Oggi questo solo possiam dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

In questi giorni ferve il dibattito intorno alla lettera congiunta a firma di Cacciari e Agamben, a cui è seguito un intervento di Cacciari atto a spiegare meglio la sua posizione. Il secondo intervento di Cacciari è un po’ meno mediocre della lettera, che nel complesso è sgangherata e confusiva, ma entrambi mi sembra hanno il merito bizzarro di far reagire altri esponenti di spicco della nostra classe intellettuale, aiutandoci tutti a costruire una riflessione condivisa su come pensare politicamente questo momento della vita pubblica, mettendo insieme per il bene della collettività il binario della fruizione sociale della medicina e della scienza e l’andamento di una democrazia matura. In questa loro funzione mi hanno ricordato il monito di un mio maestro – Francesco Montecchi – che all’esordio della mia formazione di analista disse a me e ai miei futuri amici e compagni di strada: guardate tutti gli analisti più grandi: da tutti imparerete qualcosa, compreso capire tutto ciò che non vorrete mai fare.

Non voglio riprendere qui i contenuti dei due interventi, noti ai più. Ne sintetizzo solo i punti per me salienti. Nella lettera i due filosofi sostengono che imporre il green pass è una minaccia per la democrazia, perché è un atto discriminatorio che ricorda scelte pericolose fatte da governi totalitari, che minacciano la democrazia matura. Lamentano una eventuale preoccupazione per una sorta di ipostatizzazione del green pass, per una sua trasformazione simbolica e provano a mettere in guardia l’opinione pubblica così. In secondo luogo,  e in particolare nel secondo intervento di Cacciari, la resistenza al green pass viene sustanziata mettendo in discussione l’efficienza dei vaccini, la loro utilità pubblica e indicando la presenza di molteplici posizioni nel dibattito scientifico, che è secondo Cacciari troppo aperto per legittimare un obbligo, stante il fatto che le sperimentazioni sono ancora in corso e molte cose non si sanno, i cittadini devono essere liberi di operare un consenso informato che non dovrebbe essere obbligatorio.Questa coppia di questioni, mi pone una coppia di problemi.


1. Il problema del rapporto con la scienza.

Se c’è una cosa di cui abbiamo sentito un bisogno vitale in questi due anni è una classe intellettuale che ci aiutasse a capire la costruzione di un sapere scientifico dal momento che per la prima volta anziché esserne i fortunati beneficiari eravamo gli inermi e spaventati testimoni. Sotto la lente di ingrandimento della comunicazione globalizzata ci siamo infatti trovati a osservare quello che gli storici delle idee hanno studiato sui banchi di scuola: ossia che il sapere da sempre si costruisce piano, con ribaltamenti successi casuali, conquiste territoriali graduali, luminari che dicono sciocchezze e fortunati soggetti periferici che azzeccano qualche formula. Abbiamo dovuto imparare che la soggettività del linguaggio, il situazionismo di genere, di storia, di classe di politica, di storia nazionale influenza la politica della medicina e la medicina sociale, a volte persino la scienza stessa. I laureati in filosofia di solito hanno letto Gadamer, hanno letto due sciocchezze di Popper, hanno un’infarinata sommaria di un Carnap e via di seguito per tutta la storia del pensiero novecentesco che tanto servirebbe a comprendere capire come mai sto covid non lo abbiamo risolto in due mesi, come mai sono state dette delle cose  e poi si è corretto il tiro, come mai ci sono delle contraddizioni che sono apparenti, come mai come mai, e io mi aspetto dai filosofi studiati, che se le ripassino quelle quattro sciocchezze e ci aiutino a sopportare una circostanza organizzando le informazioni. Mi aspetto  da un accademico, pensa due, che non si citino soltanto fonti rapsodiche utili a uno scopo, e manco si frigni che il dibattito è aperto  ma giura, non te se po’ nasconne gnente,  io mi aspetto che le informazioni siano gerarchizzate. Quali pareri si stanno coagulando di più rispetto ad altri nella costruzione di questo sapere? E quali sguardi situati politici e sociali stanno influenzando questi pareri? Per fare un esempio: la Capua fa bene a dire che chi non si vaccina deve pagare la spesa sanitaria pubblica? Lo storico delle idee che ha cognizione di causa delle competenze della Capua, del fatto che questo parere politico esula dalle sue competenze, del fatto che da mo’ che per questioni bioetiche il sistema sanitario nazionale copre i più scriteriati e pazzi, salva i tossicomani avanzati, quelli che si buttano in mare senza nuotare, persino i terroristi salvano,  dico potevano dire qualcosa di intelligente su di lei o su uno Zangrillo? E su tutti gli scienziati che fanno politica usando una posizione professionale che non li legittima affatto? E di contro, è leale corretto ed etico dire, il vaccino non protegge dal virus e non evita di rendere contagiosi, eludendo la plateale questione della riduzione del danno? Il vaccino diminuisce la portata dei sintomi, e protegge parzialmente, ci saranno dei morti ma di meno, dei malati ma di meno, per questo la comunità scientifica ha oramai una maggioranza ben più che risicata nel sostenerne la necessità, e per questo direi le politiche nazionali insistono sui vaccini. 

