Trasmissione identitaria e cultura adolescenziale.

Quando ero ragazzina, e dopo adolescente, e addirittura fino agli strascichi degli anni in cui studiavo psicologia, ho sempre guardato con palese disappunto a quei figli che prendono in mano l’attività di famiglia, o ricalcavano le orme del padre. Ne osservavo due variabili, entrambe declinate al maschile: quella del maschio giovane che prima andava a lavorare in azienda e poi ne prendeva le redini, e quella sempre del maschio giovane che faceva la stessa libera professione del padre. Questi seconde generazioni, erano per altro guardate con giudizio molto severo in famiglia, feroci aspettative sociali, perché i miei genitori tifavano immancabilmente per i vecchi – e l’oculista figlio era bravo ma no, non aveva l’estro dell’oculista padre e l’azienda chi sa che fine farà. Per conto mio, pensando alla mia voglia di trovare un posto distinto, guardavo a questi fenomeni con tristezza. Ci vedevo pressoché invariabilmente da parte dei figli una debolezza, una pigrizia, una vigliaccheria e parimenti una mancata esplorazione della propria identità e dei propri desideri. Pensando ai genitori invece, imputavo loro un narcisismo infinito e una sorta di sete di dominio, un non volere vedere la diversità dell’altro e un estendere parossisticamente la loro identità alla prole. Su tutto la cornice culturalmente di sinistra, che vede nella trasmissione di una libera professione, o di una piccola azienda, le esecrabili stimmate del privilegio:
è un figlio di papà!

Ero una ragazza fortunata, a cui si diede tempo e sostegno materiale per cercare la propria strada, e a cui però il padre libero professionista, aveva provato tante volte a dire, perché non prendi il mio studio? Non ti farebbe piacere fare il mio lavoro? E a me il suo lavoro non piaceva affatto (continua a non piacermi affatto) ma capivo che quella domanda, formulata ogni tanto, l’allusione a un desiderio e a una malinconica consapevolezza, era un regalo, un regalo che se si desidera fare bisognerebbe fare, e che era un bene ricevere, anche nel caso rifiutare.
Anche alla figlia femmina, voglio dire. E anche se sia il maschio che la femmina avrebbero potuto dire di no assai legittimamente.

La mia rotazione definitiva su questi temi, la ebbi quando ebbi modo di conoscere una dottoressa, di mestiere ginecologa, che aveva una figlia – di mestiere oncologa. Le incontrai insieme, la dottoressa di figli ne aveva sei, e due femmine erano medico come lei, anche se con altra specializzazione . Mi colpì il fatto che entrambe mostravano una personalità forte, un discorso tra pari, una stessa coloritura del carattere anche se addosso a due fisicità molto diverse: bionda una mora l’altra, pallida la prima olivastra la seconda. Fui colpita notando come parlavano di analisi e dettagli diagnostici. Quella cosa mi fece piacere, pensando a un segno dei tempi.
Da allora avrei cominciato ad annotare mentalmente certi casi di felice matrilinearità nella trasmissione di certe professioni. Il grande classico delle stirpi di maestre elementari, l’emergente tipologia delle donne medico che mettono al mondo altre donne medico, e poi avrei conosciuto o avuto notizia di madri psicologhe che mettono al mondo figlie psicologhe. La vecchia narrazione dell’indebita colonizzazione narcisistica, anche se indubbiamente sopravviveva in tanti casi, ora si affiancava di altre opzioni. Non ultima la dolorosa casistica che mi offrivano certi miei pazienti a cui i genitori non avevano mai guardato, su cui non avevano mai fatto l’errore fisiologico dell’investimento narcisistico. I figli e le figlie che guardavano incessantemente i genitori, anche da adulti, senza averne un cenno. Oppure che si trovavano a dover rifiutare una cooptazione non perché non compatibile con la loro identità o i loro interessi, ma perché pericolosa. Persone che avrebbero pagato per poter scegliere la mia risposta sdegnosa e la mia stessa leggerezza: non mi piace quello che fai! Non lo voglio fare! Sono diverso!
Magari se tuo padre è nella ndrangheta, non è una passeggiata.

Tra le grandi invenzioni del novecento, c’è stata senza dubbio l’adolescenza. Un’invenzione magnifica e magica, che ha dato spazio e materialità agli aspetti più aspri del diventare adulti, e tridimensionalità alla possibilità di essere futuri soggetti diversi da chi ha generato. L’adolescenza nasce per delle modificazioni socioculturali importanti, il largo accesso di molti giovani a un’istruzione superiore in primo luogo – che ha permesso di posticipare l’ingresso nella vita professionale e di conseguenza in una dimensione quotidiana autonoma dalla famiglia, e all’adolescenza è collegata una sorta di cultura dell’adolescenza che quasi la trascende e ne supera i confini. A un certo punto: secoli di genitorialità trionfante e inconsapevole, sono stati messi sotto accusa, la capacità di infliggere sofferenza scoperchiata indagata e recriminata, e il diritto all’autodeterminazione dell’individuo ha preso il sopravvento rispetto alla necessità della trasmissione identitaria. La psicoanalisi ha molto contribuito a questa nuova strutturazione culturale, all’aggressione alla genitorialità e alle sue colpe, sottolineando spesso a buon diritto come all’amore si mescolassero meschinerie e usurpazioni indebite, e rivelando catene di cause prima assolutamente ignorate. La genitorialità inadeguata, latitante o eccessivamente colonizzante è diventata un topos psichicico e culturale, un oggetto cinematografico e linguistico quotidiano. Qualcosa di cui parlare con incredibile disinvoltura.

