e se una nazione vuole mostrarsi veramente gagliarda non doveva più mandare i carri armati sulla Kamchatka, piuttosto sognare la trascendenza su Apollo 13, e imbastire con gli scienziati un fruttifero dialogo a cui noantri sempre un pochino con le pezze al culo abbiamo partecipato raramente. Figuriamoci poi con l’astrofemmina! I tassi di disoccupazione incalzanti, buona parte delle cittadine casalinghe, i soldi per la ricerca inesistenti, l’economia in ginocchio e persino la compagnia aerea di bandiera alla canna del gas! Ma ti pare cosa de fa le astrocose?
E invece è stata cosa e in tempi di mediatizzazione della qualsiasi, è stata subito una cosa gigante. Internet ha gonfiato il nascente mito culturale portandolo a dimensioni che prima ci erano sconosciute. Samantha Cristoforetti è diventata qualcosa di molto più quotidiano di quanto sia mai successo ai suoi predecessori. Non ci si capiva molto di cosa facesse esattamente nella navicella – è totalmente altra l’astronomia rispetto ai nostri saperi e competenze della quotidianità è quasi incomunicabile diciamo – ma intuivamo che ci doveva essere altro oltre che consumare manicaretti liofilizzati col culo sospeso nell’aere e le foto della nostra vita riprese da distanze inconcepibili.

Tuttavia la cosa importante – e squisitamente provinciale – è che se non fosse stata una donna, non ce ne saremmo accorti. Avessero mandato un Gianfranco Amerighetti in orbita, tanti bei bacini e un numero speciale su Focus, poi arrangiati. Noi che siamo dei trogloditi a cui un fuggevole boom economico ha regalato un travestimento che già sta dissipandosi velocemente insieme ai quattrini, siamo stupefatti dall’astrofemmina! Ci ritroviamo un nuovo personaggio mitico tra capo e collo che non pensavamo abitasse nel nostro inconscio culturale, ossia nel regno dei nostri desideri e timori, nell’arsenale delle nostre possibilità sociali. La donna astronauta! Una che va nello spazio cioè e che sfancula con un simpatico sorriso derrate intere di filosofia della differenza – con cui noi, anche se per lo più inconsapevolmente, facciamo la scarpetta da secoli e secoli – per cui essa non fa per niente un mestiere che concilia con la famiglia, nevvero, se ne sbatte proprio la Samantha della famiglia, dice eh beh bisogna fare dei compromessi e quindi io mo’ i figli regà non ci penso caso mai più in la. Perché Samantha in cuor suo prima dei bambini ci avrebbe da togliersi questo uzzolo di andare su Marte, per dire.

Le reazioni sono allora plurime. Ci sono quelli che con angosciata preoccupazia tipo Langone, dicono: ussignur ma se vanno tutte nello spazio chi le stira e’ camice? Signore non andate nello spazio! Ne và del vostro eterno femminino! Noantre, che per lo più siamo prima che stiratrici piuttosto pigrone in fatto di cosmo, e prima che scienziate più modestamente impiegate che devono pagare un mutuo e se magari ci fossero più asili nido ecco saremmo più contente, per non parlare del suocero coll’Alzheimer, lo guardiamo con tenero risentimento. Ci sono altri che altrettanta angosciata preoccupazia tipo Ceronetti si occupano della psiche della Cristoforetti, interpretando nell’impropria ubris di chi si mette a fare a gara con le comete, una turba veteroedipica che pure Freud – che di astre femmine della ricerca scientifica ne ha partorite un contingente – l’avrebbe guardato con perplessità. La naivité secondo cui esista una lettura patologica della sfida all’immanenza solo per le bambine mentre i bambini nisba. Samantha che dovrebbe far pena, mentre l’astroganzo no, in quanto uomo….
Ah la mefitica passione per la psicoanalisi selvaggia.