2. Il problema della questione politica.

Mi colpisce il fatto che Agamben e Cacciari si sentano profondamente minacciati, io credo perché commerciano oramai molto poco con il mondo che abitano. Quando nella lettera ho letto del concetto di discriminazione associato al pass ho avuto un moto di irritazione, ma facevo fatica a concettualizzare perché. Siamo pieni di restrizioni che non interpretiamo come discriminanti, men che mai se di professione mastichiamo la storia delle idee. Se la discriminazione è un’azione del potere che limita la vita dei singoli in base a criteri normativi, anche la patente di guida è una discriminazione, e lo è anche l’esame di laurea per tante professioni, e via di seguito. Forse pure la dimostrazione di un reddito nullo per avere un sussidio e forse anche l’aver scritto un libro per averlo pubblicato. Mi rendevo conto che Cacciari e Agamben giocavano sull’ambivalenza linguistica di un termine che ha un valore neutrale in un certo contesto ma possiede una capacità ricattatoria per le evocazioni di più ampio spettro che porta addosso. Discriminante è l’azione che rinvia io credo a un potere che non solo è esplicito giuridicamente parlando, ma ha degli agganci nei modi di pensare delle persone e in una serie di norme non scritte. Le discriminazioni antisemite, le discriminazioni omofobiche, le discriminazioni razziste, e via di seguito, non riguardano mai solamente il  mondo delle regole scritte, ma anche quello delle regole non scritte, e sono potenti e pericolose nella misura in cui precludono pesantemente l’accesso al potere alle decisioni in modo permanente. Ma il green pass  – per tutti quelli che non vogliono farlo può essere agevolmente sostituito da un tampone che in molte città sta addirittura diventando gratuito e accessibile -grazie ai presidi della croce rossa. Mi aspetto allora che due intellettuali di sinistra, ancora una volta anziché frignare, si occupino dell’accessibilità ai dispositivi sanitari  – per esempio i tamponi non sono ancora gratuiti per tutti, men che mai i molecolari, che costano la bella cifretta di 60 euro. Ma in Italia è da lunga pezza che gli intellettuali di sinistra non trovano abbastanza di sinistra occuparsi della frastagliata e tragica situazione del nostro sistema sanitario nazionale – è poco foucaultianamente cool, noi siamo liberi eh.

Ho però anche pensato che se Agamben e Cacciari sono tanto agitati, e non capiscono perché non lo siamo noi, è perché la loro distanza mentale dal mondo presente, impedisce di capire che di fatto la circolazione di idee nel bene e nel male si è spostata dai luoghi fisici. Le manifestazioni pubbliche vanno perdendo senso, le cellule di partito invecchiano e spariscono, e gli scambi si spostano nell’area del virtuale, della comunicazione scritta, di altre modalità di comunicazione – per le quali invece, occorre tenere gli occhi ben aperti, perché rendono i soggetti pubblici vulnerabili ricattabili, isolabili.
Mi angoscia doverlo dire, perché è un film di qualità infima, che esprimeva in un linguaggio grossolano  e semplificatorio fino al ridicolo questioni che ci si stanno ponendo sempre più frequentemente –  ma forse le lettere pubbliche le dovrebbero firmare gli autori di The Social Dilemma.
In mancanza di meglio.