La figliolanza allora, con il suo diritto a ricevere il meglio si è presa il centro culturale e mentale della scena, dilatando i confini del suo spazio naturale, fino ad assumere contorni che a qualcuno hanno destato più di una preoccupazione e che hanno nuovamente suscitato l’attenzione dello sguardo psicologico: l’adolescenza è diventata endemica, infinita nonché paradigmatica di una sorta di ruolo sociale permanente: si dilatano i confini anagrafici in cui si puà parlare di adolescenza, e fioccano per ogni dove giovani adulti per i quali la questione continua ad essere il problema della qualità di quello che ricevono – non di quello che danno. In questa cornice, si riescono a fare pochi figli, e il compito diventa titanico, qualsiasi gesto dell’ambizione genitoriale sarà subordinato al loro totemico verdetto. Diventare padri e madri diventa difficilissimo.

Ma questo anche perché si fraintende il benessere dei figli con l’assenza di conflitto, di frustrazione, si abdica completamente all’irripetibile situazione di dispiacere controllabile che potrebbe fornire l’ambiente familiare, permettendo ai piccoli di esplorare stati negativi al sicuro. I bambini che piangono non vengono sopportati, e lasciar piangere un pochino un lattante provoca spesso nelle madri di oggi ansie che forse le madri del passato avrebbero sopportato meglio. Quando andranno a scuola se non avranno buoni voti, i genitori piuttosto che arrabbiarsi preferiranno attaccare i professori – e questo di occasione in occasione in occasione spesso in totale buona fede, spesso credendo che il benessere dei nuovi arrivati coincida con il loro sorriso constante.

In questa cornice si inquadra la questione della trasmissione identitaria. Siccome il momento culturale è come dire, adolescentizzato, dell’adolescente si sceglie lo sguardo, la prospettiva, e l’estremizzazione delle opinioni sulla genitorialità. Si da per scontato che al figlio serva solo il potersi trovare, e si crede anche un po’ a torto, che ci si trovi meglio se tutte le porte delle scelte sono spalancate, accessibili, scontate.
Invece io credo che ci siano delle cose importanti da considerare. La prima delle quali riguarda l’investimento emotivo delle porte. Amare è scomodo, amare è antipatico, perché ha sempre addosso un qualcosa di impropriamente attaccato all’altro. E la genitorialità non può non amare per paura di scontrarsi con la responsabilità del sentimento e l’eventuale passo indietro che richiede. Vuol dire, tradotto – che secondo me quando si fanno dei figli non si può o non si dovrebbe poter evitare di fare un investimento narcisistico, una fantasia di prosecuzione di se. Quelle cose li servono perché fanno caldo, perché regalano qualcosa che renderà terribilmente forti: mia madre ha visto in me se stessa, mio padre si è riconosciuto nel mio corpo. Secondo me i bambini hanno bisogno di questa prima follia, di questo delirio di prosecuzione identitaria. E’ un amuleto che si portano in giro da grandi. E ci sta il desiderio di dire, ora anche per le donne finalmente, io facendo questo lavoro sono stato felice, vorrei che tu lo fossi come lo sono stato io, vorrei che tu continuassi quello che sto facendo io, perché io fra poco dovrò smettere. E’ importante dirlo non tanto perché è importante che accada davvero, la qualcosa al benessere del futuro adulto è assolutamente secondaria. Bisogna infatti poi ritrarsi, e sopportare chei quello, come ho fatto io risponda “manco pagato!” oppure come la figlia di quella dottoressa “volentieri, ma a modo mio” ma perché dirlo vuol dire dare una cosa importante ai figli, una cosa che useranno sempre, al di la della soluzione pratica che adotteranno. Dirlo, vuol dire anche sopportare che l’opzione venga rifiutata. Ma ci deve essere la semantica psichica dell’opzione.

(Infine, trovo che sia particolarmente importante, che questa cosa venga detta alle bambine. Trovo che sia importante negli ancora troppo pochi casi in cui un materno professionale si realizzi, materializzi una matrilinearità che riguarda non solo le vie di come essere madri e mogli, essere sessuali ed emotive, ma anche di come essere nel mondo, intellettuali e materiali)

Pensierini sulle scuole di scrittura creativa.

L’ultima volta che sono andata a La Zucca, uno dei miei ristoranti preferiti in quel di Venezia, ho mangiato un ottimo vitel tonné. Alla Zucca si mangia molto bene, in particolare lo stupendo flan di zucca, per dire, oppure mi ricordo ecco, un dolce al cioccolato e menta, che questi impuniti hanno tolto dal menù e io colgo qui l’occasione per dire loro che così non si fa, non si fanno queste scorrettezze gastronomiche, questi abusi alla speranza. Però ecco il Vitel Tonné della Zucca, è molto buono, e diverso da altri con cui l’ho posto in concorrenza, per due motivi – il primo è il taglio della carne, molto spessa, il secondo, è la densità della salsa tonnata, piuttosto corposa, e dalla composizione come dire ruvida, quasi inelegante.
Il vitel tonnè della Zucca ha qualcosa di sovversivamente casalingo, una sfacciata quanto anarchica artigianalità. I piatti della Zucca – che sono di per loro meritevoli e spesso creativi anzichenò – non di rado sprizzano le spezie, gli esotismi gli agrodolciumi e tutte quelle cose che esulano dalle cucine tradizionali – sono anche carini a vedersi, ma non cedono massivamente alla nuova estetica culinaria che ti fa i piattini con sporadici ma graziuosi fiorellini, piattini invero pulitissimi e immensi, e che ha prodotto quella iattura sociale che è il cake design. Il cake design ossia – quella cosa per cui prendi un pezzo di pan di spagna lo intigni in una alcolico comprato al super ci spatafasci sopra una glassa di zucchero con la faccia di hello kitty.
Poi dici che hai fatto un dolce.

