Diario (Psicoanalisti a Napoli)

Premessa

Percepisco Napoli come una strada che avrei potuto percorrere e ho lasciato. Ci andai una prima volta molti anni fa, a tentare un dottorato. Arrivai seconda allo scritto – ma quando discussi il mio progetto – la cui idea è alla base del mio ultimo libro – fu giudicato troppo reazionario. Io non insistetti gli anni successivi, più per sentimenti fortemente ambivalenti verso la carriera accademica, che per sentimenti verso Napoli, dove invece ritenni, e continuo a crederlo ancora oggi, che potrei viverci con relativo benessere.  Se le risorse di Napoli sono un cibo adatto al mio stomaco, le difettualità di Napoli un’ostilità che blandisce la mia struttura coriacea e nonostante le apparenze piuttosto forastica. Lavoro in un seminterrato, vedo solo chi davvero desidero, mi tengo a debita distanza da strutture organizzate, mi accanisco tuttalpiù con lo sguardo, sono brava a schivare le rogne. Di contro, anche qualche anno dopo quel primo incontro, quando in una sola giornata inanellai: santa Chiara, l’orchestra di ragazzini che cantavano canzoni napoletane, le sfogliatelle, un tentato scippo, uno che cercò di truffarmi cadendo malato per terra, il mare, la bancarella di cazzi di porcellana con le ali, io sentenziai che all’indomani ci potevo tranquillamente prendere casa e rimanere. 

Un’idea astratta, scollegata dalla mia vita che per intanto si incatenava ad altri percorsi, la mia professione e il mio privato crescevano a Roma, città che amo e dalla quale in ogni caso mi difendo ugualmente, e se mi sono allungata in un altrove di riserva quell’altrove è Venezia, dove vado spesso, dove metto a germogliare seconde opportunità professionali, a cui sto dedicando il libro che ora ho in consegna, e che in effetti mi è affine se non altro perché tutti quei canali costituiscono una seconda barriera di sicurezza.

 Ma ecco.

Nel libro che vado finendo su Venezia onirica, una parte consistente riguarda la simbologia dell’acqua nei sogni delle persone. Molti dei miei sognatori mi hanno raccontato di come hanno, nei sogni, reagito alla montata dell’acqua alta, interpretato l’acqua nei canali, se in quest’acqua il loro inconscio ha messo delle bestie amiche o bestie nemiche, se hanno nuotato o si sono rifugiati nelle calli.  Questo capitolo sull’acqua nei sogni  mi è venuto molto bene penso, perché in effetti l’acqua è un elemento simbolico forte –  se non altro per l’esperienza materiale che condiziona le nostre associazioni: l’acqua è collegata a aspetti erotici e vitali: l’acqua irriga, fa nascere cose, dove non c’è acqua il panorama è desertificato, l’acqua  – in qualche modo, direbbe la freudiana zuzzurellona che mi alberga dentro, ha a che fare con l’eccitazione sessuale femminile.  Ben per questo molti miei sognatori invece s’erano presi dall’iconografia veneziana l’acqua alta come prova generale della montata degli affetti e degli istinti – e naturalmente molte sognatrici. 
Ma finito il capitolo sui i sogni con l’acqua a Venezia, sono dovuta andare a Napoli al seminario residenziale che ciclicamente organizza la mia associazione analitica, l’Aipa.  Analisti si incontrano e per due giorni lavorano in piccoli gruppi sulle loro esperienze cliniche con i pazienti. Mi ha colpito allora notare come qua e la, nell’esperienza dei gruppi di lavoro, tornava l’elemento dell’acqua come oggetto simbolico che suppurava, vuoi dalle esperienze cliniche che portavano nel gruppo, vuoi dalle loro stesse visite in un’altra città d’acqua, Napoli, misteriosa e piena di ambivalenze. Alla riunione plenaria del seminario, dove venivano lette le relazioni dei piccoli gruppi, mi colpiva l’emergere di una simbolica acqua sporca, fetida, piena di batteri. L’ondata simbolica dei pazienti di cui si parlava, e la riflessione che poi si inanellava con la mia, di un’acqua si piena di batteri ma ricca, vitale, piena di cose vive, contaminanti. Li ascoltavo e pensavo che in primo luogo io avevo intervistato non pazienti, mentre qui i colleghi parlavano dei loro assistiti, in secondo luogo però consideravamo l’acqua sporca si, ma piena di possibilità creative, un simbolo complesso della città, un suo simbolo emotivamente difficile da gestire. 