Un sogno

Quella notte la donna si sognò la sua amica morta. Era pallida elegante e già malata, ma si sposava di nuovo con suo marito, ci sarebbe stata una festa elegante, che il sogno avrebbe girato nella Babele di Bruguel. La sua amica morta aveva il collo rigido e fatato dell’ultimo anno e un lungo vestito bianco e mentre lei era vestita di nero con il suo corpo di sempre, ottimista e generoso. 
Nel sogno parlano, c’è una luce dorata di festeggiamento barocco, un riverbero di broccato e stucco, forse candele – si capisce che il tema del sogno è eros ai tempi di thanatos.

La donna al risveglio vede la luce gonfiare le tende verdi, e allagare il pavimento rovinato. La casa è silenziosa, e alla donna il sogno sale nella mente come una mareggiata lenta,  che ora guarda come si è abituata a fare. Ha cominciato a sognare la sua amica solo quando se ne è andata, come se non si potesse accorgere in vita quali parti simboliche, quali pezzi di sentire e di stare al mondo incarnasse. 
(La sua amica era di natura iconoclasta carnale e dunque molto sentimentale. La malattia l’aveva costretta a una saggezza composta sua malgrado, e questo ora si sognava: il dolore della conoscenza e l’importanza di certe gerarchie sentimentali.
)

La donna pensa dunque al matrimonio che si ricelebra nel sogno, agli affetti che in vita le aveva spiato, e poi di contro – ai suoi sentimenti dell’ultimo tempo, all’uomo che si era ritrovata ad amare, a tutte le lingue con cui aveva tentato di tradurre la parola incandescente. Era grata al sogno per la capacità che aveva di mettere insieme lutto e vitalità, fine e resistenza, era grata all’atmosfera settecentesca che circolava ma anche al senso di resa sottile che aleggiava. Era uno strano sogno cinematografico e verticale, le diceva di imparare usare uno sguardo che nella sua quotidianità non aveva trovato, le insegnava  una resistenza estetica e tollerabilmente dolorosa, e una gentile comprensione di quello che si deve lasciare. 
Un sogno sopportabile sulla morte e su quello che non muore

La donna si alza, abbraccia qualcuno che era rimasto nell’ombra.

(qui)

Genitorialità a scuola. Alcune note.

Premessa:

Vorrei cominciare questo post con delle annotazioni personali.

Sono madre da 12 anni, e sono diventata madre in modo sospettoso e guardingo, figlia di una madre allergica alle retoriche sul materno, e probabilmente anche alle prassi del materno. In un intreccio fortissimo tra personale e politico mia madre aveva lottato contro l’identificazione di lei esclusivamente come genitrice, e aveva rivendicato una fiera ostilità all’estetica dell’accudimento. Quindi dicevo feci il mio primo figlio con scarsa convinzione e pensando che sarei stata assolutamente inadeguata, spesso anche indugiando in una civetteria, che ancora incontro in qualche donna, che un po’ è scaramanzia, un po’ è patto di classe. Andavo al parco a far giocare mio figlio mal volentieri – perché dicevo le mamme soffrono di dentino centrismo, e mi avrebbero annoiato con discorsi sui bambini poco interessanti – e una volta approdata a scuola guardavo con spocchia ma anche ragionevole criticismo i comportamenti degli altri genitori. Non ero nella chat delle mamme, e guardavo ai comportamenti correnti con perplessità.
Non avevo tutti i torti, come scriverò dopo. Ma neanche tutte le ragioni.

Tuttavia, nel frattempo sono successe delle cose: ho fatto un altro figlio, anzi una figlia e credo di aver trovato un modo di fare famiglia che mi sembra ragionevole e piacevole, ho cominciato a trovare questo modo sgangherato e sicuramente molto perfettibile talmente ragionevole e piacevole che ho considerato l’ipotesi di un terzo figlio, anche se poi non l’ho più fatto. Parimenti, nel frattempo mi sono fatta tra le altre mamme delle amiche, che oggi sono tra le più care. Addirittura, partecipo alla chat delle mamme con una disinvoltura spericolata: quest’anno per sbaglio tra i coniglietti pasquali, ci ho messo una foto di Hoouellebecq e Iggy Pop che bevono.