E’ certamente vero, che in giro ci sono un sacco di persone che non sanno stabilire il sacro momento della scolatura della pasta, per le quali, le tappe della solidificazione di un uovo rimangono esoteriche, e che mancano degli strumenti minimi necessari per cucinare in maniera degna un piatto anche di fattura basica, ed è altrettanto vero che in diversi ristoranti si mangia da cani – così come è altrettanto incontestabile che in molti ristoranti dove spadella e inpiatta (verbo di rara truculenza) il gioioso prodotto di una scuola di cucina, si mangia abbastanza bene, si avvicinano cose piacevoli e anche tanto decorative. L’occhio vuole la sua parte! E sicuramente ci sono diverse scuole di cucina con metodologie di insegnamento diverso, e con un diverso rapporto con le estetiche individuali e culturali, e anche con un diverso rapporto con l’artigianato e con la materia. E chi sa, magari che l’eroico allestitore di Vitel Tonné della zucca non venga da una di queste scuole di cucina particolarmente raffinate!

Tuttavia io che sono una discreta cuoca, ma che soprattutto come mangiatrice sono imbattibile – osservo con edonistico disappunto la convergenza delle estetiche, il triste destino di un artigianato molto soggettivato in una zuppa di livello medio sopportabile, che porta molti che non sapevano cucinare a un gradino sopra la modestia, ma molto al di sotto dall’empireo a cui potrebbe portare uno studio a bottega, un sudato apprendistato della propria individualità culinaria, del proprio talento e della propria radice – noantri le avremmo profonde le radici, nel capo– e comunque, non sempre per esempio così immediatamente geografica. (Io per esempio, mangio bene parecchie cose, ma cucino in maniera particolarmente degna il filone cuciniero medio orientale. Non credo che sia un caso).

Inoltre, una volta mi è stato regalato dai miei amici, che sanno dei miei studi di apprendistato , un corso di cucina del gambero rosso! E ho realizzato – in quel corso dove devo dire mi divertii da pazzi – il tipo di strumentazione che viene adottato e caldeggiato, i materiali consigliati, certe pippe terribili sulle temperature e gli stilemi e l’importanza del contributo meccanico. Fui molto impressionata da un oggetto costosissimo il cui scopo ultimo era quello di sbatte le ova, e tutto questo mi diede l’idea di questo nuovo marketing del palato, di questa nuova accezione della mangiara. La godibilità digeribile e costosa. L’elaborato ma non troppo. Gli ingredienti antichi ammischiati tarantinescamente ai moderni meglio se con dei ritrovati della tecnica di recente fattura e molto costosi.
Constatavo l’istituzionalizzazione di un canone – come deve essere la panna! – e riflettevo che ai corsi di salato io, che tenacemente non schiodo dall’uso della mezzaluna e guardo con preoccupato antagonismo la pentola a pressione, non sarei andata. Se non previa rassicurazione del fatto che il corso – facciamo conto sulla tassonomia dei brasati – non fosse tenuto non solo da il re del brasato incoronato, ma un re del brasato consapevole del proprio dover essere tramite dei brasati altrui. E temo, che i sovrani siano molto poco portati per questo genere di prospettiva.

Un kaddish per le cose che non muoiono morendo.


Un pensiero per te che sentivi le voci e immaginavi il buio, e l’aria che finiva, e hai provato quel che si poteva, e ti sei ingegnato. L’insopportabile spessore del tempo e delle voci che filtravano, il dover fare per eliminare quell’angoscia. Quella cosa strana del rumore e del silenzio quella cosa dell’aspettare si aspettare no, si deve fare così si deve fare cosà.
Un bambino!
L’ossigeno sta finendo.

Un pensiero a quel momento del trionfo dei buoni, il sacrosanto narcisismo di chi si sporca le mani! Evviva, ho aperto la porta si apre anche l’altra porta! Evviva ci si fa, e insieme ecco però bisogna stare molto attenti, mica è facile. Un pensiero al sudore, forse alle mani, chi sa cosa ha fatto il cuore, e gli occhi, non so se porti gli occhiali, e un pensiero agli altri uomini.
E un pensiero alle braccia tese
Un bambino!
Il vuoto.

Un pensiero al tuo pensiero che tornerà indietro a tutto quello di te che è caduto nel vuoto e che cercherà di tornare a salvare, una fatica che non sentirai, un pensiero ai pensieri travestiti nei disegni distratti mentri ascolti un cognato al telefono, un capo, una suocera, un avvocato. Un mio collega.
Un pensiero al fatto che meriteresti una redenzione. E altri sogni.

