Scarrafoni di grande successo

Quando ero piccola e uscivo con mia nonna, quella del post qua sotto, magari andavamo a prendere un gelato insieme e per passare il tempo, osservavamo le persone che passavano. Era per lei questo rito, motivo di spietata meraviglia. Nel suo intrinseco giusnaturalismo infatti, la natura avrebbe voluto che la divisione tra persone brutte e persone belle fosse rigidamente rispettata, e i brutti dovevano andare tra di loro e i belli tra di loro. A questo si aggiungeva una venatura velatamente misandrica, secondo cui una donna non può essere mai brutta specie al giorno d’oggi, mentre per l’uomo acclaratamente questa ipotesi poteva darsi con una certa frequenza e dunque, mia nonna non mancava di comunicarmi il suo materno scandalo anche se ammischiato con una confortevole accondiscendenza. Ma guarda quello la così brutto con quella bella ragazza. O come mai!

Si trattava per lei di un fenomeno ogni volta bizzarro. Capiva – a mio giudizio saggiamente – che la questione dei soldi era quasi sempre irrilevante. Questa cosa per cui le donne si prendano gli uomini solo per soldi e gli uomini le donne solo per sesso, era diremmo oggi, una logica discorsiva, che lei non aveva mai preso sul serio – individuando autentiche alchimie seduttive nelle coppiette che prendevano il gelato con noi. D’altra parte ripeteva con sempre lo stesso umorismo perfido, non è bello ciò che bello ma è bello ciò che piace, aggiungendo un certo però senza scampo, a totale disconferma di questa retorica buonista.
A dire il vero, ogni volta che ella mi indicava un brutto, esso mi pareva davvero oggettivamente brutto, uno di bruttezza metastorica. Qualcuno a cui la natura aveva ficcato addosso irregolarità difficili da gestire: dentature tutte stortignaccole, menti inesistenti, agglomerati di occhi e di bocche stretti attorno al naso e persi in faccioni grandi . Occhi a palla accompagnati da nasi uncinati, che ella chiamava con premoderna franchezza pisciambocca.

 

Quel suo interrogativo – come mai? – non smette ancora di affascinarmi perché a ritmo regolare mi sembra che strida con certi accorati messaggi dell’industria culturale per cui la facilità nelle relazioni arriva solo quando si obbedisce a un canone estetico, ragion per cui è bene industriarsi per esservi adeguati, oppure – che è il sottotesto della retorica pappone versus mignotta – quando si ha una disponibilità di risorse secondarie –  molti soldi molta passera, usarle per compensare la disgrazia di un nasone a patata. Ma naturalmente queste cose son tranelli – dimostrati non solo dal successo di certi oggettivi bruttoni – gente in contromano in qualsiasi epoca storica – ma anche quando si pensa al destino complicato di certi belloni e bellone di ordinanza, bronzi di riace a piede libero, veneri di milo a spasso che però cari miei, non vedono mai la luce, oppure molto più raramente di quel che si pensa.

Il fatto è io credo, che in ballo c’è innanzitutto il proprio percepirsi in diritto di essere titolari di relazione, e in secondo luogo i in dovere nei confronti del proprio piacere. La felicità è infatti una chimera – ma il dirselo troppo spesso è senza dubbio uno dei peggiori tranelli della nevrosi, una castrazione bella e buona per la quale non c’è retorica collettiva che tenga. Una volta riconosciuti questi diritti e doveri del soggetto, il diritto di essere con e il dovere di provare piacere – il diritto trombo! – tutto il resto è una passeggiata e si tratta solo di capire quale sentiero psichico percorrere quale incastro relazionale è più efficace. Sono cose che la psiche fa spesso e volentieri senza passar necessariamente per la coscienza specie quando questi diritti e doveri sacri sono stati garantiti nella giusta misura durante l’infanzia, dalla famosa madre sufficientemente buona – che ha messo a disposizione un giusto spazio emotivo per le cose e ha anche regalato la materialità dell’efficacia nei gesti del proprio figlio. Per potersi godere la possibilità di spassarsela nel sesso e nell’amore, non bisogna infatti avere sufficientemente saldi i meccanismi dell’affetto e della relazione, ma anche quelli che hanno a che fare con l’esplorazione, con la curiosità con la possibilità di allontanarsi da un centro per avvicinarsi a un altro.

Allora, ci sono quelli per a cui la natura ha dato un corpo per cui essi aderiscono agli stilemi estetici di un certo momento storico per cui, quello è il loro primo trampolino di lancio nel proporsi agli altri, anzi, si industriano pure e per certi versi giustamente a confezionare un prodotto di se che ancor meglio incarni l’allure di maschio alfa ad altra trombabilità: guardami! So alto, so secco, so moro, so bello, ci ho le spalle (un po’) ci ho i bicipiti (un po’) ci ho l’occhiali (cari) e anche l’ariata dell’omo che sa il fatto suo tipo fa li quatrini. So baldanzoso, so umoristico (un po’) so’ intelligente per via de quaa cosa dei quatrini.

Ma ci sono anche quelli, quelli che invece studiava mia nonna senza trovarci il bandolo della matassa, che una volta che hanno riconosciuto  diritto alla relazione, dovere del piacere, e potere dell’esplorazione, coi loro nasoni grossi o zampette corte, con il loro corredo biologico che non combacia con la retorica estetica di un certo momento storico, si avvantaggiano  – assecondando certi loro altri talenti e praticando con successo certi loro itinerari relazionali confacenti al loro carattere.
Per fare un primo esempio. Mi si narrò di un ometto del tipo timido piccolo e tondo, che aveva molte amiche donne e che si lamentava del fatto che a queste donne lui facesse tenerezza. Lo vedevano come un caro orsacchiotto ecco, e non lo consideravano un oggetto desiderabile. Poi però aveva scoperto che questa roba della tenerezza poteva essere il suo cavallo di battaglia e se ne era impossessato in maniera seduttiva. Lo si poteva incontrare con delle magnifiche stangone, oppure sentirlo dire agli amici, questa volta con sorprendente quanto mandrillo entusiasmo: io alle donne faccio tenerezza!
Un secondo esempio che mi è molto caro, per questioni facilmente intuibili per chi mi conosce, è quello del nonno di Amos Oz. Amos Oz in un romanzo racconta che suo nonno era un seduttore incredibile, anche in età avanzata. Non tanto perché fosse bello o elegante. Ma perché lui intervistava le donne, le faceva parlare, voleva sapere cose del loro pensiero e della loro vita, le faceva sentire brillanti e importantissime ne era veramente interessato. Non a tutte le donne piace questa cosa, ma a moltissime si, e può essere la chiave di volta di molti insospettabili successi.

Questi due esempi non sono granché diversi da quelli classici e quasi abusati, quanto altrettanto veritieri degli uomini brutti che seducono in quanto capaci di un carisma intellettuale, oppure in quanto capaci di grande potere nel lavoro e nelle relazioni. Segretamente la sostanza è sempre quella triade dovere/diritto/potere a essere al centro della capacità di seduzione, poi le modalità vanno a seconda dell’organizzazione di personalità. Ma ci sono anche i casi di persone di successo che non riescono a usare l’afrodisiaco del loro successo, o che lo fanno blandamente, nonostante la posizione privilegiata – e che forse conta anche su composizioni caratteriali più frequentemente palesi nelle psicologie di genere e più incoraggiate socialmente, anche se i tempi stanno cambiando. Il potere è l’afrodisiaco maschile cinematograficamente eccellente, per un femminile che sembra essere molto erotizzato dall’alchimia dell’ammirazione.