Parte prima: il mondo dove abitano i genitori

Si sente spesso dire di questi tempi: fuori i genitori dalle scuole, e nonostante questo mio cambiamento interno, continuo a pensare che  la protesta abbia diversi punti a suo favore, anche se in fondo, come invece spiegherò alla fine non sono per niente d’accordo. Oggi la genitorialità è cambiata, per moltissimi motivi, e si propone un nuovo tipo di malfunzionamento che non riguarda tutti i genitori – non so bene quantificare quanti e quante famiglie interessi, ma si osserva spesso. Abbiamo nuovi genitori molto apprensivi sul funzionamento scolastico, antagonisti nei confronti dei docenti, molto controllanti sui figli, molto partecipi rispetto alle loro attività e che alle volte si sostituiscono direttamente ai minori, salvo poi lamentarsi davanti a uno scarso rendimento che il bambino o il ragazzo  non è correttamente stimolato. Assistiamo a situazioni bizzarre di genitori che sfidano i professori e magari gli mettono le mani addosso, ma anche di genitori che una volta su due fanno i compiti al posto dei figli, e prima ancora dei compiti che si occupano di fornire stimoli intellettuali importanti ai bambini quando sono in età prescolare. Mio figlio, mi disse una madre di un bambino di 4 anni, prende lezioni di inglese tutti i giorni, perché le lingue sono molto importanti.

Questo interesse parossistico per la prestazione non si coniuga con una passione per la sanzione, che era il pane quotidiano dei nostri di genitori, e questi genitori non solo non amano che i propri figli siano sanzionati dai docenti, ma fanno un’enorme fatica a punirli in prima persona, a dar loro dei confini e delle regole, e a concepire una violazione, sono pervasi da una logica della comprensione ma si avverte tangibilmente una difficoltà emotiva reale a sopportare la rabbia o il dispiacere dei piccoli, e ancor meno la sfida degli adolescenti, e quindi quando il figlio non rispetta un dovere o un compito, non riescono a esprimere una obbligo. Per quanto tutte questi comportamenti siano attuati in buona fede e con una convinzione che è anche l’esito di una sincera riflessione, gli effetti sono piuttosto deleteri. Lo psichiatra Marco Tarantino una volta  definì queste conseguenze con una sintesi molto efficace: poco superio, molto ideale dell’io, e che qui possiamo sviluppare con: poco senso di colpa molto narcisismo. 
Ora, un dosaggio benigno di narcisismo è una cosa auspicabile in tutti, ma se manca l’esperienza di confine, di limite, di sanzione, e di responsabilità, questo narcisismo diventa molto meno salubre – e completamente svuotato dall’interno. In primo luogo i l limite crea pensiero, produce creatività, costruisce identità molto più della sua assenza, quindi diventerà probabilmente un adulto più definito consapevole di se e dei suoi desideri un bambino che abbia patito delle regole di uno che abbia avuto carta bianca –  ma in secondo luogo e forse è più importante, un bambino e un adolescente che esperiscono la regola e il confine, mutuano dall’esterno una scatola contenitiva che serve all’interno, e reggeranno meglio emozioni negative, depressioni, situazioni avverse. I bambini in effetti hanno bisogno di scatole, che non siano sempre di dolci – e forse questa esplosione di ADHD, la diagnosi che racconta cosa succede ai piccoli quando non sanno come fare per gestire depressioni intrusive che spezzano la concentrazione e i processi logici, ha anche a che fare con questa complicata questione. 


All’origine di queste nuove prassi ci sono macroscopici cambiamenti di cultura e di costume, che sono diffusi in tutto il mondo occidentale ma che trovano nella situazione italiana una particolare declinazione. Se da una parte nel mondo occidentale molte più donne lavorino, e in tutti i paesi questo si correli con una diminuzione del numero di figli per nucleo familiare, in Italia si assiste al bizzarro fenomeno della natalità più bassa unita a una forte disoccupazione femminile e uno stato sociale particolarmente lacunoso. La nostra avventura ideologica e politica nelle democrazie avanzate è infatti particolarmente soave, e siamo quelli che uniscono il peggio di tutti i mondi a disposizione: l’individualismo monadico dei capitalismi avanzati con una solida assenza di servizi per la famiglia come nei paesi del terzo e quarto mondo, accorpando a questo una ideologia sempre più condivisa a cui tutti partecipiamo con convinzione che tende a svalutare qualsiasi funzione di cura privata a discapito della prestazione pubblica. Siamo infatti contenti di non saper stirare, ci vantiamo di non saper cucinare, una volta in possesso di un reddito che ce lo permetta deleghiamo le funzioni di cura a terzi: badanti per i genitori anziani, baby sitter per i bambini, e all’occorrenza maggiordomi anche per i cani da appartamento. Tutti vogliamo fare certe cose – lavorare, guadagnare – in pochissimi vogliono farne altre.Spesso, forte è anche la componente esterna, sono molti i contesti che chiedono molte molte ore di lavoro, e la delega delle funzioni primarie diventa un fatto obbligato o quanto meno la pressione lavorativa non fa prendere sul serio il ruolo di accudimento come meriterebbe. Quanti infermieri possono chiedere di non passare la notte in ospedale? Quanti lavoratori di fabbrica possono vantare un posto di lavoro talmente vicino a casa da poter davvero dirsi di essere occupati solo le 40 ore concordate? E invece nell’angosciato mondo delle libere professioni che in Italia si moltiplicano più che in tutti gli altri paesi – quanti non vi diranno di essere costretti a lavorare moltissimo per reggere la concorrenza? Quanti sono i contesti professionali che cannibalizzano letteralmente lo spazio privato? Abbiamo idea dei costi privati che chiedono l’avvocatura, gli ospedali, o anche l’immenso ed esteso sottobosco della politica? 