Un pensiero che è un messaggio in una bottiglia opaca lontana e illegibile. Forse chiusa male, che non arriverà dove vorrebbe arrivare, e il cui contenuto non servirà a niente. Un pensiero anche al bisogno un po’ stupido di dirti questa cosa. Sei una brava persona, e hai fatto quello che potevi.

(qui)

La questione delle Calende Greche

Dunque, a due giorni dal referendum in Grecia, buona parte delle volenterose anime della rete, si sono già placate da quella che chiamerei una sbornia politico proiettiva, di grandissima portata, una sorta di sogno condiviso di cui ognuno si è ritagliato uno spezzone e ci ha messo cose sue con una reiterazione e una convinzione che mi hanno lasciata stupefatta – ancorché più convintamente junghiana che mai. Guai al prossimo che mi dovesse parlar male di inconscio collettivo, di strutture mitiche, di archetipi che tornano! Guai che mi scatta l’esegesi compulsiva di tutto Simboli e trasformazioni della libido – ivi comprese le digressioni non proprio avvincenti. La pervasività su tutti i mezzi di informazione e su tutti i social network è stata veramente notevole. In rete, non solo un numero molto alto di persone ha sentito il desiderio di informarsi e di produrre un’opinione in merito – ma si è proprio immersa in un’atmosfera, in una necessità narrativa, in un mondo di reazioni forti e preoccupazioni, esternando a ogni piè sospinto i convincimenti raggiunti – genti che non mangiavano pur di aggiornare il proprio status di sostegno erotico finanziario a Tsipras, altri che invece pensando a quaa cazzo di fattura emessa ma Diobòno giammai retribuita vagheggiavano un telegramma ad Angelona, per farle sentire la solidarietà all’ingrato compito de La Storia. Il tutto però quasi fosse un fatto più privato che politico. Su Facebook non ci sono state le pugne feroci a cui si assiste quando ci si occupa di Grillo o della minoranza pd oppure altro luogo della psiche archetipica, quando si parla di Israele. La Grecia non è un tema che divide le relazioni e uccide l’amicizia, ma ugualmente coinvolge intimamente. Un film di tutti che è un film per ognuno, un sogno di tutti che è il sogno di ognuno.

In partenza era la cruda realtà. Dio è morto, Pericle è stecchito, e sono decenni che la Grecia non si sente tanto bene. Mentre parte dell’opinione pubblica occidentale abbraccicava il Rocci con nostalgico trasporto, e Omero, e Tucidide, e Erodoto non ce lo scordiamo Erodoto! Questi poracci, con un territorio ingrato di suo e con delle amministrazioni da gabbio certo ci avevano il problema del fine mese, mezzo mese inzio mese, e la gestione di quelli che kaloikaiagathoi manco per cazzo (un problema antico per la Grecia, la cui democrazia fichissima peccarità non è che faceva votare popo tutti tutti, e gli stranieri no, e i poracci manco, e gli schiavi non esse anti storica, e le donne t’ho detto non esse antistorica! – e però scusate la vendetta di una che è stata rimandata a settembre due volte) e quindi pazienti psichiatri pe stracci, pensionati pe stracci, disoccupati pe stracci, malati cronici pe stracci.
E in questi stracci arriva Tsipras, quella tipica svolta a sinistra che hanno le democrazie quando si mangia veramente poco e fa: sentite, preferite non avere manco gli stracci per restituire quello che se so magnati in passato all’Europa, o preferite non avere manco gli stracci perché andandocene via dall’Europa non producendo noi stracci, che se magnamo?
Dice grande politica, super democrazia, ma io sono rimasta interdettissima pensando a questi disgraziati, e a questa chiamata alle armi che sembra spostare sulle spalle dell’elettorato la responsabilità della rappresentanza. I(In effetti, io non sono convinta che la formula plebiscitaria sia la conferma della democrazia, due coserelle che ho studiato dopo Erodoto mi farebbero pensare il contrario. Ma su questo staremo a vedere – perché altri dicono che è il momento a richiederlo. ) In ogni caso: i greci che hanno votato hanno detto no e il sogno è partito.

Il sogno, mi è sembrato aveva infatti questi contorni. La vecchia Europa come incarnazione della Grande Madre, declinazione del materno per molti avaro cattivo e ingiusto, per altri semplicemente grande quindi più grande, e designata al ruolo della pedagogia dei piccini che non obbediscono e dall’altra il piccino figlio della madre cattiva, che essendo la madre cattiva è diseredato per costituzione e riottoso per esasperazione, e che ora come l’adolescente ribelle della letteratura per ragazzi che ci siamo lasciati alle spalle, le fa davvero il gesto dell’ombrello alla mamma cattiva! Che goduria! Che spasso! Ficata ficatissima. Due assetti psichici si confrontavano il puer e il senex, coi puer che dicevano Diobòno era ora! Finalmente! Tiè pija e porta a casa! I greci sono bravissimi! I greci prendono in mano il loro destino! Mettendo in secondo piano ma pure mi pare in terzo e quarto alcune sgradevoli considerazioni secondarie del tipo, ma se diciamo a gino pino vabbè niente debito, poi non è che corcà che ci danno i soldi se li chiediamo tipo noi? Il figlio riottoso genera sempre grandissimi casini emotivi ai fratelli meno riottosi.