 

Naturalmente a queste alchimie si associano anche quelle dell’ossessione, dell’ansia, e di quelle forme di continua successione di brevi relazioni che socialmente possono anche essere premiate – ah il maschio alfa che inzuppa il biscotto in diverse colazioni quanto è fico! – quando invece denotano una forma di malessere non riconosciuta come tale esattamente come per le donne, a proposito delle quali invece si parla tanto più volentieri di nevrosi e patologia quando hanno la medesima ossessione. In ogni caso quello che mi interessava contestare è lo stereotipo del successo solo per chi ama diciamo vantare il potere nella relazione, quando hanno successo anche quadri caratteriali che erotizzano saggiamente la cessione del potere.

(E niente è venerdì – divertitevi!)

Corriere clandestino

 

Mia nonna aveva sempre scritto racconti, del cui destino non ho mai avuto contezza. Forse era una di quelle donne con talento per un verso ma di presunzione nociva per un altro, e dunque titolare di quella miscela tirannica che ti fa essere sgradevolmente arrogante in un salotto, ma non umilmente sfacciato con un editore.
Anche se, riesco a dirlo solo adesso, ne avevo letto qualcuno e non mi era piaciuto: arrivava un rapporto limaccioso con l’estetica e il sentimento, una testa ingombra di interrogativi soluzioni e questioni morali, ma ridotte all’osso di una radiografia. Il bianco di quel che si deve fare, contro il nero di tutto il resto.
Un racconto si chiamava: il figlio terrorista.
Mi ricordo.

Poi me ne era arrivato per le mani un altro, poco dopo la sua morte. Era la storia di una giovane partigiana che rischiava la pelle facendo la staffetta e resisteva alle profferte sessuali di un fascista. Non lo ricordo bene a dire il vero, ma di sicuro non mi piacque per la sua spigolosità neanche quello. Forse – ora che ci penso – ci aveva provato a essere sfacciata con gli editori e quelli avevano sentito quel che sentivo io, qualcosa di greve nel tratto, qualcosa di rigido nelle corde del pensare. Eppure aveva tanto tradotto – molti romanzi dal russo.

In ogni caso, mi colpì la protagonista di quel racconto, che temeraria andava in bici per Firenze, e che nel tono puniva te per il tuo stupore – il feroce moralismo di mia nonna – una ragazza agile dal fisico asciutto, e dotata di particolare freddezza e disinvoltura. La rividi come in una sua foto da ventenne, mentre, già inappropriatamente madre, seduta su una panca di peperino guarda chi la fotografava con indicibile noia.
(Indicibile era una parola che amava)

Dopo, era stata una donna bella, una professoressa e una nonna.
Ci aveva portato, a me e mia sorella, sotto il suo coriaceo guscio di tartaruga, vicino alle collane d’osso e alla lunga serie di vestiti che metteva con dispotica vanità. Ma anche vicino alle favole che ci raccontava, anche addosso allo scrigno di un passato che però non abbiamo toccato , anche prossime allo sventolare di certe sue convinzioni, ne vedevamo la sostanziale inettitudine alle relazioni. Non era una donna buona, non era una donna neanche generosa, ma di una limpida e rozza onestà emotiva. Voglio bene a te, tua sorella, tua madre, diceva – E si va bene, anche tuo padre. Poi aggiungeva con orgogliosa franchezza, non voglio bene a nessun altro.
Aveva alcuni amici, un rapporto coi fratelli costretto a una rigorosa superficialità e un grande amore morto quando io ero bambina. Il suo secondo marito, ferreo come lei, ma in qualche parte del corpo di guerrigliero,  più femminile.

Perché di lei ragazza non ho mai saputo niente. Ha ascoltato e seguito con pazienza la mia vita, ed è stata molto per la ragazza che sono stata. Ha saputo tutti i miei baci, e tutti i miei libri. Mi ha messo nella politica e ha cercato di infilarmi, a me molto più sanguigna e appassionata, il suo salubre disincanto in fatto di erotismo. Ha detto le sue cose sagge e ruvide e raccontato poco. Quel poter parlare con lei d’altra parte, avevano reso la sua severità e il suo carisma leggenda e macchietta. Con noi aveva pazienza e gentilezza, perché eravamo piccole e certamente adorate anche da più adulte, ma per il resto del mondo, ai suoi occhi, non c’era riscatto.
Un’aura di prestigio matriarcale emanava dalla sua intollerabile – penso oggi – supponenza. Le erano lecite cose che a qualsiasi vecchia e donna meno vecchia, non sarebbero state permesse. Poteva dare dell’idiota a un primario, e guardare con disprezzo un industriale. Poteva dire qualcosa di terribile, a prescindere dai gradi sulle spalle della giacca.

E’ che mia nonna, era quella del racconto. Oggi e scopro per esempio che in Sicilia, ragazzina aveva organizzato una brigata partigiana. Anche in Toscana, aveva partecipato alla Resistenza – come d’altra parte il suo secondo marito, mio nonno. Non so esattamente cosa abbia fatto, non penso cose veramente sensazionali – rischi voglio dire poco cinematografici e non so quanto sostanziali, forse si, forse no – chi sa. Portare un messaggio, dire delle menzogne, correre o nascondere, credere fermamente a quella cosa della radiografia. 
Ma credo che da questo tipo di caratteri sia stato fatto il nostro 25 aprile.

 

(Ciao Prince)

 

Le ragazzine amavano Prince perché tra tutti era quello che le metteva vicino alla radio e insegnava loro delle cose del sesso e del corpo, le linee di un erotismo bianco di eleganza e di finezze di musica nera, anche se a loro della finezza non importava molto, di certe note che stavano in un semitono, altre che si spezzavano in un ritmo rigoroso, le ragazzine pensavano invece che un maschio più tardi le avrebbe viste con un vestito corto, e lui aveva scritto la canzone giusta. Kiss!

Da grandi avrebbero guardato con tenerezza alla composta perfezione della leggerezza di Prince, alla sua così urbana provocazione, copertine di dischi viola e rosa e bianche piene di fiori, copertine che profumavano senza profumo, un’inedita versione della negritudo sfacciatamente composta, eroticamente decorata, imprenditorialmente e proditoriamente capace di rubare quelle sdolcinate seduzioni della borghesia occidentale.
Prince, gentilmente adagiato su un fianco contornato di fiori rosa.

E certo le ragazzine di allora lo compiangono e lo salutano grate, per averle regalato  un primo bacio,  una sera in discoteca d’estate, o il fatto di pensarsi carine sotto la doccia. Ma chi sa come deve essere doloroso, doverlo salutare, per certi ragazzini neri magari, che 30 anni fa dovevano trovare un nuovo modo di stare tra le sedie dei bianchi, volersi sedere uno si uno no, ragazzini che non avevano voglia di riempirsi di catene e diventare grossi  e scomodi come tori insoddisfatti. Qualcuno avrà detestato questo principe leggiadro, qualcuno deve averlo disprezzato per la sua levità, ma in un modo tutto suo, ritratto, umoristico, volendo molto superficiale, ha indicato una strada un modo, un compromesso, un successo, un “anche io”, prima impensabile.

