Quando ero ragazzina, e dopo adolescente, e addirittura fino agli strascichi degli anni in cui studiavo psicologia, ho sempre guardato con palese disappunto a quei figli che prendono in mano l’attività di famiglia, o ricalcavano le orme del padre. Ne osservavo due variabili, entrambe declinate al maschile: quella del maschio giovane che prima andava a lavorare in azienda e poi ne prendeva le redini, e quella sempre del maschio giovane che faceva la stessa libera professione del padre. Questi seconde generazioni, erano per altro guardate con giudizio molto severo in famiglia, feroci aspettative sociali, perché i miei genitori tifavano immancabilmente per i vecchi – e l’oculista figlio era bravo ma no, non aveva l’estro dell’oculista padre e l’azienda chi sa che fine farà. Per conto mio, pensando alla mia voglia di trovare un posto distinto, guardavo a questi fenomeni con tristezza. Ci vedevo pressoché invariabilmente da parte dei figli una debolezza, una pigrizia, una vigliaccheria e parimenti una mancata esplorazione della propria identità e dei propri desideri. Pensando ai genitori invece, imputavo loro un narcisismo infinito e una sorta di sete di dominio, un non volere vedere la diversità dell’altro e un estendere parossisticamente la loro identità alla prole. Su tutto la cornice culturalmente di sinistra, che vede nella trasmissione di una libera professione, o di una piccola azienda, le esecrabili stimmate del privilegio:
è un figlio di papà!
Ero una ragazza fortunata, a cui si diede tempo e sostegno materiale per cercare la propria strada, e a cui però il padre libero professionista, aveva provato tante volte a dire, perché non prendi il mio studio? Non ti farebbe piacere fare il mio lavoro? E a me il suo lavoro non piaceva affatto (continua a non piacermi affatto) ma capivo che quella domanda, formulata ogni tanto, l’allusione a un desiderio e a una malinconica consapevolezza, era un regalo, un regalo che se si desidera fare bisognerebbe fare, e che era un bene ricevere, anche nel caso rifiutare.
Anche alla figlia femmina, voglio dire. E anche se sia il maschio che la femmina avrebbero potuto dire di no assai legittimamente.
La mia rotazione definitiva su questi temi, la ebbi quando ebbi modo di conoscere una dottoressa, di mestiere ginecologa, che aveva una figlia – di mestiere oncologa. Le incontrai insieme, la dottoressa di figli ne aveva sei, e due femmine erano medico come lei, anche se con altra specializzazione . Mi colpì il fatto che entrambe mostravano una personalità forte, un discorso tra pari, una stessa coloritura del carattere anche se addosso a due fisicità molto diverse: bionda una mora l’altra, pallida la prima olivastra la seconda. Fui colpita notando come parlavano di analisi e dettagli diagnostici. Quella cosa mi fece piacere, pensando a un segno dei tempi.
Da allora avrei cominciato ad annotare mentalmente certi casi di felice matrilinearità nella trasmissione di certe professioni. Il grande classico delle stirpi di maestre elementari, l’emergente tipologia delle donne medico che mettono al mondo altre donne medico, e poi avrei conosciuto o avuto notizia di madri psicologhe che mettono al mondo figlie psicologhe. La vecchia narrazione dell’indebita colonizzazione narcisistica, anche se indubbiamente sopravviveva in tanti casi, ora si affiancava di altre opzioni. Non ultima la dolorosa casistica che mi offrivano certi miei pazienti a cui i genitori non avevano mai guardato, su cui non avevano mai fatto l’errore fisiologico dell’investimento narcisistico. I figli e le figlie che guardavano incessantemente i genitori, anche da adulti, senza averne un cenno. Oppure che si trovavano a dover rifiutare una cooptazione non perché non compatibile con la loro identità o i loro interessi, ma perché pericolosa. Persone che avrebbero pagato per poter scegliere la mia risposta sdegnosa e la mia stessa leggerezza: non mi piace quello che fai! Non lo voglio fare! Sono diverso!
Magari se tuo padre è nella ndrangheta, non è una passeggiata.
Tra le grandi invenzioni del novecento, c’è stata senza dubbio l’adolescenza. Un’invenzione magnifica e magica, che ha dato spazio e materialità agli aspetti più aspri del diventare adulti, e tridimensionalità alla possibilità di essere futuri soggetti diversi da chi ha generato. L’adolescenza nasce per delle modificazioni socioculturali importanti, il largo accesso di molti giovani a un’istruzione superiore in primo luogo – che ha permesso di posticipare l’ingresso nella vita professionale e di conseguenza in una dimensione quotidiana autonoma dalla famiglia, e all’adolescenza è collegata una sorta di cultura dell’adolescenza che quasi la trascende e ne supera i confini. A un certo punto: secoli di genitorialità trionfante e inconsapevole, sono stati messi sotto accusa, la capacità di infliggere sofferenza scoperchiata indagata e recriminata, e il diritto all’autodeterminazione dell’individuo ha preso il sopravvento rispetto alla necessità della trasmissione identitaria. La psicoanalisi ha molto contribuito a questa nuova strutturazione culturale, all’aggressione alla genitorialità e alle sue colpe, sottolineando spesso a buon diritto come all’amore si mescolassero meschinerie e usurpazioni indebite, e rivelando catene di cause prima assolutamente ignorate. La genitorialità inadeguata, latitante o eccessivamente colonizzante è diventata un topos psichicico e culturale, un oggetto cinematografico e linguistico quotidiano. Qualcosa di cui parlare con incredibile disinvoltura.