Con queste premesse i nuovi genitori fanno pochissimi figli, uno se va bene due, e hanno comportamenti verso i figli in primo luogo determinati dal numero: il figlio è il nostro testimone dopo la morte, la nostra continuazione, la nostra eredità e ora la nostra eredità, il dna che cammina nel tempo, è affidata a pochissime teste. E’ normale che la quantità di fiato sul suo collo preziosissimo sia fuori misura, è una cosa psicologicamente incontrollabile. In secondo luogo se da una parte molti contesti lavorato esigono una quota esagerata di ore, dall’altra molte madri di questi figli, in un paese tra i più maschilisti in Europa, lavorano meno che in altri paesi, quando lavorano spesso hanno meno possibilità di fare carriera, spesso lavorano poche ore durante il giorno. Come ebbe a spiegare una volta Francesco Montecchi in una lezione che mi rimasse in presso: perché una madre sia sufficientemente buona, o deve lavorare o deve fare almeno tre o quattro figli. E’ difficile che non faccia sbilanciati investimenti senza lavorare con un figlio solo. A quel punto abbiamo dei genitori con pochi figli, uno – due – e i pochi figli sono molto complicati da gestire emotivamente. Sgridare un sindacato di bambini è molto più facile emotivamente che sgridarne uno, che è da solo. Essere una coppia di genitori solidali con un bambino piccolo è infinitamente più difficile che esserlo con due piccoli. Ci si sente molto in colpa. 

Tutto questo infine va iscritto nel passaggio di costume che hanno implicato le nuove tecnologie tra smartphone e uso dei social. Tutti oggi siamo molto più collegati gli uni agli altri più presenti alle nostre comunità di appartenenza, e più riconoscibili nelle nostre identità private, non è tanto una nuova epidemia di funzionamento narcisistico ma si tratta proprio di una mutazione di sistema esistenziale e comunicativo, tutti siamo adesso iscritti in una logica di branding della personalità che suggerisce di raccontare pubblicamente una identità privata, e di usare il privato come piattaforma pubblica, quello che siamo nel nostro privato non è più un fatto personale ma una definizione di se  continuamente riscritta e riproposta – con le nostre foto profilo, con i racconti che facciamo alla nostra bolla di contatti, con i pareri che dichiariamo di avere nelle numerose chat di gruppo che sono fiorite con la nascita di whatsup e di cui quella delle mamme è in fondo solo una delle tante, hanno la loro chat i figli che vanno a scuola, le hanno gli amanti e le amiche, le hanno i dipendenti e i vertici di azienda. Perché questi sono anni in cui alla teoresi della rappresentazione di se vanno insieme alle collettivizzazioni delle esperienze ai gruppi di interesse per qualsiasi cosa. E’ un nuovo funzionamento sociale, che possiamo pure stigmatizzare, ma che ha anche degli oggettivi vantaggi: i nuovi microcircuiti offerti da questi gruppi permettono infatti: un aumento di circolazione di informazioni, un aumento degli scambi tra persone, un aumento delle forme intermedie di sostegno emotivo. Svolgono un ruolo di notevole aiuto quando chiunque in qualsiasi ruolo attraversa una fase di difficoltà: vale per i gruppi di neomadri che affrontano neonati difficili,  vale per per i gruppi di malati di tumore che affrontano effetti collaterali della chemio, vale per gli psicologi che cercano lavoro e magari sbagliano un colloquio importante in una onlus, vale per i genitori che hanno un problema con il figlio che non vuole andare a scuola. Tutti siamo un po’ più pubblicamente di quanto siamo mai stati.  E in questa nuova declinazione esistenziale tutti siamo sostenuti nella nostra identità costellata al gruppo: Psicologi. Genitori. Calcetto. 