A seguire le reazioni selvagge delle varie Selavagge, che sembrerebbero rivelarsi invidiose di una celebrità non ottenuta con un bel culo, e altresì poco incline al gallinaggio mediatico. Ma che davero dobbiamo occuparci di questa cosa noiosa dell’astrofemmina, sembrano dire, anziché occuparci dei camionisti o dei minatori? Come facciamo a sparlarne tra pari,? come si fa con le dive del cinema, che per altro son cornute proprio come noi? E diciamocelo a occhio nudo anche meno gnocche. Con l’Astrosamantha è una gara impari! Quel dommage.
Le selvagge allora scatenano in nome del mito reazioni selvagge, da parte del popolo fondamentalmente bue, che bue era prima bue disgraziatamente rimane adesso, e tocca assistere a siparietti di maschi rintronati quanto volenterosi che scrivono sul web: brutta zoccola, si vede che non scopi! Ecco perché ce l’hai con Samantha! Brutta mignotta maschilista.
Sembrerebbe non esserci speranza.

Ma invece un pochino ce n’è. Di fatto un nuovo mito culturale, gonfiato, insensato, agiografico, irrazionale e che si cala su un tessuto culturale fermo alla triade mazziniana di Dio Patria e Famiglia, comunque è qualcosa che arriva perché era possibile, e qualcosa che può concimare ciò che rimane. Magari scopriremo che Samantha Cristoforetti è spocchiosona e antipaticissima, che si crede pinco su’ polli, o che fa delle cose meschinedde proprio tipo parlare in modo acrimonioso dell’astronave della concorrenza, oppure Dio ce ne scampi, cede alle lusinghe va da Fazio e comincia a parlare bene di Renzi – Astrosamantha, questo non farcelo – però di fatto, la sua immagine estetizza per noi qualcosa di nuovo, rende desiderabile quello che pensavamo non fosse proprio desiderare, rimette in campo delle ambizioni che non ci riguardavano, lo fa per i bambini e soprattutto davvero soprattutto le bambine. Samantha è il nostro telescopio giocattolo da mettere accanto alle barbie, e ai sacrosanti quanto invitti, quadernini rosa con tanti cuori sopra.

Giulia, i bambini, le madri, i padri la legge e la coerenza.

Da molto tempo a questa parte la PAS, la sindrome di alienazione parentale, proposta di Gardner e rifiutata da qualsiasi contesto psicologico e psichiatrico è oggetto di grandi e calorosi dibattiti.   Nelle intenzioni di Gardner la sindrome doveva servire a individuare minorenni manipolati dal genitore affidatario e indotti a credere di provare sentimenti ostili verso il genitore non affidatario, effetto che sarebbe garantito tramite una sorta di campagna di allontanamento e di denigrazione.
Questo tipo di circostanze è moderatamente frequente, e gli psicologi che lavorano con i minori ne fanno una costante esperienza – tuttavia la formulazione di Gardner aveva molte lacune, tali da rendere il costrutto auspicabilmente, inutilizzabile. Ora non mi va di ripetere cose di cui ho già parlato a lungo – qui per esempio. Per brevità ricordo solo che il clouster diagnostico di Gardner non propone una lista di sintomi ma un insieme di comportamenti a volte semplicemente adattivi, non rileva elementi di sofferenza del minore che invece sono tipici di questo ordine di circostanze, pensa il sistema familiare in termini di mezzo sistema sano e mezzo sistema funzionante, e lo pensa in termini fondamentalmente sessisti. Il mezzo sistema malfunzionante secondo Gardner è sempre materno – come si evince più che altro da alcune sue dichiarazioni. Infine manca del tutto una corretta diagnosi differenziale con le diagnosi con cui può confinare: l’abuso reale e l’abuso assistito. Ossia: in quali comportamenti il bambino che ha una PAS è diverso dal bambino che è vittima di un abuso? Quando un bambino che dice che la madre è stata picchiata sta mentendo? O che lui è stato picchiato? Esistono sintomatologie diverse? Questo quesito è importante.
La cultura psicologica italiana –ai minimi termini- unita a un sostanziale sessismo di fondo, non di rado ravvisabile nei tribunali, ha portato a un uso avventato della PAS soprattutto in molto processi in cui al centro della questione c’era l’accusa di violenza di genere del padre sulla madre e di violenza assistita verso il minore. Il concetto di alienazione parentale è stato chiamato in causa dagli avvocati di parte come grimaldello per screditare la violenza sulla donna, e a far passare come invenzioni le denunce di aggressioni e percosse. E dunque, è abbastanza comprensibile e plausibile che oggi solo a sentirne parlare, soprattutto considerando che al di la delle etichette generiche sono le madri ad essere accusate di istillare delle menzogne nei figli, la maggior parte delle donne si arrabbi terribilmente. E nella complicata situazione di un paese con l’economia di un primo mondo e l’ideologia di un quarto la maggior parte delle femministe – che vanno lottando per abitare per lo meno il secondo – rimanga sconcertata di fronte a chi combatte per un ingresso a pieno titolo della pas nelle cause di diritto di famiglia. I mariti picchiano, non pagano gli alimenti, si rifanno con gesti violenti sui figli in percentuale preponderante nelle cause di separazione, ci possiamo davvero stare a occupare di PAS? Non ci sarebbe una lista di cose prioritarie prima?