D’altra parte anche a sentire quell’altri la frazione di mitico sopravanza il reale da parecchio. E se la Grecia esce davvero dall’Europa, niente, dicono l’altri, i vecchi dentro (io confesso di appartenere a questi ultimi) annegheranno tutti illico et immediater. Già stavano pe stracci mo so popo morti. Questi vecchi si immaginano una Grecia alla deriva, e non riescono proprio come certi genitori devitalizzati e apprensivi a dire del figlietto scapestrato che decide di fare di testa sua – vediamo che fa, diamogli una possibilità. Se i primi sono tutti ammaliati dal tricksterismo di una leadership che scende dalla moto e dice agli eurobabbioni tutte parolacce, quell’altri con la bocca a mestolino dei farmacisti di provincia scuotono la testa in sommessi lai, signora mia nonnò così non si fa.

La questione in realtà riguarda temi seri e importanti nei quali buona parte di noi ecco cosa, va cimentandosi per procura. Il problema psichico prima che politico di una sinistra vera, che svolga il sacrosanto ruolo dell’adolescenza di una generazione politica: ossia scardinare vecchi equilibri intessuti di privilegi per portare nuove uguaglianze, è tutto delegato e proiettato sulle spalle di questi qua che ora si ritrovano il compito di salvare i giovani di mezzo globo terraqueo. Tsipras è l’unico ad avere, almeno sul piano retorico interpretato queste istanze e ad averle portate avanti in una progettualità politica, in una linea programmatica. Da noantri questo tipo di progettualità non riesce come non riesce par di capire in tante aree d’Europa, e l’adolescenza turbolenta finisce coll’essere incarnata dalle destre estreme – con cui non a caso il nostro è dunque venuto a patti e ci ha fatto un governo. In sintonia con questa scelta diciamo spregiudicata? Ieri pareva pronto a ciarlare con Putin, altro bell’arnese – di necessità si fa virtù e noantri perdoniamo cose che per altri troviamo inconcepibili.

Forse ci vuole sempre un po’ di mitico per muovere le cose, e io non dovrei essere così annichilita dall’intensità delle reazioni che ha provocato il referendum greco, e la velocità con cui le condizioni materiali dei Greci sono andate in secondo piano, sono diventate un complemento trascurabile della narrazione. Ma io vedo proprio in questo passaggio, con tutte le conseguenze del caso l’evanescenza del sogno politico per noi e la nostra costitutiva incapacità di pensare a niente di analogo in casa nostra, analogo nella forza propositiva più che nell’eventualmente pedissequa riproduzione delle proposte. Se in questi giorni ci fossimo occupati un po’ più di Novecento che di Sparta e Atene, un po’ più di microeconomia che di massimi sistemi, forse vorrebbe dire che avremmo le risorse per stare politicamente nel modo giusto sul nostro territorio, in relazione alla nostra discutibile storia politica e alle concrete questioni economiche e produttive che ci connotano. Ma non lo facciamo e anche la nostra tifoseria da parte di entrambi i fronti, è il segno di qualcosa che non sta funzionando.

Vegan

Qualche anno fa dovevo fare un lavoro sull’anoressia presso le più giovani, e feci un lungo studio della rete blog “pro ana” blog, scritti da giovani anoressiche, con un livello della patologia molto avanzato. Fu un’esperienza molto forte, rimasi molto impressionata: perchè la rete fornisce la possibilità di catalizzare assetti autolesivi o lesivi e patologici e organizzarli in una forma culturale. L’anoressia – diventava cioè grazie a internet un mondo con una sintassi, con dei temi prevalenti, con degli usi e costumi, con un’iconografia e una teologia. I blog pro ana consigliano strategie di sopravvivenza – tipo, che purganti assumere per espellere una cena intera, tipo come evitare di pensare sempre al cibo. Forniscono dei comandamenti, a cui obbedire, delle immagini a cui ispirarsi e una divinità Ana, la dea dell’anoressia, per la quale esiste una preghiera che si trova regolarmente riportata.
Fu come dicevo, un’esperienza – prima di tutto emotiva: leggendo questi blog mi veniva da ridere moltissimo, e simultaneamente mi accorgevo di provare un fortissimo dispiacere e dolore. Mi accorgevo di toccare la dimensione dell’assurdo, del ridicolo, del sovvertimento di senso, e allo stesso modo sentivo le corde psicologiche che lo procuravano e che mi rimandavano a un’angoscia tale, che la miglior difesa era il sarcasmo.
Sarcasmo arginato dal fatto che i blog pro ana sono scritti da ragazze molto giovani, che spesso fanno avanti e indietro con le cliniche psichiatriche, che toccano la morte con la mano. La realtà del corpo dell’anoressica, abbatteva le mie difese e mi metteva in contatto con loro. Non so dire meglio.
Per molto tempo quello scandalo infantile del ribaltamento di senso, quello scandalo razionale che porta all’umorismo, pagine intere in cui si parlava solo di non mangiare, due palle così, insieme a quel senso di disagio che porta all’ironia, non l’ho più provato.