Nuove patologie del sistema familiare

Dunque questa è la piattaforma di fondo che spiega gli estremi di una nuova genitorialità in cui spesso e volentieri i docenti si confrontano con genitori intrusivi, sfidanti la classe docente, iperprotettivi verso i figli, deresponsabilizzanti, che spesso e volentieri si sostituiscono ai figli. Non tutti i genitori sono così va detto, ma in parte ci sono dei comportamenti diffusi a cui i docenti non sanno letteralmente come opporsi, in parte ci sono nuovi comportamenti particolarmente gravi, che sono relativamente nuovi, e che statisticamente ce ne è almeno un paio per classe di minori. 
Per quanto riguarda il primo fenomeno gli insegnanti, non riescono – a quel che mi è dato di osservare – ad arginare la tendenza per esempio diffusissima alle elementari e sto osservando permanente anche nelle scuole medie – di assumersi responsabilità che dovrebbero essere dei figli: è abbastanza normale cioè che i genitori oggi: sappiano al posto dei figli che compiti ci devono essere, sappiano al posto dei figli che materie devono portare a scuola, è piuttosto diffuso che facciano i compiti con i figli – qualche volta al posto dei figli. Ci sono anche genitori che organizzano i giochi dei figli. Questa cosa è pedagogicamente e psicologicamente negativa perché va in direzione ostinata e contraria all’apprendimento, ma è l’esito del dispositivo delle chat di classe messe in mano a persone che hanno pochi bambini e spesso molto tempo – e questo tempo non è sotto controllo di una classe docente – a sua volta gravemente svalutata e non sostenuta invece nel suo ruolo, per cui o un genitore ha la fortuna di incappare in quel tipo di insegnante  – grazie a Dio ce ne è – che ha la forza di assumersi un carisma, che se ne sbatte e li cazzia a dovere, oppure fa la voce grossa in presenza o in assenza e non si accorge di cucinare un nevrotico che un domani farà molta fatica a fare un qualsiasi lavoro. 

Per quanto riguarda la seconda questione invece, il problema non è particolarmente di questo tempo, perché è il problema del dispiacere dell’incertezza e della sofferenza e in sostanza della mancanza di salute psichica per cui: non è che i genitori di oggi siano più nevrotici e infelici e sbaglino di più di quelli del passato. Purtroppo il dolore l’inadeguatezza e l’infelicità e le storie di vita tristi sono un dato immanente all’umano, ogni momento storico sceglie il vocabolario con cui esprimere queste cose, ogni momento storico indica gli errori più adatti a se e il linguaggio con cui esprimere le psicopatologie. Traqnuillizziamoci: i nostri padri e le nostre madri facevano altrettante stronzate, solo diverse erano infelici come noi, solo in modo diverso. In passato le patologie della genitorialità erano sulla coartazione, il disinvestimento, la castrazione attiva, l’irrisione. Patologie frequenti  per fare un esempio, ma ce ne sarebbero altri, erano padri che allo scopo di non avere concorrenti potenti eviravano simbolicamente i figli col disprezzo. Non era più bello era il vassoio di quel tempo. Oggi abbiamo altri vassoi

Quando si dice, fuori i genitori dalle scuole – benché si reagisca a un problema nuovo e oggettivo Si fanno due operazioni. La prima è quella di occultare completamente il valore politico della istituzione scolastica e della partecipazione all’istituzione scolastica. Fuori i genitori della scuola è molto più parente della dilagante impolitica, del fatto che non si trovi uno che voglia fare il sindaco di Roma, dei genitori che invece vogliono sapere cosa succede nella classe dove mettono i bambini. La civetteria con cui si maltrattano istituti come la rappresentanza dei genitori o i consigli di classe è una civetteria che teoricamente crede di avere a mente cose molto più importanti, ma che in realtà combacia con una nevrosi dell’azione politica. Non credo che sia davvero intelligente sperare che i genitori non entrino a scuola, non sappiano cosa facciano gli insegnanti, non si interfaccino con la classe docente, non parlino tra loro. Non credo che se molte piante hanno la cocciniglia il vero rimedio sia estirpare le piante. Non penso che sia davvero intellettualmente serio colpevolizzare le piante per via della cocciniglia, mi pare un atto poco responsabile e davvero ponderato. Nella difficile situazione collettiva di una numericamente povera eredità generazionale, prendere le distanze dall’identificazione col padre ansioso fa assumere le vesti del figlio adolescenziale e riottoso, con il che non si va molto lontano.