In mezzo a questi interrogativi Hunziker e Bongiorno, insieme già in una fondazione per la lotta allo stalking e alla violenza di genere, hanno deciso di patrocinare una nuova proposta di legge che sanzioni la PAS financo con la galera. Si era appreso qualche giorno fa con un’intervista da Fazio, in cui la showgirl aveva alluso al fenomeno e parlato della diagnosi, e ne era sorto un risentito dibattito, con tutte le associazioni femministe pronte a negare l’esistenza stessa del costrutto e delle circostanze che lo producono, mentre psicologi e psichiatri cadevano in un silenzio imbarazzato dinnanzi a una protesta di legge che a proposito di un sistema familiare nella sua interezza abusante e compromesso sancisce IL BUONO e IL CATTIVO proponendo IL GABBIO per il cattivo utilizzando una diagnosi che, pur individuando qualcosa di riconosciuto clinicamente, è al momento inutilizzabile per come è operazionalizzata. A correggere il tiro poi, arriva l’intervista di Susanna Turco a Giulia Bongiorno, che paraculescamente cerca di mettere una pezza sull’evocazione della pas dicendo cose come no, ma mica parliamo di quello eh – quando ci sono gli psicologi non ci si capisce mai niente! E allora noi parliamo delle circostanze oggettive, capito come.

Dice l’intervistatrice – scusa ma ci hai fatto caso al fatto che allo stato attuale dell’arte, di pas si parla sempre nei processi di abuso?
Si ma a me, che me frega. Se va così va così.
Un’intervista istruttiva, leggetela.

Ora. Bongiorno si occupa da sempre anche con una certa serietà e buona fede di violenza di genere, e probabilmente si sente protetta dal suo stesso curriculum. E ha certamente ragione a occuparsi di un fenomeno che esiste, e a indicare la necessità di offrire giuridicamente degli strumenti di intervento perché è vero che esiste il fenomeno, è vero che non di rado molti padri, sono allontanati ingiustamente dai figli, e soprattutto è vero questo io credo- che la vita un padre ci da, quel padre, non un altro, con quello dobbiamo fare i nostri conti belli e brutti di figli, e per quanto è possibile quel padre li che è nostro, non ci deve essere tolto. I bambini hanno davvero questo diritto ed è giusto che sia rispettato. E penso come ho scritto nel post linkato che in un figlio questa questione crei dei conflitti inconsci e quindi mi dissocio da tutte quelle correnti femministe che vogliono cassare la PAS tout court.

Ma certa supponenza e goffaggine sono imperdonabili. Si percepisce l’occhio fisso su un femminismo che è anche corretto, e che come vuole più accesso per le donne nel mondo del lavoro chiede il riconoscimento degli uomini nel mondo del privato e quindi si propone di sanzionare quei casi in cui il femminile usa il privato come forma di potere. Tuttavia lascia sbigottiti da una parte la malagrazia con cui ci si avventura in un dibattito ampiamente avviato, fino a raggiungere vertici inusitati di becera ignoranza: ah le femministe non hanno letto la legge mia, (ma dovevano? Ma a che serve avere una showgirl a comunicare se alla prima critica su quella comunicazione si rinfaccia la legge? Ma correggi la comunicazione prima) ah si la pas non esiste vabbeh io non ne parlo mica, ma però mi serve parlarne, ah tanto gli psicologi confondono le acque sebbene sia del benessere psicologico dei bambini nevvero che si dovrebbe parlare – e per quanto alla fine la questione sia un giochino di potere tra le parti e una patologia del potere quello dovrebbe essere il vertice di osservazione.