Sulla schizofrenia

 

Questo post comincia con una storia molto bella narrata una volta da una mia amica psicoanalista ed è la storia di un punto interrogativo.
Oramai molto tempo fa, la mia amica si trovava ad accompagnare in gita un gruppo di pazienti – con diagnosi piuttosto solide, come schizofrenia per intenderci, a vedere le bellezze artistiche della nostra città, accompagnati da una storica dell’arte che forniva molte spiegazioni e delucidazioni. Li portava per Chiese, li portava per statue li portava per quadri e quindi  li portava per tutta una sequela di Cristi Morenti, Madonne pietose, illuminazioni divine – e, naturalmente molti molti molti santi.
Allora una signora in gita, si avvicinò alla mia collega, e le disse: – Scusi
, ma perché quella vede la Madonna e le fanno una statua, io vedo la Madonna e me danno le pasticche?
Quanno se dice – non fa na’ piega.

L’aneddoto mi pare prezioso, perché parrebbe che non ha una risposta decente, e invece in realtà ce l’ha, e trovarla e capire cosa sia realmente la psicoterapia è un tutt’uno. Nel primo momento in cui uno sente la domanda, cadono in testa principalmente due risposte possibili – quella che cercherebbe di istituire una differenza di categoria esistenziale tra la donna schizofrenica e la santa – onde proteggere la prosecuzione della cura farmacologica e non, e farle intendere che sta sottovalutando i propri problemi, e quella che invece annullerebbe la differenza onde premiare l’esame di realtà della paziente magari mettendo in scacco la cura farmacologica, e non solo quella. Ma le due risposte alla domanda sono molto pregnanti perché coinvolgono il modo di pensare il paziente psichiatrico, e la griglia di categorie mentali con cui la cultura, e il nostro veicolo privilegiato la tassonomia psichiatrica, pensa il soggetto in cura. La domanda porta infatti alla coscienza di due ordini ideologici diversi, accomunati da un valore positivo condiviso, che legittima entrambi, è che è una ragione in più per mettere la Dottoressa all’angolo. Siamo cattoliche tutte e due Dottoressa. Tutte e due, decidiamo che la Madonna fece un figlio senza aver avuto rapporti sessuali. Tutte e due dottoressa afferiamo a un mondo ideologico di miracoli e di salto nella fede. Allora, perché dottoressa se quella salta nella fede è santa, e se lo faccio io sono pazza? Dove è l’errore?

Forse dottoressa, era pazza anche la santa in questione?
 O forse sono io che sono una santa, e non l’ha capito nessuno?
E noi potremmo aggiungere:
E se la santa era pazza, forse anche la religione è una follia
O, se io sono una santa, e voi mi impasticcate la psichiatria è una religione.
Non se ne esce facilmente, men che mai, decidendo che bisogna avere consapevolezza della relativizzazione storica, del fatto che la nostra è una cultura medicalizzata mentre quella di prima non lo era, che la nostra è una cultura che punisce e ingabbia l’elemento eversivo mentre questo prima non accadeva. Queste cose sono carine parzialmente condivisibili, ma non bastano, e sono anche riduttive, perché la società non è così monolitica e ci sono larghe o strette aree di essa – che da sempre variano con gli ondeggiamenti della storia, ma che non spariscono mai – abbastanza articolate da saper digerire l’eversione sofisticata. In ogni caso, non se ne esce tenendo la base dello sguardo sul contesto sociale e sulla sua reazione, sul giudizio di appropriatezza e di inappropriatezza del comportamento.

Ossia, la tentazione della spiegazione facile:
Alla santa fanno la statua perché all’epoca la visione era un comportamento appropriato, mentre oggi ti danno le pasticche perché la visione è inappropriata e perciò penalizzata.Cioè si finisce col pensare che la cura – sia essa farmacologica che psicologica – sia un mezzo per adattare qualcosa di diseguale, a qualcosa di uguale.

In questo corto circuito tutto ideologico, c’è un fraintendimento di fondo sulla questione del malessere psichico. Del quale si coglie sempre la disomogeneità rispetto al canone, ritenendo che l’eventuale sofferenza, posto che ci sia, sia da imputare alla disomogeneità. Dire alla paziente che lei è come la santa, ci fa sentire a noi persone perbenino dell’era post Basaglia, di molto più fichi, e aperti di vedute, ci regala una solidarietà magnifica e una grande lungimiranza, proteggendoci simultaneamente dall’assumere la responsabilità di capire esattamente a cosa combacia l’esistenza di quella donna e di prendere atto del suo eventuale bisogno di aiuto. Ci viene incontro un profluvio di retorica e di banalizzazione, che epura la schizofrenia dal dolore, dalla difficoltà, dall’esperienza non di rado tragica di avere dei sentimenti senza che ci siano le parole, di avere delle parole che dicono delle cose diverse dei sentimenti, dalla difficoltà di scavalcare lo spinoso muro della comunicazione.
Ella sta sotto un ponte a parlare da sola? Eh ma è libera eh!
Oh – e come mai nce stai te stamattina a fare conferenze sotto un ponte?
Oh e come mai, se lo facesse mamma tua, non saresti tanto d’accordo?

 

La vera questione è che la nostra Paziente non è una santa, che tra quella signora e quella santa c’è un abisso e l’abisso sta nella forza necessaria a sostenere il peso di una narrazione.

La vera questione è dunque che la signora non è curata per via delle allucinazioni. La nostra signora è curata per un problema di linguaggio, e l’uso che ella fa delle allucinazioni è il sintomo di questo problema.
Sicché, la nostra dottoressa avrebbe potuto anche rispondere.
A parer mio, non prendi le pasticche per le visioni. Non sei curata a causa delle visioni.

La mia idea delle allucinazioni e dei deliri, è che esse sono scorciatoie che la psiche adotta per comunicare delle vicende sue, in un regime di economia e di risparmio. L’allucinazione è la parola di un animo in inverno, senza tanta legna per il camino, che deve sopravvivere a una vita che pare tutta di notte. Gli altri – con le loro case illuminate, piene di volti che sorridono, di candele accese di profumi di cose buone, possono permettersi di far passare alla parola psichica i numerosi trattamenti che la fanno diventare pensiero. Gli altri, i ricchi di amore e di strumenti, possono cucinare i sentimenti per ore e per ore, fino a farne un buon sugo, una gustosa crema, un dolce raffinato. L’allucinazione è invece un piatto tiepido, l’immagine a mala pena scaldata su un tegame, e subito servita su un piatto. Cruda, indigesta, neanche si riesce a tagliare. E siccome è così cruda e indigesta, continua a girare e a riproporsi nella stanza vuota e buia dell’inverno psichico, senza dare il tempo di fare niente. Senza dare il tempo di trovare una soluzione. Senza che si riesca a digerirla.

Il problema non è il bisogno della parola psichica, il problema non è mai il testo. Il problema è che non c’è una narrazione che lo renda vitale, linfatico, comunicativo, vivo.