 Io non ho particolari ricette per un problema che esiste. Che il problema esista lo vedo e lo vedono tutti i miei colleghi che cominciano a vedere sempre di più gli effetti di questa tendenza sui giovani adulti che arrivano in terapia, con una nuova fenomenologia dei sintomi che appare quanto meno molto più frequente di un tempo.  Ora in realtà siamo ai primi effetti di un cambiamento in atto, e se ne potrà parlare meglio fra qualche anno, con molto più dati e un passaggio che sarà consolidato – ma per fare un esempio, ora ci si confronta con un nuovo tipo di giovane paziente che ha queste due caratteristiche: fallisce in una serie di obbiettivi, i quali però hanno tutti, invariabilmente, la caratteristica di non essere molto investiti libidicamente, non lavorano, non studiano, hanno degli amici e delle relazioni anche esse dal sapore annacquato, e una violenta resistenza a qualsiasi progettualità. Conoscono divertimenti, in diversi casi divertimenti da sostanze, ma hai sempre la sensazione di una libido a mezzo servizio. Ora se questi sono pazienti, è evidente che la questione non può essere sociologica e culturale ma è come se nelle in cui ci sono delle pregresse problematiche di vario ordine e grado – genitori satellitari, lutti, depressioni, scarse sintonizzazioni emotive le tristi vicende con cui tutti combattiamo – venisse a mancare quell’ancora di salvezza che è la sollecitazione all’investimento libidico fuori dalla scatola della casa, e quella sollecitazione è sempre provenuta da scatole un po’ troppo rigide per le richieste dell’infanzia e dell’adolescenza. Quando le cose vanno bene in casa, sufficientemente bene anche in questo sistema, i bambini e i giovani adulti trovano le loro strade, quando le cose vanno male, e il confine non è rigido, non c’è sanzione, quale motivo ha il figlio per uscirsene? L’assenza di sanzione scoraggia la maturazione. Se quando si prende 4 il professore ha torto, non c’è motivo di prendere 6, men che mai di prendere 7 diventare professore è fuori discussione.

Il problema è grave e complicato perché si innesta nelle sfere private, e si correla a comportamenti che sono deficitari in maniera controintuitiva, e che sono come dire il contrario di altri che però sono lesivi per i giovani in maniera più plateale: la mancanza di accudimento e l’aggressività sono chiaramente per tutti qualcosa che fa male ai piccoli. Ma come si fa a intervenire nel privato per un eccesso di accudimento? E’ difficilissimo che i genitori si percepiscano come deficitari nel fare queste cose,    perché sentono in buona fede di cercare di fare il meglio possibile – sono nella maggior parte dei casi, decisamente meno virulenti di quelli .  Come fanno i poveri docenti così angariati nella percezione collettiva, così svalutati, a intervenire su qualcosa che tecnicamente non è di loro pertinenza, come la ridondanza delle chat delle mamme? 

Per il momento mi vengono in mente solo due possibilità. La prima riguarda i contributi che possono fornire i miei colleghi – soprattutto quelli che lavorano come sistemici relazionali e quelli invece che lavorano come psicologi dell’età evolutiva – e che dovrebbero parlare sulla stampa e sui media di questo fenomeno in maniera competente e non ridicolizzante e svalutante, in modo da rendere il più fruibile possibile all’opinione pubblica il problema di questo cambiamento di paradigma. La seconda riguarda una riflessione collettiva sui ruoli e sui poteri della classe docente, e forse una riflessione e un’azione all’interno della stessa classe docente, che deve trovare il modo di riuscire a far passare nel privato che questo comportamento deve essere modificato. Altro onestamente per ora non mi viene in mente. Sono diciamo degli appunti.