La figliolanza allora, con il suo diritto a ricevere il meglio si è presa il centro culturale e mentale della scena, dilatando i confini del suo spazio naturale, fino ad assumere contorni che a qualcuno hanno destato più di una preoccupazione e che hanno nuovamente suscitato l’attenzione dello sguardo psicologico: l’adolescenza è diventata endemica, infinita nonché paradigmatica di una sorta di ruolo sociale permanente: si dilatano i confini anagrafici in cui si puà parlare di adolescenza, e fioccano per ogni dove giovani adulti per i quali la questione continua ad essere il problema della qualità di quello che ricevono – non di quello che danno. In questa cornice, si riescono a fare pochi figli, e il compito diventa titanico, qualsiasi gesto dell’ambizione genitoriale sarà subordinato al loro totemico verdetto. Diventare padri e madri diventa difficilissimo.
Ma questo anche perché si fraintende il benessere dei figli con l’assenza di conflitto, di frustrazione, si abdica completamente all’irripetibile situazione di dispiacere controllabile che potrebbe fornire l’ambiente familiare, permettendo ai piccoli di esplorare stati negativi al sicuro. I bambini che piangono non vengono sopportati, e lasciar piangere un pochino un lattante provoca spesso nelle madri di oggi ansie che forse le madri del passato avrebbero sopportato meglio. Quando andranno a scuola se non avranno buoni voti, i genitori piuttosto che arrabbiarsi preferiranno attaccare i professori – e questo di occasione in occasione in occasione spesso in totale buona fede, spesso credendo che il benessere dei nuovi arrivati coincida con il loro sorriso constante.
In questa cornice si inquadra la questione della trasmissione identitaria. Siccome il momento culturale è come dire, adolescentizzato, dell’adolescente si sceglie lo sguardo, la prospettiva, e l’estremizzazione delle opinioni sulla genitorialità. Si da per scontato che al figlio serva solo il potersi trovare, e si crede anche un po’ a torto, che ci si trovi meglio se tutte le porte delle scelte sono spalancate, accessibili, scontate.
Invece io credo che ci siano delle cose importanti da considerare. La prima delle quali riguarda l’investimento emotivo delle porte. Amare è scomodo, amare è antipatico, perché ha sempre addosso un qualcosa di impropriamente attaccato all’altro. E la genitorialità non può non amare per paura di scontrarsi con la responsabilità del sentimento e l’eventuale passo indietro che richiede. Vuol dire, tradotto – che secondo me quando si fanno dei figli non si può o non si dovrebbe poter evitare di fare un investimento narcisistico, una fantasia di prosecuzione di se. Quelle cose li servono perché fanno caldo, perché regalano qualcosa che renderà terribilmente forti: mia madre ha visto in me se stessa, mio padre si è riconosciuto nel mio corpo. Secondo me i bambini hanno bisogno di questa prima follia, di questo delirio di prosecuzione identitaria. E’ un amuleto che si portano in giro da grandi. E ci sta il desiderio di dire, ora anche per le donne finalmente, io facendo questo lavoro sono stato felice, vorrei che tu lo fossi come lo sono stato io, vorrei che tu continuassi quello che sto facendo io, perché io fra poco dovrò smettere. E’ importante dirlo non tanto perché è importante che accada davvero, la qualcosa al benessere del futuro adulto è assolutamente secondaria. Bisogna infatti poi ritrarsi, e sopportare chei quello, come ho fatto io risponda “manco pagato!” oppure come la figlia di quella dottoressa “volentieri, ma a modo mio” ma perché dirlo vuol dire dare una cosa importante ai figli, una cosa che useranno sempre, al di la della soluzione pratica che adotteranno. Dirlo, vuol dire anche sopportare che l’opzione venga rifiutata. Ma ci deve essere la semantica psichica dell’opzione.
(Infine, trovo che sia particolarmente importante, che questa cosa venga detta alle bambine. Trovo che sia importante negli ancora troppo pochi casi in cui un materno professionale si realizzi, materializzi una matrilinearità che riguarda non solo le vie di come essere madri e mogli, essere sessuali ed emotive, ma anche di come essere nel mondo, intellettuali e materiali)