Quello che doveva rispondere la dottoressa – è che in realtà la signora non era esattamente la santa, perché la santa come quella statua dimostrava, aveva trasformato l’orrendo piatto indigesto in narrazione, aveva elaborato l’immagine che essa stessa aveva avuto prima fredda e pericolosa, aveva conferito un senso. Non gli altri per lei, ma lei da se. Quando si costruiscono i significati piano piano il dolore si scioglie, ecco il senso della psicoterapia. Ossia – il senso è in un certo modo: non trasformare il dato eversivo nell’oggettività del senso comune, ma nella soggettività dell’arte.

Perciò, la vera questione, non è tanto fare una scuola di dizione – che però bisogna dire in più di un caso ha la sua ineliminabile utilità – la vera questione è riscaldare la casa al punto tale, per cui elaborare significati torni ad essere possibile. Una buona psicoterapia lavora sul clima interno della psiche, prima ancora che sulle cose che in quel clima vengono prodotte. Lavora perché il clima diventi caldo e ospitale, che il se stesso segreto diventi un porto talmente sicuro, da poter fare delle incursioni fuori nella neve, e prendere altra legna, portarla dentro bruciarla e cucinare. Poi si può vedere insieme cosa cucinare e come e quali cose vengono meglio e quali peggio. Questa cosa del clima psichico, e di quante cose permette di fare il clima psichico, poi i clinici lo traducono in forza e debolezza dell’io.

 

11. Non esistere!

Mi si chiede qualche riflessione sulla reazione collettiva alla vicenda di Doina Mattei. Non ho molto tempo ma mi ci spendo, perché comincio a considerare queste nuove ondate emotive e verbalizzate nella rete, che giudicano e si esprimono e sanzionano e digeriscono, un nuovo oggetto culturale, un ente terzo che alle volte si affianca alla stampa, alle volte  – per certe patologie dell’industria culturale nostrana, ci si sovrappone. Un oggetto così potente da essere condizionante.

La vicenda è semplice e poco rilevante. Una giovane donna nel corso di una lite in metropolitana uccide un’altra donna e per questo viene processata e messa in carcere. Si fa nove anni di pena e poi probabilmente grazie a una buona condotta ottiene un regime di semilibertà – per cui se ne va al mare, e si fa una foto al mare mentre contenta si prende il sole.
Deve essere bello per Doina ritrovare tutto quel cielo sulla testa, tutta quell’acqua, neanche fa tanto caldo, un sacco di mondo per se anche se a orario contingentato. Deve essere bello ritrovare i piaceri perduti, la giovinezza schiacciata all’improvviso. Si fa una foto Doina, e celebra l’evento. La sua vita conta più di tutto, e il suo tempo e la sua aria. Quella cosa che è successa all’improvviso tanto tempo fa, la deve aver travolta in una vita impensata. Una cosa, l’omicidio, il crimine, il sangue,  che deve esserle venuta da certi recessi interni non so quanto noti a se stessa – forse si, forse no. Ma proprio per il carattere improvviso di quell’evento, viene da pensare che Doina debba aver convissuto a lungo con il tragico. Con l’epico. Non sappiamo quanto lo abbia guardato, come, con che profondità. Possiamo essere persino piuttosto scettici considerando lo stato in cui versano le carceri italiane in merito all’assistenza psicologica, e al concetto piuttosto arcaico di rieducazione. Possiamo anche sospettare che, proprio la struttura psichica di Doina chi sa se glielo ha fatto vedere. Non sappiamo niente.
Di lei ci siamo dimenticati, come del resto della vittima. La sua vita è uscita dal campo della vita.

Poi è riemersa all’improvviso, con un gesto banale che più banale non si può.
Quanti mascalzoni sono usciti dal gabbio e si sono fatti immortalare – io credo che il cielo non li conti. Non si contano i gelati umani troppo umani dell’evo analogico che ex detenuti si sono mangiati, e cinema pomeridiani e certo foto su foto private, la cui spavalderia non martoriava nessuno. Quante birre alla faccia di chi ti vuol morto, di chi non ti fa sbagliare, di chi sta dall’altra parte, di chi sospira vendette seduto in poltrona. Le doine, e gli assassini e i ladri tutti avranno sempre rispetto e dolore per le vittime, se non tutti in massima parte, ma c’è un mondo di gente che non vive e che non conosce il mondo a sua volta che gioca con la tua fine, che si fa bello della tua estinzione. Alla faccia di questi brindano le Doine tutte e qualche volta viene da capirle.

Siamo disabituati all’umano. Ci confezioniamo un umano estetico corretto e desiderabile, che espii per noi le nostre colpe e arrivi alle perfezioni morali di cui non saremmo capaci. Un tempo eravamo più addestrati all’imperfezione e al dolore, non c’era internet, non c’era però neanche la psichiatria, la pedagogia, i servizi sociali, la medicina il sindacato e tutte quelle strategie che ci siamo inventati per sopravvivere al nostro umano troppo umano. E Doina che sorrideva la trovavamo in un film neorealista e con una bestemmia ce la saremmo cavati.

Ora l’umano invece non ha più pudore, è quel che è sempre stato con il posto che ha sempre avuto, ma noi ora che lo vediamo,  siamo qui a chiedergli continui riscatti e perfezioni: anzi,  quello si pone in tutta la sua realtà e sempre più gli chiediamo invece di sottrarsi, fino all’assenza. Doina infatti non sbaglia perchè sorride. Se avesse scritto che era triste  e pentita, quel classista di Gramellini avrebbe taciuto?  No, avrebbe sbagliato perché avrebbe mostrato. Se la si fosse fotografata a camminare diretta verso un lavoro socialmente utile, non l’avrebbero attaccata? No l’avrebbero attaccata per l’essere fuori, visibile, esistente, e non nell’ombra, nella rimozione, nel non esistente del carcere.
Se questo è il bisogno, a nulla valgono le reiterate e giuste requisitorie sullo stato di diritto, sui tempi della condanna e del reinserimento sociale. Per l’ombra non deve esserci integrazione, ma solo rimozione.
Certo poi occorrerà non lamentarsi.

 

Un post junghiano. Sull’Ombra

 

Tra le tante retoriche collettive che circolano intorno alla costellazione società – benessere – malessere – psicologia, ci si imbatte a ritmo regolare nella teoria secondo cui: la nostra società è malata e in verità a denunciare un sintomo sono persone che starebbero benissimo, e proprio perché sono sane con valori sani e risorse sane si troverebbero a disagio in una contestualità malata –  ed è per questo che soffrirebbero. Questo tipo di retorica è spesso a fondamento per esempio delle organizzazioni settarie, o di certi gruppi che hanno una connotazione ambivalente, oppure che si connotano per la gestione delle dipendenze. E’ una retorica per esempio che ritorna frequentemente all’interno dell’alcolisti anonimi, ed è una concezione che reiteratamente ritorna nei gruppi di associazioni che si occupano di droga.
In quei contesti la giustificazione reale deriva anche dal fatto che spesso è il gruppo sociale a rafforzare il sintomo di cui le persone cercano di liberarsi.