Dall’altra anche la stessa proposta di legge rende perplessi perché è ispirata sul principio della sanzione come efficacia detrattiva su un certo comportamento – la minaccia del gabbio! – e pone l’accento sull’idea di un comportamento colpevole contro uno invece non colpevole quando se fossero chiamati in causa le persone competenti le cose sarebbero impostate in ben altro modo. E il sistema familiare ad essere rotto. Posso capire il sanzionare una ex coniuge che non faccia rispettare il ritmo di visite all’ex marito, o l’esercizio della funzione paterna. Ma la sanzione di un’opinione sull’ex marito mi pare una forma di delirio istituzionalizzato oltre che ridicolmente controproducente.
Al di la delle mie perplessità sul testo della legge, non credo che si possa risolvere il problema della comunicazione su questi temi mettendo in mezzo una signorona di successo nello spettacolo che odora di superficialità e privilegio ogni volta che sorride e ciancia di un mondo materiale che non sarà mai costretta a sfiorare, e forse sarebbe un atto di coerenza oltre che la risposta a una necessità tanto sentita, proporre degli strumenti anche giuridici e richiederne di psicologici per aiutare quelle stesse avvocate femministe e periti di parte a discriminare la PAS dai casi di abuso – sia nel caso in cui l’abuso sia violenza subita direttamente dal minore che sia invece violenza assistita sulla madre. Per quanto alla Bongiorno l’intervento degli psicologi appaia come confusivo, forse non se ne può prescindere tanto, considerando il fatto che in questo genere di processi la testimonianza del minore è dirimente. Non solo come diretto interessato nei casi di affido ma anche come teste per appurare l’eventuale violenza sulla madre la quale come si diceva spesso è screditata invocando la pas. Va ricordato infatti che spesso quando gli uomini compiono violenza si mettono nelle circostanze opportune a che la vittima abbia come unica testimonianza proprio i figli, e attuano processi intimidatori allo scopo di non far produrre alla vittima prove che possano poi essere usate contro di loro. Per esempio prima le accoltellano poi le portano al pronto soccorso e in loro presenza le donne aggredite non parleranno di aggressione ma di incidenti e l’ospedale non potrà scrivere niente di utile in un processo futuro. Allora capire da altri e più adeguati sintomi se un bambino racconta di un abuso per non perdere la vicinanza con la madre, o invece lo fa perché ne ha memoria diventa un compito ineliminabile e una nuova riformulazione della PAS quanto mai auspicabile. Io ho la sensazione che certe sintomatologie molto franche e invalidanti – bambini che hanno appetito disturbato, che non dormono la notte. Oppure che sono precocemente portati a fare giochi in cui al centro c’è la violenza e un contenuto pesantemente sessuale, in maniera reiterata e ossessiva siano più probabilmente vicini all’esperienza di abuso reale che presi da una narrazione dell’abuso. L’abuso rompe, disorganizza crea un disagio esperienziale. Il suo racconto allo scopo di tenere vicino un materno avvertito come importante forse non comporta le grandi fratture psichiche della grave violenza assistita o subita e se ci dovesse essere una sintomatologia comparirebbe più tardi, con connotazioni più sottili. Ma su questo mi piacerebbe che intervenissero colleghi che lavorano con bambini.

Quello che posso dire con certezza è che coerenza vuole che – se ti occupi di violenza domestica il lunedì, non te ne puoi fottere il martedì perché il nuovo argomento ti attizza di più.

Cosa fare per aiutare una donna vittima di violenza di genere

Premessa:

Qualche giorno fa a una mia amica capitava un incidente purtroppo non molto raro. Era per strada e a un tratto si era trovata ad assistere a una scenata in pubblico dove un uomo maltrattava con molta violenza la sua compagna, strattonandola e lamentandosi a gran voce del fatto che lei si fosse azzardata a scappare di casa quando lui si era distratto. Una scena molto forte, con tutto il quartiere che cercava di calmarlo, e qualche donna che ha provato a parlare con la donna molto giovane, sfiancata. L’uomo era italiano e più grande di lei, lei era una poco più che adolescente dalla pelle scura, forse somala forse eritrea. Chi sa.
La mia amica è tornata a casa con una grande sensazione di impotenza.