Poi recentemente, mi sono imbattuta nei vegani e soprattutto nella rete internet dei vegani. Ho incontrato i loro siti, ne ho letto i dibattiti e ho provato, dopo tanto tempo di nuovo quella stessa miscela di riso e dispiacere, di ironico e di istrionico, di preoccupazione e di difesa. Un diffuso senso di assurdo e qualche volta un manifesto senso di rabbia. Qui per esempio un signore si interroga su come interagire eticamente con gli scarafaggi dentro casa, dichiara di averli sterminati e viene fortemente attaccato nel forum – e questo l’ho trovato un pezzo di comicità interessante, qui invece una signora si interroga sull’opportunità di adottare un bambino africano a distanza e si preoccupava assai, perché metti che con i soldi ci si compra il latte? Io personalmente avrei mandato la signora in un orfanotrofio del Bangladesh a mangiare il pugno di riso al giorno lei e la sua figliola, con anche una congrua sovrattassa di calci nel didietro, invece i partecipanti al forum la esortavano ad adottare un animale a distanza che ne ha molto più bisogno.
Un altra signora si interrogava su come fare a gestire la propria vita sociale essendo vegana. Pare brutto se mi porto il dolce da casa? E infine, il post padre di questo post, dove dei genitori chiedevano quali prassi seguire per ottenere che nella scuola pubblica il loro bambino di anni 4 seguisse un alimentazione vegana. Perchè scoprivo che la scuola ti da retta a te genitore vegano scellerato. Io per esempio, con tutto che sulla libertà delle scelte alimentari sono per ovvi motivi piuttosto tollerante, non so se sia davvero giusto.

Ora c’è un discorso da fare sulla filosofia vegana, ma anche sulla sua sintassi e sulla sua comunicazione. La filosofia vegana, in termini razionali e stilizzati ha qualcosa di rispettabile, rafforzato da certe distorsioni del sistema capitalistico: essa pone l’essere umano come consapevole della sua forza e della sua aggressività e gli chiede di non essere violento e aggressivo verso altri esseri viventi. Nel nostro occidente, l’essere onnivori è diventato una forma di abuso riguardo altre specie animali che non sono la nostra, e all’uopo vi consiglio l’ottimo libro di Jonathan Safran Foer che racconta di come funzionano gli allevamenti di mucche, oppure, una bella gita in un allevamento di galline potrebbe essere altrettanto impressionante. Tuttavia il nodo etico è un po’ lo stesso che pone la vivisezione, e riguarda la posizione psicologica di chi spera di non occupare una posizione asimmetrica, e nel farlo produce un atto lesivo per se, e simultaneamente è destinato a fallire lo scopo. È un po’ come quello scritto di Benedetto Croce – perchè non possiamo non dirci Cristiani: se tutto il mondo a te è dominato dalla cultura cristiana tu anche senza volerlo praticherai i dieci comandamenti. E così, se sei non solo onnivoro, ma un animale che si è arroccato sulla comoda posizione del dominio, puoi anche mangiare solo muschi e licheni, ma la sera potresti dover accendere la luce. Fermo restando che, secondo me a mangiare solo muschi e licheni, l’organismo ne risente.

Ma ecco, se l’organismo ne risente sono anche beati cavoli tuoi e di quei poveri disgraziati dei tuoi figli, che non invidio. Tuttavia spulciando nel forum dei vegani, giacchè io non ho amici vegani, avvertivo una sintassi che mi poneva davanti a delle riflessioni. C’era un profluvio di “cadaveri”
e di “odore di morte”, c’era molto pathos intorno alla chiamata in causa delle salme, e questo produceva un effetto umoristico indelebile (Una signora qui si lamenta: un’amica mi ha chiesto di tenerle la brioche al bar e io mi sono sentita malissimo, perchè sentivo tutto quell’odore di morte”) ma da dove viene il riso irrefrenabile? Perchè queste cose fanno ridere? E’ solo l’avvicinamento tra cornetto alla crema e obitorio a chiamare in causa groucho Marx? O c’è dell’altro?
C’è dell’altro. Fanno ridere perchè noi, quel pathos quelle parole – odore di morte, cadavere, salma, le riserviamo ai nostri conspecifici. La risata è parente dell’estraniamento che vede un pathos estremo per qualcuno di non tangibile. Sentirsi male per le uova di una gallina mai vista, ci fa ridere perchè ci agita.
E ci agita, perchè siamo percepiti come umani, come meno importanti della gallina mai vista. E questa cosa, può sembrare utopisticamente affascinante, nobile o quant’altro, ma a me pare il sintomo di una patologia culturale dell’occidente, una sorta di karakiri che in nome del naturale per qualcosa di altamente innaturale uccide il naturale. Nel non sentire la priorirà emotiva del conspecifico (“adotta un animale a distanza, ne ha più bisogno”) io avverto un’aberrazione che è parente della crescita a zero, del non fare più figli, e delle bambine anoressiche dell’inizio del post: una sorta di doloroso ripiegamento dell’umano su se stesso, nel beato tempo in cui la ricchezza e la noia hanno lasciato spazio a nuovi assetti patologici culturali, che colludono con assetti patologici individuali. Simone Pollo, amico vegetariano e di mestiere bioetico, per esempio in una conversazione sull’argomento sosteneva che da un punto di vista etico la scelta è anche sostenibile – ma il problema è l’uso che se ne fa nel contesto relazionale. Ecco, io constatavo nella lettura di questo forum, come l’amico Bioetico avesse ragione, e come la chiamata in causa ossessiva e gratuita di immagini splatter di sangue, di morte, di cadaveri, avesse un ruolo peculiare nella relazione- cementando un rapporto con i pari, ma spezzando tramite calcio nelle palle del sentimenti, il rapporto con gli altri. Stai male eh? Ora che ti ho parlato di morte e sangue e carcasse.
Non posso inoltrarmi sulla funzione psicologica che assume la dieta vegana per i singoli, perchè non ho semplicemente la possibilità di farlo, capisco che ce l’ha, ma capisco anche che ci possono essere diverse declinazioni, più o meno adattive, più o meno disadattive, più o meno legate all’inclusione/esclusione in gruppi, più o meno rigide nella complementareità ad altre aree problematiche preesistenti. Ma mi rendo conto, che con tutto il rispetto di questo mondo, e con la debita cognizione di causa dell’aspetto filosofico della cosa, non posso fare a meno di considerare il fenomeno come un sintomo, una disfunzione egosintonica.