 

Questo tipo di retorica ha anche antesignani illustri tra gli psicologi di ispirazione marxista – vedi l’asse Reich Marcuse –  e ancora oggi qualche collega la condivide: recentemente su Facebook ha avuto molte condivisioni un post di una psicologa, secondo cui andrebbero in terapia spesso persone sane e creative, portatrici di valori salubri ma minoritari, in difficoltà per il fatto di essere sane in una società malata – dominata dalla sopraffazione e dalla concorrenza. Me lo ha segnalato l’amica e giornalista Antonella Viale sentendosi disturbata da qualcosa che non le tornava ma non sapendo esattamente però che cosa. Secondo l’articolo infatti, farebbero richiesta di terapia persone che non avrebbero particolari problematiche, ma che anzi starebbero anche bene, avrebbero tante risorse, e nessuno dei difetti che invece apparterrebbero al nostro contesto culturale: non sarebbero competitive, non sarebbero arriviste, non sarebbero in contatto con valori di maggioranza. Non cito la fonte perché non è importantissimo e dopo tutto si tratta di un testo molto informale – lo riprendo perché risponde appunto a questo pensiero diffuso: i malati siamo noi! Cantava infatti Gaber già un tempo, pervaso da certi davvero ottimi sentimenti per cui l’ho sempre ascoltato con sospetto.
Ora io ho una stima fortissima dei miei pazienti e dei pazienti tutti, non tanto perché siano persone più sane e creative di altre, in verità ve ne è di più sane e di meno sane, di più creative e di meno creative, così come ci sono pazienti che sono molto competitivi e coesi con certi assetti valoriali dominanti e pazienti che non lo sono affatto, ma ecco sono persone che pensano di decostruire la propria storia e di rimetterla in gioco, di rinunciare a delle sicurezze per rivedere il proprio modo di parlare e di camminare, e questo è per me molto coraggioso. Per il resto, banalmente, continuo a pensare che se non ci fosse stato un problema non avrebbero fatto richiesta di una terapia e se fanno richiesta di terapia è perché per me interpretano correttamente, cioè come area problematica che va analizzata, la loro difficoltà a raggiungere i propri scopi nel proprio contesto.

 

Proprio in questi giorni facevo infatti una considerazione particolarmente amara, in merito alla salute psichica degli individui. Consideravo infatti che un individuo mediamente sano, psicologicamente parlando, ha la strumentazione di bordo sufficiente per adattarsi alle peggiori circostanze. Quella considerazione mi riusciva particolarmente pessimista perché vi trovavo la chiave di volta quanto del successo della nostra specie, quanto la garanzia della sua estinzione: la nostra incredibile capacità adattiva ci ha infatti resi capaci di resistere a circostanze avverse di vario ordine e grado, facendoci vincere sulle altre specie, ma ci rende anche singolarmente capaci di adattarci alle condizioni di disagio che noi stessi produciamo. Questa capacità adattiva non passa solo attraverso il reperimento di riserve intellettuali ed emotive per arrangiarsi in una situazione che non ci piace affatto, ma temo che più spesso di quanto crediamo passi dalla categorizzazione di una modesta preoccupazione e di un modesto disagio a proposito di circostanze che per noi non siano immediatamente pericolose. Non a caso, la lungimiranza è un pregio degli intelligenti e degli eletti, non di tutti, l’intolleranza al sopruso con la reazione di conseguenza scelta di certi tipi di persone più irruente e attive di altre. (Basti vedere le reazioni di tranquilla perplessità quando va bene di fronte alle spaventose variazioni climatiche a cui stiamo assistendo).

Tutte queste riflessioni si sono andate a sovrapporre a certe letture che stavo facendo, ossia gli Studi sull’Ombra di Trevi e Romano.
L’Ombra è un concetto junghiano poetico e suggestivo, con il quale si va a designare, su un doppio livello se non triplo (archetipo, figura archetipica e fenomenologia, ma noi per semplicità archetipo e figura archetipica li mettiamo insieme) quanto della nostra personalità individuale e collettiva non accettiamo volentieri come nostro, e unitariamente quanto di nostro rimane nell’oscuro nel non visto e quindi viene percepito come minaccioso. Nel cono dell’ombra quindi mettiamo sia questioni sgradevoli e antipatiche della nostra personalità, sia suggestioni spaventose e angoscianti. Il doppio livello riguarda in un primo luogo, fenomeni d’ombra ossia comportamenti episodi e quant’altro riguardi il non accettato e disturbante, in secondo luogo le strutture psichiche e cognitive che presiedono a quei fenomeni, strutture che gli junghiani organizzano con il lemma di figure archetipiche, ma che hanno anche tante interessanti esemplificazioni nei paradigmi teorici di altre scuole. Per esempio una buona traduzione postfreudiana del concetto d’ombra nei suoi due livelli sono i meccanismi difensivi di proiezione, scissione e identificazione proiettiva – come organizzazioni dinamiche dell’Ombra, mentre i contenuti che manipolano sono gli aspetti d’ombra fenomenologicamente parlando. Tradotto in termini pratici: le persone petulanti e aggressive avranno la loro Ombra in altre persone che descriveranno come petulanti e aggressive per esempio, perché proiettano addosso ad altri aspetti di se che non vogliono vedere di se, mentre altre persone che avrebbero desiderio di vivere la propria aggressività provocheranno la rabbia in altri per poterla controllare tramite l’identificazione proiettiva – pur proponendosi come persone apparentemente pacifiche.

 

L’ombra dunque è il lemma junghiano del negativo, con tutte le implicazioni filosofiche del caso: come assenza di luce che connota la luce, come confine opaco che conferisce spessore e tridimensionalità all’esperienza, e quindi sul piano individuale come funzione logica della tridimensionalità di una soggettività: presuppone una posizione filosofica al problema del male istituendolo come necessità logica, come elemento la cui presenza serve a connaturare l’identità e la storia di gruppi come di soggetti. Il che naturalmente non vuol dire, che tutto quello che si identifica con l’ombra sia cosa buona e giusta, ma che un sano processo di individuazione in solitaria o dento una stanza d’analisi implichi l’acquisizione di aspetti d’ombra di se, e l’iscrizione di questi aspetti nella propria storia – con tutte le implicazioni del caso.

 

Quella retorica condivisa di cui allora parlavo all’inizio del post rappresenta uno dei possibili problemi che si incontrano nel maneggiare la fenomenologia dell’Ombra. Quella retorica spera di risolvere il problema di peso del negativo e dell’unheimlich togliendolo dall’individuo e spostandolo sul gruppo sociale, facendo quindi lo stesso errore speculare e inverso di quelli che demonizzano in maniera manichea e irriflessiva chi diviene oggetto di una diagnosi o di una sanzione legale come altro da se, come capro espiatorio della propria purezza. E’ un manovra tranquillizzante, seducente,  quanto vana perché qualsiasi sintassi si adotti – legale, estetica, psicoanalitica, medica, l’ombra è connaturata al nostro destino di esseri psicologicamente storicizzati, e negarlo non fa che peggiorare le cose, mettendoci sulla strada della psicopatologia – sociale o individuale che sia.  Per fare un altro esempio limitrofo alla clinica ma al centro della percezione medica ed estetica: il ricorso continuo e ossessivo alla chirurgia plastica è un parossistico tentativo di combattere una guerra senza fine contro l’Ombra della vecchiaia, con tutta l’ombrosa semantica di fine, di perdita di fulgore e di potenza, di tramonto della fertilità e della vitalità che comporta.