Come ci si deve comportare in questi casi? Cosa bisogna sapere?

Sono situazioni infatti che capitano con grandissima frequenza – la vicina di casa sempre con occhi neri e segni oscuri sulle braccia, la donna percossa per strada, l’amica che si sente al telefono – e che cortocircuitano emotivamente con delle emozioni importanti. Sono vicende platealmente narrative, iconografiche quasi filmiche, muovono immagini archetipiche: L’Uomo Cattivo Che Picchia la Giovane Buona. La Forza che attacca La Gentilezza. Il Maschio rappresentante del Maschilismo che attacca la Donna che deve essere difesa dal Femminismo. L’Avanzo di Barbarie che deve essere redento dall’Intervento della Civiltà. Sempre tenendo da parte quell’altra parrocchia di reazione psichiche, di marca più reazionaria, che la mia amica ha potuto osservare: la Femmina Infida e Libertina, Che Non Rispetta La Relazione Con Il Suo Uomo. Tutte queste cose però sono narrazioni nostre, riflessi condizionati che vengono dalla nostra psicologia prima che dalla nostra cultura, identificazioni lampo, che scattano prima ancora del ragionamento. Quella ragazzina sono io ragazzina! Quella ragazzina è mia figlia grande! Quell’uomo è il padre che ho detestato! Quell’uomo è il maschio che ho paura di essere ma non voglio! In ragione di questo possiamo essere tentati di ignorare l’accaduto oppure, di intervenire in modo invece grossolano.
Ora intervenire secondo me è d’obbligo, ma forse ci sono delle cose da fare e sapere per farlo nel miglior modo possibile.

Proviamo
La prima cosa da fare è sospendere il Pavlov dello scacco emotivo e ricordarsi che dinnanzi a se si ha un romanzo che nonostante le apparenze non abbiamo letto.
(Lei per esempio, potrebbe essere più presente a se stessa, di quanto sembri, lui meno o più aggressivo non lo sappiamo, ci saranno altre storie si o no? Che equilibri si giocano? Che ruolo ha la rete familiare di lui? E di lei? La trama non letta a che si collega? ) E quello che invece sappiamo è un capitolo centrale, per quanto nevralgico di una trama. Non possiamo io credo, per motivi etici, girarci dall’altra parte, ma neanche possiamo intervenire in modo incongruo quindi, non possiamo dare subito pareri affrettati che potrebbero portare anche a consigli pericolosi.

Questa premessa serve anche a essere preparati dinnanzi alla possibilità di essere giudicati invadenti. E in effetti, quando si interviene in una vita che non è la nostra, si è sempre invadenti, si calpesta sempre qualcosa di indebito, di ignoto, e non c’è tragedia che annulli questo dato di fatto. Due settimane fa io ho sentito una donna per strada parlare al telefonino con la madre piangendo, perché il marito l’aveva cacciata di casa, aveva un occhio nero, dei graffi, e quando ho provato ad avvicinarla quella mi ha mandato a quel paese. E’ giusto, è la sua vita è il suo romanzo, sono i suoi tempi psicologici e io intervenendo e dicendo – signora se le serve chiami qua – ho imposto i miei tempi. E quindi, prepararsi a prendersi un vaffanculo ben assestato credetemi aiuta. Aiuta anche ricordarsi la delicatezza di una relazione – quella tra voi e la donna che intendete aiutare, ipso facto asimmetrica: voi state bene state li ben vestiti e sorridenti a confrontarvi con una donna che sta come dire in un momento di assenza estetica, di umiliazione, di minorità. Voi state in un quotidiano apparentemente sereno e magari poco penetrabile mentre lei che sta richiamando il vostro intervento è in una posizione di trasparenza, inferiorità in una costrizione di impudicizia. Vale per la donna che si vuole soccorrere per strada, come per l’amica che si conosce da diverso tempo.
Quindi, si possono verificare due possibilità: che l’asimmetria sia accettata psicologicamente, per cui la persona aiutata si cali nella parte della vittima e della figlia, oppure che l’asimmetria sia rifiutata e quindi che la persona che riceve aiuto si indisponga. Questo ordine di effetti, giacchè l’asimmetria è reale e oggettiva, non si può evitare, ma si può cercare di attutire piuttosto che amplificare – soprattutto nei casi in cui si superi il momento eclatante di quando si assiste lui che le molla uno schiaffo, di quando le si parla un’ora dopo che ha preso lo schiaffo.