Alla fine del seminario residenziale, alla riunione plenaria, quando ancora noi annuivamo gravemente alle parole del presidente dell’associazione che chiudeva i lavori, dalle nostre spalle veniva spernacchiando e rotolando un pulcinella ondivago e indemoniato, che poi cominciava a saltellare per la sala e a declamare versi. Una brillante trovata degli organizzatori napoletani.  L’inconscio è una cofana di guai – diceva questo nuovo trickster, questo piccolo e imprevisto perverso polimorfo, e noi incantati prendevamo appunti, ah che cosa, ci dicevamo dandoci di gomito contenti. Poi Pulcinella si toglieva la maschera, ne usciva fuori una giovane attrice molto colta, che ci faceva una bella lezione sul simbolo di Pulcinella, sulla sua storia. La lezione era molto bella, io ne ero stupita, e trovavo che se c’è una cosa che davvero rappresenta Napoli non è Pulcinella in se, non è neanche l’attrice brava che parla al convegno degli psicoanalisti, è proprio la capacità di unire le due cose, la contaminazione intellettualmente rigorosa, il basso che arriva all’alto e diventa cultura. Avevo tentato un dottorato a Napoli, anni prima, perché è uno dei pochissimi posti in Italia dove si fanno Cultural Studies in senso stretto, e con rigore. Dove si fa cultura mescolando piani culturali, piani di classe, piani endopsichici della coscienza. 

A pensarci in effetti, anche sotto il profilo urbanistico, soltanto nel secondo novecento, Napoli aveva abdicato alla distribuzione sociale e di classe che connota le città tutte oramai, e per altro con un’adesione piuttosto lacunosa. Secondo questa prospettiva, il centro storico diviene il salotto buono della città, dove anzi nel centro più centro oramai stanno le stanze degli ospiti, poi ci sono le case belle dei signori ricchi, anche quando strutturalmente è evidente che sono case dove un tempo stavano i signori poveri, e poi via via di cintura periferica in cintura periferica la borghesia si rimpicciolisce fine ai casermoni del sottoproletariato urbano e periferico. Napoli invece per molto tempo, e questa cosa salta all’occhio anche oggi, è stata una miscellanea interclassista per cui in caso, al di la di quartieri più o meno malfamati, la divisione in classi si organizzava per piani nei palazzi. Ai piani alti case belle e nobiliari, ai piani bassi appartamenti incasinati dove convivevano molte persone, in una miscela costante che rendeva la città a sua volta particolarmente intensa emotiva e coesa, molto colorata, molto erotica e vitale. E penso, per inciso, che sia anche per questo che ho sentito pronunciare sempre il quartiere “Vomero” da parte di amici napoletani, con un particolare disappunto, con una recriminazione che per esempio i nostri Parioli non subiscono. Roma è abituata al potere che si dichiara tale e si mette da una parte. Roma eventualmente ha tutto un suo sapore antifrastico e iconoclastico.  Il potere è la in quella rocca e il romano lo disconosce.  A Napoli il ricco che se ne vuole stare nel quartiere ammodino, ha qualcosa di davvero immorale.
D’altra parte, siccome la città ha avuto negli anni grandi problemi di disoccupazione, povertà e indigenza, purtroppo a questa stessa vitalità è correlata un’alta criminalità, e una serie di patologie del tessuto urbano che hanno a che fare con l’autodistruzione: la droga, la coazione a ripetere della marginalità, la piccola truffaldineria della sopravvivenza. E un altro fenomeno che noi non napoletani osserviamo, è l’esodo incazzato e livido di diversi Napoletani di talento, addolorati e arrabbiati perché la città del loro cuore non si vuole curare, e loro se ne vanno perché dicono che se no si sarebbero ammalati con lei. I Pino Daniele – per capirsi. Ma l’Italia ne è piena.