Sulla procreazione assistita

Uno dei punti di forza del family day e di tutta la costellazione ideologica che vi ruota intorno, è nell’aver messo sul tavolo le preoccupazioni di molti in merito alla procreazione medicalmente assistita, e le modificazioni possibili delle famiglie che si constatano nella quotidianità. Tutti dicono che alla fine l’importante è l’affetto, l’affiatamento, un’atmosfera serena intorno a dei bambini che arrivano, ma tra quei tutti ci sono molti che vivono delle perplessità segrete, dei dubbi. E fuori da quei tutti ci sono quelli che appunto, a fronte di queste nuove possibilità di cambiamento familiare temono la comparsa di squilibri e malesseri gravi. Si spaventano per queste nuove soluzioni e manifestano in difesa di un passato che, a loro piaccia o meno, non tornerà.
Dicono. Un bambino ha bisogno di un papà e di una mamma!
Ma non vanno molto oltre. Dicono solo questa cosa, un papà e una mamma, un maschio e una femmina, i due generi che facciano il figlio nella solita maniera senza tante complicazioni.
Ma cosa sono queste complicazioni?
Esistono? Come si configurano?

Leggevo in questi giorni l’intervento a un convegno su questi temi di una mia cara amica e collega, Pietrina Guglietti, e che tentava un primo abbozzo – delle problematiche specifiche che può incontrare la procreazione medicalmente assistita – ed erano tutte preoccupazioni solo parzialmente collegate alla composizione di genere della famiglia. Alcuni punti nevralgici riguardavano infatti la dilatazione e la meccanizzazione del tempo procreativo, la sua artificializzazione, che crea nei potenziale genitori una sorta di sfasamento rispetto alla realtà. Altre riguardavano il potenziamento di certe dinamiche psichiche patogene dovuto allo stato delle cose sotto un profilo giuridico in Italia, per cui da una parte c’è una norma che ostacola, da un’altra ci sono delle sentenze che modificano la norma, il tutto calato in un contesto internazionale per cui molte operazioni in questo ambito sono fattibili  all’estero –  e questo si può tradurre psichicamente in una curioso potenzialmento di istanze narcisistiche di vocazione all’onnipotenza, scarsamente contenute da uno Stato che non è capace di essere né di sostegno né di argine, ma solo un oggetto esterno e quindi interno che procura ostacoli che la tenacia può far scavalcare: sarebbe molto più sensata invece una legge che accettasse la fecondazione assistita ma ne irreggimentasse l’itinerario, al posto della bucherellata legge 40 che viene sempre più aggirata.

Ma il grosso delle preoccupazioni che riguardavano la fecondazione assistita erano simili a quelle che spesso riguardano l’adozione ma che in questo contesto assumono contorni più definiti e importanti. La fecondazione avviene quando il corpo dei partner non ha la possibilità biologica di portare avanti una genitorialità naturale, che è lo stesso lutto diciamo che incontrano le coppie adottive il cui itinerario così travagliato relativamente spesso permette di elaborare, compreso il ruolo implicato in questa elaborazione dell’arrivo di un bimbo che non di rado ha già una piccola storia sua personale. Ma di fatto questo lutto c’è, riguarda l’immagine del proprio corpo, la propria identità di genere, le identificazioni con le proprie figure genitoriali, e se tutte queste questioni che hanno un sapore un po’ amaro non trovano spazio, può succedere che il genitore che porta avanti la fecondazione cerchi di espungere dalla narrazione che si fa della gestazione (e che poi darà al piccolo) gli aspetti collegati alla procreazione assistita – l’eventuale uso del seme di un donatore, per esempio, o il passaggio del materiale genetico di un’altra donna fino ai casi di maternità surrogata. In questo modo tenterebbe di raccontare a se stesso e all’erede, una storia che risponde a un desiderio di se più che a una realtà, e che proprio per questo farebbe diventare la procreazione assistita una sorta di oggetto interno pericoloso, una struttura inconscia capace di far danno dalle retrovie fuori della coscienza, che deformerà in maniera non immediatamente riconoscibile le relazioni il modo di abitare la genitorialità e di essere figli dei bambini e che porterà a sentimenti spiacevoli che magari non sembreranno immediatamente riconducibili ad essa. Nelle coppie eterosessuali poi, si può agitare il fantasma simbolico di un’asimmetria delle possibilità – pensando a un partner che porta un problema che l’altro partner non porta, un partner vissuto come sano e uno come biologicamente compromesso, con pensieri di invidia o di colpa che potranno sembrare razionalmente ingiustificati, ma che si possono agitare all’interno della coppia.