 

Tecnicamente e orientativamente i rischi estremi riguardano, o la completa identificazione con l’ombra, o la mancata integrazione con l’ombra. Quando si ha a che fare con gesti criminali di vario ordine e grado, Trevi e Romano parlano di identificazione con l’ombra ossia, di un completo schiacciamento di se su certi aspetti deteriori della personalità. Da un certo punto di vista anche certi vissuti legati all’esperienza psicotica possono essere interpretati come una sorta di prigionia nell’ombra, un dominio dell’esperienza simbolica inconscia che rende prigionieri, con contenuti costantemente provenienti dai sotterranei della soglia di coscienza senza la mediazione apollinea della coscienza, così come gravi forme di dissociazione – esito di esperienze traumatiche e di abusi -possono essere lette come espulsione degli aspetti d’ombra della propria storia e della propria psiche che catalizzano attorno a se ricordi vissuti e anche modalità relazionali per cui possono presiedere anche a stilemi di personalità diversi. Le varie storie di personalità multiple – Dottor Jeckyll e Mister Hide! – sono storie di una personalità apollinea che non entra in contatto con una seconda personalità dionisiaca e dissociata e l’integrazione – problema piuttosto serio che merita un trattamento serio – è rinviata. Anche in quell’esempio medico ed estetico di cui sopra ci sono possibilità di schiacciamento identitario sull’Ombra: persone che si lasciano andare precocemente, che abdicano a qualsiasi cura di se, e che non si curano del proprio corpo neanche secondo un profilo medico, che corrono come dire anticipatamente verso la morte.

 

Seconda possibilità di stampo più probabilmente nevrotico ma non per questo libera da problemi e sofferenze, è la scotomizzazione dell’Ombra: la difficoltà cioè di riconoscersi aspetti negativi, deteriori, brutti, dolorosi, bui, scomodi e lo sforzo di abitare solo un’immagine positiva di se nonché controllabile, della propria vita delle proprie relazioni e della propria identità – l’apollineo ha il consistente vantaggio di suonare prevedibile, nella sua struttura c’è l’estetica della finitezza. Questo tipo di organizzazione psichica, squisitamente nevrotica, rende le persone poco interessanti alla relazione perché bidimensionali, nascoste, decolorate, e le rende a loro volta inadeguate a molte sfide esistenziali, sottoposte a delusioni che fanno fatica a integrare, e allo stesso tempo sotto il fuoco incrociato di tutto quanto è rimosso e preme sotto la soglia dell’inconscio. Molti sintomi sono il rimosso di aspetti di se e della propria storia che bussano fastidiosamente per essere integrati dalla coscienza mentre la coscienza li rimanda indietro per non sporcare un immagine di se forte sul piano narcisistico. Per fare un altro esempio narrativamente efficace di questo tipo psichico la magnifica Brix di Desperate Howswifes incarnava perfettamente una declinazione di questo assetto psichico. Per fare un esempio clinico eclatatante spesso un modo efficace dell’inconscio di cercare di intrudere nella coscienza aspetti d’Ombra rimossi, sono gli attacchi di panico.

 

La questione diventa dunque per i gruppi sociali come per le psicologie individuali, evitare di applicare meccanismi difensivi arcaici e integrare gli aspetti d’ombra che possono presiedere a delle funzioni sane, e la cui esistenza può essere spiegata alla luce della storia culturale e psichica di ognuno, senza dividere troppo facilmente in buoni di qui cattivi di li, belli di vi brutti di la, morali e immorali e quant’altro. Capire le ragioni e incanalare le funzioni che assumono i tratti oscuri della personalità e dei gruppi sociali è senz’altro più adattivo che demonizzarli – proiettando su su questa o quella ideologia culturale l’antipatico ruolo del Demonio, e tenendosi per se quello ancora più infido e pericoloso della Salvezza.

 

Note su altre diagnosi

 

Tra le tante cose che hanno preso forma nel novecento e sono diventate struttura riconoscibile, lessico e metafora, ci sono senza dubbio la psicologia e la psichiatria – e forse possiamo addirittura dire, la psicologia dinamica come disciplina che vede una sorta di convergenza possibile tra le due. Il ventesimo infatti – è stato il secolo in cui non solo hanno visto prendere forma e fama diagnosi storiche come la depressione e la schizofrenia, ma che ha anche dato anche i natali ad altre etichette più sofisticate e recenti, come tutte le diagnosi dello spettro bipolare, e tutte quelle della grande famiglia dei disturbi di personalità, invenzione utile quanto squisitamente novecentesca – in particolare il disturbo borderline di personalità. Questo oggi vuol dire da una parte che queste parole vengono usate nel linguaggio comune, in una sorta di forma ambigua e ibridata per alludere a qualcosa un po’ di clinico un po’ di metaforico sebbene con riferimento a qualcosa di non veramente chiaro, da un’altra invece si correla al contatto diretto con certe diagnosi che cominciano a essere pronunciate nelle terapie, e in qualche caso, riportate in contesti collettivi come la scuola per esempio oppure gli ambiti di lavoro. Siccome sono diagnosi che in diversi casi possono garantire un discreto funzionamento sociale, nonostante implichino livelli di sofferenza drammaticamente alti, suscitano spesso una certa incredulità e l’opinione pubblica rimane perplessa. Tutti questi nuovi casi, sono casi veri? Oppure si sta inventando qualcosa che prima non c’era?

Come per la depressione, il primo modo per far ordine è riconsiderare la questione da un punto di vista linguistico. Noi usiamo certe parole come se alludessero a grandezze molari, la schizofrenia, il disturbo bipolare, il disturbo borderline, l’autismo. Queste grandezze molari corrispondono a sorte di idee platoniche di questo o quel modo di fare: per cui lo schizofrenico è uno che delira e fa il pazzerello, il bipolare è uno che un giorno è triste e uno è allegro, il disturbo borderline di personalità credo che afferisca a un che di vagamente stralunato non meglio precisato, e l’autistico è uno che sta tutto solo e non si allaccia le scarpe. Di conseguenza, quando capita di scontrarsi con queste diagnosi – per esempio una persona la confida ad un’altra riferendosi a un proprio caro, oppure in un pubblico istituto arriva un certificato medico che vi allude per esempio a proposito di uno studente – non sono poche le volte in cui si reagisce con sorpresa: chi si ha davanti infatti si discosta dall’idea che si ha in testa rispetto a quella diagnosi.
Questo accade anche per diverse questioni che forse può essere utile mettere in luce.