.Poniamo che capiti di essere in flagranza di reato: di assistere a una violenta percossa, o in quanto vicini di casa di sentire voci di pianto e avere la sensazione che ci sia una violenza in atto. Se si ha la possibilità di contattare la vittima in quel frangente, ed essa appare molto provata come purtroppo è normale che sia, un modo di fare gentile, anche accudente e genitoriale ci sta – perché tutti noi quando siamo colpiti nel corpo o semplicemente gravemente ammalati diventiamo un po’ figli del prossimo, regrediamo a uno stato in cui si invoca l’altro a prendersi cura. Non sempre, ma certo è più probabile. Ma questo è un modo di fare che va bene al momento dello stremo, all’acme di una crisi, non in un momento in cui si sta dialogando e si cerca di passare un consiglio utile – per esempio contatta un centro antiviolenza, telefona a questo numero. Questo atteggiamento diventa infatti nefasto sia che la persona si lasci aiutare, che nel caso in cui non lo permetta.
Se infatti se ne sentirà insultata, perché si vede come sottovalutata trattata come non capace, vede negli occhi dell’altro la propria responsabilità nella sua infelicità vi manderà a quel paese, e ritornerà nel suo inferno domestico. Ma ecco, se accetta il ruolo di povera vittima, di figliola senza armi che ora voi brave madri e bravi padri state soccorrendo, beh la zuppa non cambierà, in quanto figlia lei non rintraccerà dentro di se le forze e la soggettività adulta per prendere la sua vita in mano, e ritornerà nel suo inferno.

Per quanto è possibile dunque, bisogna parlare sempre tra pari.

E cosa dire?
Quando è possibile bisogna capire la situazione della persona, ascoltare la storia se è disposta a raccontarla. Tante cose non è facile saperle subito e probabilmente specie se il contatto è occasionale, non si sapranno allora. Ma alle volte chi vive in queste situazioni protratte nel tempo si tiene delle cose infernali dentro per tanto tempo, è intimidita dal partner a parlare con chiunque per cui una volta che trova un canale magari si sfogherà. In tal caso, non è il momento per esprimere scandalo o sanzioni, ma soltanto di capre bene come stanno le cose, quanto la signora è coinvolta nella sua vita di coppia e di quali risorse può usufruire dovesse decidere di lasciare il compagno, specie se ci vive insieme e specie se ha fatto dei figli con lui. Poi ognuno e ognuna troverà il suo modo per confortare e vedere, ma sempre in base a una realtà cruda dei fatti. Se una donna è molto coinvolta sul piano personale, molto innamorata molto dentro a una relazione violenta, beh è inutile dirle di lasciare il compagno è quasi più opportuno alludere a una psicoterapia se l’intimità raggiunta lo consente. Se una donna è immigrata e sola in Italia, non si può dirle con disinvoltura di andarsene senza ragionare insieme sul dove e sui rischi.
Quello che si può fare però è metterla in contatto con un centro antiviolenza della sua città o regione, che l’aiuti in un percorso o che addirittura – ce ne sono diversi – le possa offrire ospitalità. Io credo che questo vada fatto sempre, anche quando la psiche dell’interlocutrice non dovesse essere pronta. Solo il fatto di dire, guarda c’è questo posto con cui puoi parlare con cui puoi confrontarti, magari dando un numero di telefono, è un seme, che può germogliare subito, che può germogliare dopo – ma che rimane. Anche se voi date il numero e lei se lo perde un domani lo ricercherà. E’ importante comunque che la prendiate sul serio, le parliate tra pari, magari nel dialogo diate risalto alle sue risorse a cosa ha saputo fare per difendersi, ma non vi facciate prendere dal raptus genitoriale pestilenziale. Ha bisogno di sentirsi una donna forte, non una bambina debole.