In ogni caso, e questo è per molti visitatori destabilizzante, Napoli non è una città per la scissione, psicoanaliticamente parlando. Non ti permette di scindere parti idealizzate e parti da non vedere, non ti permette quelle nevrosi intollerabili di altre città apparentemente più sane, dove ci sono quartieri bellini e tutto funziona bene e tutto gira, e i sindaci rifanno i marciapiedi, e gli autobus passano, e i cassonetti non traboccano, e periferie che affondano nel degrado della rimozione culturale, con i cinghiali che banchettano, i gabbiani pure, la prostituzione i preservativi usati e coltelli agli angoli delle strade, con i signori della famiglia uno (caucasici) che danno fuoco alla casa dei signori della famiglia due (rom). O meglio – purtroppo c’è anche questo ma – ma  a Napoli tutto è compresente e mischiato, e quindi l’onere del benessere psichico sta tutto negli occhi di chi l’attraversa: se ti focalizzi sui batteri sei fottuto, se ti focalizzi sulla creatività possibile sei un signore. Questo mi faceva pensare, che un analista non può non stare bene a Napoli. Il che per un verso mi pareva molto bello, e per un altro eticamente molto problematico. Pensavo al monito di un prestigioso collega, Gabbard, che in psichiatria psicodinamica aveva ammonito i giovani colleghi, sul fatto che a vedere i sintomi sono buoni tutti, gli analisti sono quelli che vedono le risorse. E quindi mentre pensavo, che Napoli è un posto dove in mezzo ai sintomi è molto fascinoso e bello trovare le risorse, come se la città fosse uno di quei pazienti che dici, cazzo ma guarda questo che talenti che ci ha, guarda che testa, questo bisogna aiutarlo questo può fare grandi cose, io provavo uno strano senso di colpa, uno strano senso di colpa professionale e politico. Mi sentivo un po’ una parassita. Mi ricordavo quelle persone che con sussiego dicono Mi piace molto quell’atmosfera decadente e che di solito mi fa rispondere mentalmente, ce credo, perché non ci abiti, con un certo biasimo e in alcuni disgraziati casi anche qualche parolaccia. E inn qualche modo cercavo di aggiustare il tiro.

Al ritorno dalla mia gita a Napoli, per concludere un’esperienza che era stata così intensa e piacevole, mi compravo un libro che non mi avrebbe delusa sia perché nella sua struttura per me rappresenta quest’essenza di Napoli: vedere il casino, capire il casino, costruirne una visione colta dall’interno, farsi germe benefico osservando il campo dell’acqua sporca, sia perché mi faceva rimanere sulla soglia dell’etica professionale e dell’etica politica, di chi non deve compiacersi dei guai altrui, dell’acqua sporca, pur rimanendo capace di guardare le cose belle sul fondale, e aiutare qualcuno o qualcosa, a pulire l’acqua. A irrigare.

Si tratta del nuovo libro di Simona Frasca, che ricostruisce con divertimento e competenza la storia della famiglia Frattasio, che tra gli anni 80 e 90, misero in campo una piccola azienda di pirateria musicale che per un certo periodo sarebbe stata nota in tutto lo stivale, con le cassette che giravano sotto il nome di Mixed by Erry,  e che io stessa, da ragazzina avevo incontrato a Porta Portese. Tutto quello che confusamente sentivo dalle case zozze in mezzo a Chiaia a Pulcinella, dai quartieri spagnoli all’acqua sporca sta ordinato in quel libro, e anche quel problema analitico e di deontologia professionale che mi poneva il tema dell’acqua sporca.Questo problemal’ho trovato ben delineato, nei suoi estremi nelle parole del  maestro Beppe Vessicchio,noto direttore d’orchestra al festival di Sanremo, ma musicista di lungo corso e napoletano di sguardo acuto, che a un certo punto del volume, parlando dei campioni della  pirateria  musicale che è stata per un lungo periodo, essenza della città, dichiara:

“si potrebbe dire che loro sanno di agire nell’illegalità, ma non riescono a percepire che danno generano al sistema, perché loro stessi non ne fanno parte. Noi invece sappiamo che il sistema non ce la fa ad accogliere produttivamente tutti offrendo a ciascun un ruolo sociale, ma non riusciamo a percepire l’effetto dannoso che questo arreca.” 

Vessicchio cioè diceva, la pirateria è un sintomo anche se risolve una domanda compiendo un’azione che rivela delle risorse. In quanto sintomo è adattivo, non si rende conto di essere disfunzionale. Per altro verso le parti sane del soggetto culturale, fanno fatica ad accogliere tutte le istanze psichiche che provengono, e non accogliendole non si accorgono di quanto questo sia patogeno. 
L’analista, pensavo in cuor mio, nella sua azione individuale e politica, è quello che deve fare un po’ da ponte tra queste due sponde. La pirateria dell’inconscio che inventa cose ma scassa la coscienza, e la coscienza omogeneizzante che tende a espungere le richieste inconsce.