 

In primo luogo: il mondo comune usa una sola parola con l’articolo determinativo nella convinzione che esista un solo modo di incarnare quella diagnosi. I clinici però parlano più volentieri di spettro “spettro depressivo” come si è visto per la depressione, “spettro ansioso” “spettro autistico” oppure “area” perché ci sono insomma anche solo psichiatricamente tanti tipi diversi di disturbo per ogni diagnosi, ci sono proprio diverse diagnosi. Per riferirci al disturbo bipolare per esempio, ci sono almeno – la ciclotimia, il disturbo bipolare di secondo tipo e quello di primo tipo. Al grado lieve possono corrispondere alternanze del tono dell’umore significative, accelerazioni e decelerazioni – ma i disturbi bipolari di tipo florido arrivano ad alternare stati depressivi persino catatonici ad accelerazioni spaventose che possono procurare allucinazioni. Non sempre per altro vissute sotto l’egida dell’allegria e del buon umore ma spesso nel turbinio di una agitazione angosciata e molto dolorosa – che può essere anche pericolosa per se.   Non è raro per esempio il caso di pazienti che con forme gravi, quando sentono arrivare il picco maniacale chiedono un ricovero per proteggersi.

 

In secondo luogo, nell’immaginario collettivo le diagnosi importanti conducono invariabilmente a malfunzionamento cognitivo e costante disperazione, e questi elementi devono essere invariati e continuativi, se no la diagnosi non è credibile. Perché uno abbia una diagnosi, qualsiasi diagnosi cioè deve stare sempre malissimo ed essere sempre molto incongruo, entrambe le cose poi in modo immediatamente percepibile. Invece il fatto è che sia il malessere che le eventuali incongruenze – che possono starci quanto nei disturbi bipolari quanto in quelli di spettro borderline – non sono grandezze molari e sono fortemente collegate ai contesti relazionali. Moltissimi stati di malessere per esempio conservano una sorta di funzionamento alle volte totalmente inconsapevole, di carattere prestazionale; per cui è tutt’altro che infrequente il caso in cui non solo un certo comportamento disfunzionale o sintomo di uno stato di sofferenza, non emerga in contesti relativamente poco familiari, ma può capitare che venga mascherato o contenuto con persone a cui si vuole bene e di cui si teme il giudizio. Un uomo molto sofferente per esempio può essere terribilmente pesante con la moglie – anche perché nella relazione con lei si verifica un gioco di incastri di patologie – ed essere molto charming con la figlia di fronte alla quale consapevolmente o meno ci tiene a mantenere un immagine di se più integra. Naturalmente più certe patologie sono avanzate, più scarseggiano le risorse e le capacità di resilienza più si contaminano tutti gli ambiti relazionali e i modi di comportarsi risultano omogeneamente sintomatici. Ma credere che solo perché un sintomo non sia immediatamente percepibile nella nostra relazione allora sia un sintomo inventato – è molto ingenuo.

 

In terzo luogo, nel lessico condiviso è filtrato un uso psichiatrico delle etichette diagnostiche, mentre è ancora piuttosto deficitaria una lettura psicodinamica degli stati di malessere. Il criterio psichiatrico tende a fornire degli schemi di riferimento basati su ricorrenze, sul calco del modello medico tradizionale. Un modello insomma si suol dire, nomotetico. Basato cioè su leggi, fenomenologie ricorrenti. E’ un modello che quindi fa pernio sull’osservazione delle somiglianze, e che crea raggruppamenti e che quindi facilita un po’ quell’approccio collettivo alla psicopatologia che incarna certe diagnosi in forme generiche – anche perché fa riferimento a una lettura biologica del corpo, che trascura un po’ l’impatto che l’ambiente ha sulla stessa biologia del cervello. Invece per quanto possa essere una banalità, le persone sono molto diverse l’una dall’altra, le loro modalità di adattamento e di disadattamento sono estremamente soggettive, e per questo sono solo blandamente assimilabili. Se l’etichetta diagnostica è per esempio utile ai clinici di diversa formazione per comunicare l’un con altro, oppure per ottenere delle informazioni di massima sulle terapie al loro decollo, in verità all’interno della psicoterapia è fondamentalmente inutile. Una parte consistente della psicoterapia sarà piuttosto orientata a capire la funzione che quel certo comportamento ha nell’economia della persona – e queste funzioni possono essere molto molto diverse da caso a caso, ed essere usate in maniera molto molto diversa. La considerazione di questo crea quello che per molti è l’area di comunicazione problematica tra psichiatri (vecchio stampo) e psicoterapeuti: perché la diagnosi è il gruppo di sintomi con cui si identifica il problema, mentre per gli psicoterapeuti la diagnosi non è proprio niente, è anzi cioè la soluzione al problema che sta nella storia.

 

Questo spiega quel senso di parziale straniamento che capita quando si viene in contatto con una diagnosi, quel senso di perplessità e di mancata corrispondenza. Il paziente a cui la diagnosi si riferisce non risponde al nostro immaginario, e noi veniamo ancora da un mondo in cui quelle diagnosi non c’erano. Non è però che non esistessero quei comportamenti o quei malesseri, non avevano un nome a indicarli. Ora che c’è il nome si comincia a usarlo e a creare dunque quella sorta di illusione ottica, dell’emergere di un fenomeno.
Il che naturalmente non è che non implichi una sorta di moda delle diagnosi, un innamoramento dell’opinione pubblica di qualcosa che prima non c’era e ora arriva nuovo e rifulgente. Ma credo che prima di tutto ci sia questo tipo di problema. La reazione collettiva all’ingresso di una nuova prospettiva e le sue complicate regole.

Note sulla depressione

Ci sono parole che nell’incrocio tra pubblico e privato, tra gergo tecnico e linguaggio comune vengono usate con grande disinvoltura, dilatate fino al collasso, abusate fino a una sorta di rottura interna che provoca alla fine – un’ineluttabile emorragia di significato. In psicologia dinamica e psichiatria, si può trattare di parole come narcisismo, oppure di termini come complesso, o di formule come oggetto transizionale. Spesso magari, la causa sta nella dilatazione di questa o quella teoria come chiave di lettura fascinosa quanto facilitata della realtà, altre invece l’abuso di una parola che proviene dal gergo psichiatrico, risponde a un iniziale desiderio di qualificare in modo più preciso una certa situazione, senza fare però lo sforzo di capire esattamente di cosa si sta parlando, e utilizzando la stessa parola, per un numero tale di situazioni da toglierle quella connotazione precisa, descientificizzarla e giocare non di rado su un’ambiguità che non restituisce nessun favore.
E’ il caso della depressione per esempio, in particolare per come è trattata ed evocata sui media, ma anche per come ne parliamo comunemente. Ha sgozzato la moglie era depresso. S’è lasciata col marito? E’ depressa, Ah che depressione stasera mamma mia, soffriva di depressione, quanto sei depresso!

La depressione sembra essere una forma di tristezza molto forte che certe volte ci vai all’ospedale e certe invece ti annoi solo, certe volte te la risolvi scannando qualcuno. In ogni caso, è una condizione di grande tristezza, e patema, e averci a che fare con il depresso pare essere fonte di sventura.