Ci sono moltissime implicazioni e anche molto complesse, e altre cose che qui per brevità non possiamo citare, ma dicevamo con la mia collega parlando del suo intervento, che per certi versi la fecondazione assistita nelle coppie omosessuali incontra meno aspetti problematici che per quella eterosessuale – dal momento che la mancata possibilità biologica di generare è un dato assodato, che non lede la percezione della propria identità, che non crea complicate asimmetrie nella coppia, che spesso non dipende dal corpo ma dall’orientamento sessuale dei due potenziali genitori, e che ha quindi la possibilità di essere vissuta con più tranquillità e riproposta ai bambini con più fluidità quando sarà il momento di far sapere le loro storie e da dove vengono, l’origine della loro identità. I rischi che diventi un oggetto fantasmatico persecutorio che agisce al di fuori dell’inconscio in maniera subdola sono più bassi. E se i due partner omosessuali mantengono quella complementareità di assetti psichici di cui per esempio parla Antonino Ferro quando riflette sulla buona riuscita di una vita di coppia tra compagni dello stesso sesso, che più che altro devono incarnare uno un maschile interno e uno un femminile interno uno la propositività l’altro l’accoglienza, uno il paterno e l’altro il materno – questo anche in una composizione omosessuale della coppia, si può sperare in una genitorialità sufficientemente funzionale.

Un’osservazione conclusiva.
Gli psicologi fanno il loro mestiere, e parte del loro mestiere è fornire con uno sguardo partecipato che può risultare antipaticamente sanzionatorio quanto esageratamente preoccupato, prospettive in cui risultino evidenti gli aspetti problematici di una certa scelta materiale di vita. Vedere gli aspetti problematici le implicazioni psichiche non immediatamente individuabili aiuta gli addetti ai lavori a prepararsi quando se ne richieda l’intervento, e le persone a intuire quando potrebbero avere bisogno di loro. Il loro parere è dunque importante e in casi come queste sarebbe ancora più importante la loro presenza e disponibilità nei complicati processi che le coppie attraversano quando vanno incontro alla procreazione medicalmente assistita, perché possano aiutare a dipanare i grovigli psichici prima che diventino matasse ingestibili. Questo però non vuol dire che si possano usare le loro perplessità che sono inerenti al loro campo di applicazione e di intervento – che è aiutare l’altro nella vita che si è scelto – per condurre battaglie politiche allo scopo di sanzionare comportamenti e questioni varie, nel caso specifico con la strumentalizzazione ricattatoria che si fa dell’infanzia a venire. In questo io mantengo una posizione piuttosto rigida e probabilmente autonoma rispetto a una percentuale consistente di colleghi, ma personalmente trovo improprio un uso politico delle perplessità che clinicamente si possono avere, e contesto i colleghi che lo fanno. Questo prima di tutto per una questione diciamo squisitamente bioetica, o se vogliamo deontologica – per cui io trovo una priorità quasi metafisica dell’esistente a decidere per se stesso, per il suo diritto a procreare e a farsi una famiglia che desidera, e per essere crudi e provocatori e antipatici ma chiari – in linea anche estrema e fuori da questi temi, io credo che il male abbia il diritto di riprodursi in un certo senso, quindi figuriamoci se mi metto a strumentalizzare le mie posizioni professionali per sanzionare scelte che non sono malefiche ma solo eventualmente complicate.

In secondo luogo però, coltivo una sorta di disincanto epistemologico correlato al mio sguardo clinico, il quale è utile ed efficace quando si posa sulla vita di chiunque, e so per certo che sulle scelte di chiunque è capace di trovare vicende intrapsichiche che non si sono completamente risolte, oggetti inconsci che mantengono una connotazione persecutoria e quant’altro. Indubbiamente esistono dei gradi diversi ed esiste una soglia di larga patologia, ma non esiste una soglia di assenza di problematica totale – né penso che la migliore delle psicoterapie possa aiutare a raggiungere questa soglia. Basta dare un’occhiata alle vicende private della maggior parte degli analisti, me compresa, per rendersi conto del fatto che evidentemente uno o più cicli di ottime terapie non porta a nessuna forma di redenzione. Queste forme di genitorialità invece, come anche la genitorialità adottiva, mettono gli aspiranti genitori in una presunta posizione di peculiarità rispetto agli altri, che rischia di esasperare aspetti nevrotici largamente diffusi e contenibili dando loro un rilievo che non sono sicura sempre abbiano, e non sono sicura non agiscano anche nelle coppie eterosessuali sul cui normale concepimento nessuno mette bocca ma che se venisse guardato con l’impietoso sguardo della clinica rivelerebbe spesso aspetti non tanto consolanti (ma, alla resa dei conti, comunque influenti). Il problema è certo presente per un’infanzia che avendo un esordio particolare implica per la sua crescita un impiego di risorse suppletive – e chi ha esperienza di adozione per esempio sa di cosa sto parlando, tuttavia mi rimane sempre l’idea che quando si esce dai confini della procreazione naturale si metta sul corpo dei genitori non già l’aspettativa di una genitorialità sufficientemente buona, ma di una genitorialità ottima, molto ben equipaggiata, facendo pagare a queste coppie il nostro desiderio sociale normalmente poco saturabile e che di questi tempi si sta facendo parossistico, di controllare la qualità della nostra progenie culturale. Le coppie che fanno l’inseminazione artificiale devono cioè obbedire a degli standard di capacità genitoriale che garantiscano la nascita di cittadini che abbiano tutte le carattestiche che desideriamo per il nostro futuro.
Facciamo i conti dunque anche con questa cosa, e con le domande etiche che impone.