Chi scrive ha avuto una buona esperienza con i centri antiviolenza, anche se da quella esperienza ha drenato delle forti perplessità. Ma rimangono, per questo tipo di assistenza l’aggancio più utile e sicuro, perché probabilmente più preparato a ragionare su tutta una serie di difficoltà pratiche che noi non sappiamo a cui non sempre polizia e servizi sociali soprattutto rispondono in maniera adeguata. In ogni caso, bisogna stare molto attenti al proprio zelo, e se si decide di aiutare una donna vittima di violenza intervenire anche con una certa cautela. Per quanto infatti molte coppie violente siano tali per una sorta di erotizzazione distorta della relazione, non dobbiamo pensare che questa sia la maggioranza dei casi e non dobbiamo sottovalutare una serie di problematiche davvero concrete – come il grado di psicopatologia del compagno violento e le difficoltà materiali della vittima. Tante volte le donne non escono da certe situazioni per una paura che purtroppo è persino saggia, perché sanno che se osassero scappare quello le ammazzerebbe. In questo senso consigliare di andare alla polizia senza consigliare simultaneamente di lasciare la casa è scellerato, così come consigliare di minacciare di andarsene senza che lo si faccia veramente. Dire perché non te ne vai a una ragazzina di 21 anni extracomunitaria sequestrata da un antisociale italiano o del suo stesso paese, è semplicemente ridicolo. Fare la parte della pasionaria davanti all’uomo che malmena magari altrettanto pericoloso. Certe volte, può essere utile giocare d’astuzia, e offrire alla donna un alibi – per esempio parlando di vestiti da regalare per i suoi bambini, di un certo luogo dove le cose da mangiare costano meno, e cose così, oppure qualcosa di più adeguato al ceto sociale della persona con cui stiamo parlando perché è vero che la violenza di genere abbonda nelle aree di marginalità sociale, ma non disdegna anche le elites. E le donne delle elite, sono sole quanto le altre, perché il patto dei maschi capobranco è fortissimo (l’avvocato che conosce il questore, etc. etc.) e la sanzione delle signore altrettanto potente.

Attenzione poi a non rivolgersi ad altre entità a casaccio, tipo polizia e servizi sociali, se non si conosce qualcuno della cui preparazioni si è certi. Entrambi i contesti professionali sono ricchi di persone dedite attente e spesso preparate alla violenza di genere con corsi di aggiornamento. Ma queste formazioni avvengono non sistematicamente ma a macchia di leopardo, e quindi la persona che volete assistere potrebbe non trovare l’adeguato intervento. Infine, ricordate sempre alla donna che riuscisse davvero a lasciare la casa dove convive con l’uomo che la perseguita, di denunciare all’organo deputato se ha deciso di portare il figlio con se. Se non lo facesse in un’eventuale causa futura, il padre potrebbe usare questo comportamento per toglierle il figlio e dinnanzi allo Stato la donna sarebbe giudicato inaffidabile.

qui un elenco dei centri antiviolenza, divisi per regione, dove le donne possono rivolgersi

Il personale è politico. Ma anche no

Cari tutti,

Sono molto di corsa, di conseguenza spero mi perdonerete l’approssimazione del post che state leggendo, che cerca di enucleare alcuni punti che riguardano il dibattito su sessismo, e questioni di genere, cose che mi stanno venendo in mente in questi giorni – vuoi perché sta andando alle stampe il mio manuale antistalking, vuoi per i dibattiti che infiammano la rete – la camicia dell’astronomo prima, e ora – forse soprattutto – l’imbarazzante performance dell’eurodeputata.

Noto infatti una zona di complessità riguardo l’opportunità o meno di usare dei segni correlabili alla comunicazione sessuale, sia da parte delle donne stesse, che da parte di chi le cita più o meno indirettamente. In Italia regolarmente ci si incaglia su questo tema ogni piè sospinto, forse perché si scotomizza l’area di ambiguità che indubbiamente c’è addosso all’espressione di certi codici, in parte perché l’ossessivo dibattito intorno a questo problema dei codici permette a sua volta il perdurare di un sistema politico sessista.