Per capirci qualcosa, propongo di tornare alle regioni da cui la parola viene presa in prestito nel senso comune, e capire come viene usata da psicologi e psichiatri e individuando subito due usi diversi afferenti a significati relativamente diversi.
C’è un primo uso, classico e preciso, per cui depresso è un soggetto che ha un tono dell’umore molto triste se non tetro, che non ha voglia di fare molte cose, che non sembra provare reazioni forti né in un senso né in un altro, che ha uno sguardo fortemente pessimista su tutte le cose che indaga e di cui prova a occuparsi. Quando la depressione è molto grave provoca una sostanziale incapacità di agire, e uno stato psicologico penoso che si avvicina alla disperazione. La condizione è biologica, ha spesso una matrice genetica ormai assodata dalla ricerca scientifica, e se ha delle cause esterne a strutturarla o a diciamo solidificarla, sono cause profonde, antiche e importanti – non singoli traumi ma esperienze altamente formative della prima infanzia: per capirci, una persona molto depressa che fa un figlio in primo luogo può trasmettere un assetto genetico che rende il figlio vulnerabile alla depressione, ma in aggiunta è un genitore depresso che espone il figlio alla propria depressione, per esempio non ascoltandolo, per esempio non accogliendolo, per esempio costringendolo a essergli da genitore a sua volta. In ogni caso, una depressione grave non ha cause reali in occasioni di vita anche importanti. Una depressione grave può essere risvegliata invece, da una di queste cause.
In secondo luogo – in riferimento a questa prima definizione clinica del fenomeno, quando sui giornali trovate scritto che certo tizio ha ammazzato moglie e bambini – oppure una colf poi decapitandola, perché soffriva di depressione, state leggendo una bestialità. La depressione da sola non ti fa ammazzare proprio nessuno – escluso, purtroppo chi ne soffre, ossia c’è un discreto rischio suicidario– anzi la depressione ti porta proprio lontano dal fare una cosa del genere, essa nasce prima di tutto come patologia del tono dell’umore, anche se facilmente si accompagna ad altre diagnosi: le persone che hanno un problema psichiatrico consistente, per esempio, nello spettro dei disturbi di personalità hanno, poveracce, degli ottimi motivi per essere anche depresse – ma quando compiono dei crimini efferati, più che mai nei confronti di persone molto importanti della propria vita – c’è qualcosa che non va nei loro processi logici, nel loro modo di gestire mentalmente ed emotivamente gli oggetti importanti della loro vita, non nel tono dell’umore con cui pensano alle cose. La moda di chiamare in causa la depressione sui mass media quando si parla di crimini di varia natura, è un falso richiamo alla psicopatologia, per far spacciare come competente la persona che scrive, ma che dimostra ipso facto che la competenza è assolutamente lontana, e che comporta alla fine, un sostanziale misconoscimento delle discipline psicologiche.

Questa prima accezione della depressione, in ogni caso, si adatta più specificatamente agli adulti, e bisogna stare molto in guardia quando comportamenti simili si verificano durante l’infanzia. Nell’adolescenza infatti sono quasi normali, e fanno parte dell’armamentario con cui si affronta psicologicamente l’oneroso processo della trasformazione, anzi, vista da una certa prospettiva, il comportamento depressivo che tanto spesso si riscontra nei ragazzi giovani, è una sorta di conquista, un’occupazione emotiva dell’esperienza del pensiero, del negativo, del malinconico, è una tristezza che se anche travagliata entro certi limiti rappresenta un passaggio sano, e che testimonia l’ingresso di una auspicabile quanto necessaria capacità digestiva del lutto – nel caso specifico, il lutto dell’infanzia che si perde, del corpo che si trasforma, di una leggerezza a cui non si potrà tornare più. Ma quando in un bambino piccolo compaiono fortissimi comportamenti depressivi – che somigliano alla depressione degli adulti, bisogna stare molto attenti – perché fisiologicamente quello non è un comportamento infantile, e non si tratta di semplice depressione. Un bambino molto imbambolato, molto poco attivo, spento, come un adulto oltre alla depressione deve avere qualcosa di altro, e ha una ragione in più per essere portato da uno specialista, che sia anche neuropsichiatra. Quando i bambini sono depressi, infelici, preoccupati, hanno bisogno di agire questo umore triste e i pensieri a cui si collega: e allora è facile che sia un bambino iperagitato, frenetico, o con comportamenti insolitamente aggressivi. Secondo alcuni psicoterapeuti infantili, le forme conclamate del celebre disturbo da deficit e attenzione e iperattività, non sono altro che le forme della depressione patologica dei più piccoli.

E questo ci porta a capire il secondo modo con cui nel mondo psi si allude alla depressione, come a indicare una sorta di radicale psichico che produce comportamenti che non sempre combaciano con la mortifera immanenza della depressione maggiore ma a cui ci si riferisce ugualmente con il termine depressione, o con la formula “fondo depressivo” – questo soprattutto nell’ambito della psicologia dinamica ma anche nell’ambito psichiatrico quando ci si riferisce ai disturbi bipolari o ai comportamenti di tipo maniacale. In questo secondo modo di usare il termine, la depressione è un sostanziale pensiero di fondo, negativo, autodistruttivo, molto sfiduciato su di se e sulle proprie possibilità, anche molto aggressivo e rabbioso, a cui la persona può però anche reagire quasi come fanno i bambini, accelerando molto, facendo molte cose, rincorrendo disperatamente l’umorismo, il piacere agli altri, in un palcoscenico infinito, che all’infinito ha l’oneroso compito di pagare il debito interno, di compensare, e anche di scappare dal ricatto mortale del polo depressivo. Per certi clinici, anche l’ansia è una soluzione diversa del ricatto depressivo, vuoi diversa da un punto di vista neurofisiologico – perché l’ansia coinvolge altri circuiti e non a caso se un farmaco agisce sull’ansia fa danno sulla depressione e viceversa – sono quasi disposti su un asse – vuoi da un punto di vista psicodinamico, ma di fatto la persona ansiosa è qualcuno che negozia un’angoscia su un tavolo delle trattative esterno a se, occupandosi parossisticamente di cose pratiche, di paure possibili, di questioni che,sono in realtà la gruccia che porta mali privati interni e intonsi. Facile che questi mali intonsi abbiano il colore basico della depressione, di una scarsa stima di se, di una sorta di disfattismo psichico a cui bisogna adattarsi – certo non con quel carico di aggressività che connota la depressione maggiore, e che rende così difficile alle persone stare accanto a chi ne soffre.

Perché il fatto che la depressione ha spesso, suo malgrado una connotazione profondamente aggressiva. Essa è tale perché per autosostenersi ha bisogno di avvelenare i pozzi, essa vince perché il bilancio della disistima di se deve passare dall’abbandono dell’altro e quindi, capita che la persona che soffra di depressione, senza volerlo, senza intenzione scientemente cattiva, agisca una forte aggressività soprattutto con le persone che gli sono più care – svalutandone le azioni, oppure nell’atto stesso di proporre sempre il proprio inesauribile scontento fino a ferirle con sarcasmo, al fine tutto psichico e spesso inconscio di elicitare quella stessa aggressività ed esasperazione nell’altro, che sancisca il senso di solitudine, di incomprensione, di ineluttabile destino. In questo senso è terribilmente difficile aiutare una persona depressa – e quando la depressione davvero dilaga, per come la vedo io almeno, è assolutamente prioritario associare una psicoterapia a una cura farmacologica – un binomio che, da entrambi i punti di vista è molto pericoloso spezzare.

Chiudo qui. Le cose da dire probabilmente sarebbero ancora molte, ma mi auguro che emergano nei commenti.