Il modo di porsi delle donne – di vestirsi di conciarsi i capelli di truccarsi eventualmente etc- è per questioni sociologiche non proprio scontate molto più articolato di quello degli uomini, per i quali il campo di variazione tra appartenenza di genere classe sociale e gruppo politico e culturale è piuttosto limitato, con una spruzzatina di chance per quel che concerne l’espressione della loro personalità. Ma secoli di intercessione al mondo della polis tramite il logos hanno indotto il femminile a esprimersi mediante la cura del corpo e dell’abito, e questa cosa in una società sessista è regolarmente fraintesa: le donne si acchitterebbero solo per sedurre e il loro corpo nel pubblico sarebbe principalmente un oggetto seduttivo. Invece, con un’intelligenza che addirittura va ad abitare automatismi non sempre verbalizzati, le donne -in specie dopo la rivoluzione industriale – abitano la rappresentazione del corpo come veicolo della rappresentazione di se, e la propria posizione rispetto al contesto condiviso, esprimendo messaggi che rinviano al potere in un caso, all’ambizione intellettuale in un altro, alla modestia economica in un terzo, al ceto d’arrembaggio in un altro, all’incazzo da precariato in un altro ancora, fino al materno, fino all’eccentrico, fino all’umile, fino allo sfacciato.
Ossia, quando osservate i tacchi a spillo della Santanchè – non fatevi troppi filmini sulla sua storia con Sallusti – pensate piuttosto alla lotta di classe.

Il che però non deve far dimenticare che con i tacchi e l’abbellimento, e lo sbattimento di ciglioni una donna può comunicare sessualmente, è libera di farlo, e di conseguenza è anche libera di essere oggetto di un interesse sessuale, e di conseguenza l’uomo deve essere libero di poterla considerare oggetto di interesse sessuale. Questa implicazione latente provoca costantemente il caos nel dibattito italiano sulla questione di genere, perché coinvolgendo il sesso, tocca un’area sacra e incandescente. Sulla quale tutti maschi e femmine fanno fatica a intavolare negoziazioni. Per me infatti la questione è relativamente semplice: secondo tradizione e uzzolo personale è giusto che una donna si esprima come si sente e comunichi come crede, ivi compreso il caso che se le piace di conciarsi col tacchissimo e la minigonna, e ivi compreso il caso in cui decida di manifestare totale trasandatezza e disinteresse per la cura di se. Quello che solitamente si contesta è la reductio ad unum della polisemia estetica: come se la donna fosse solo un interruttore della luce che sta acceso o spento sul concetto di “piacere”. Ecco perché fischiare dietro a una che cammina per strada è maschilista – mentre con lo stupro non ci entra un bel niente, perché lo stupro è un atto misogino – ecco perché la camicia era per me fuori luogo, ed ecco perché un apprezzamento estetico a un personaggio politico o semplicemente in un contesto professionale è fuori luogo. Perché ribadisce la monosemia del paese, e se ne fotte di tutte le altre cose che sta esprimendo quella persona che oltre ai baffi e i polpaccioni, o le gambe lisce e gli occhioni, sta dicendo altro. Compreso, quello che le esce dalla bocca, in qualche caso.

Quello che le esce dalla bocca.

Il secondo punto dirimente della logica sessista, è quello per cui per la donna siccome il corpo in quanto oggetto sessuale è l’unico tramite identitario di espressione quello che dice è sempre secondario: non è così urgente che si esprima sulle cose in cui in linea teorica è chiamata a esprimersi. Può però fare intrattenimento sul corpo medesimo come a fare da riempitivo decorativo alla primigenia funzione di oggetto sessuale, variamente arguto o variamente imbecille. Che è il caso dell’europarlamentare PD Moretti, in questa brillante intervista, la quale intrattiene con l’amabilità che solo una Donna Letizia come si deve avrebbe giustamente apprezzato – l’intervistatore su questi gloriosi temi, usati a mo’ di fuffa riempitiva. Ah si per me le donne devono essere belle e curate! Io voglio andare dall’estetista una volta a settimana (vi prego di raccogliere la brillante allusione a tutti i tipi di depilazione, nell’intervista) sisi! Io, continua! Uhuh ahah! Voglio essere per benino per il mio elettorato eheh! E continua con graziosi ammicchi tra canzonette preferite e terrificanti giochini.

Ecco vedete, questa qui, che magari è anche una brava professionista ma appunto a una donna non è richiesto renderlo noto e spiegare perché meglio far sapere quanti peli ha, è candidata al Veneto.

Cioè, povero femminismo povero Veneto.