Trump

L’immagine di Trump che firma, con altri sette signori dietro le spalle, il provvedimento per cui non sarebbero più stanziati i soldi per le associazioni che negli fuori degli USA garantiscono la possibilità di abortire alle donne prive in difficoltà – è un’immagine di notevole impatto emotivo e mediatico, riporta a dicotomie antiche – che per esempio la mia generazione non ha vissuto a lungo, come portato simbolico: la nostra complicata situazione sull’aborto anche in Italia ha oggi contorni completamente diversi e relativamente più evoluti. La radicalizzazione delle opinioni sulle questioni di genere infatti mutando l’organizzazione dei fronti, e se negli anni settanta il maschile si identificava con il reazionario e il femminile con il progressista, oggi abbiamo uomini che fanno del femminismo – come Lorenzo Gasparrini il cui lavoro è ora nelle librerie, e donne che fanno del maschilismo – tante: come Costanza Miriano lei anche sempre presente in libreria. La dannata questione dell’obbiezione di coscienza che impedisce a molti ginecologi di praticare l’aborto è una questione che non riguarda solo ginecologi uomini – anzi. Nel disastro di questa problematica è comunque un passo avanti, quanto meno nella direzione dell’onestà: il maschilismo è una posizione politica, un modo di desiderare un’organizzazione sociale, da secoli condivisa da uomini e donne. Il femminismo lo è altrettanto, e se prima era una proposta politica portata avanti solo da chi apparentemente sembrava trarne maggiore beneficio, è diventata presto un oggetto politico influente – per molti maschi, più rispondente alla situazione materiale della loro contemporaneità. Anche volendo non ci potrebbero stare con la moglie a casa perché i soldi non basterebbero – e portare i soldi è da sempre, la traduzione più materiale del potere – oggetto solitamente immateriale. Quando si riesce a lavorare tutt’e due, anche impieghi molto modesti e a basso salario, la questione dei soldi a casa di chi e come, diventa dirimente – cambia le politiche private.

L’immagine di Trump, apparentemente retrodata la questione in un contesto però postdatato rispetto a noi. Faccio notare per esempio, che secondo i dati eurostat riferiti al 2015 mentre in Italia le donne che lavoravano erano solo il 43 per cento – di tutti gli occupati, negli Stati Uniti si arrivava al 63 per cento. Una differenza di occupazione che dall’organizzazione economica dei nuclei familiari passa a una diversa organizzazione relazionale, ideologica, linguista sui rapporti di genere: come ognuno di voi avrà potuto toccare con mano qualora avesse avuto modo di conversare per più di dieci minuti con un americano in Italia. Naturalmente quei dati percentuali risentono come d’altra parte da noi nel nostro piccolo di forti differenze territoriali, e insomma ognuno ha il suo Sud, ma di fatto quel Sud è diverso dal nostro, è diventato un’altra cosa. In quel tipo di organizzazione politica – dove non ci si fanno troppi problemi sull’opportunità delle quote rosa, per fare un altro esempio e dove il cambiamento narrativo su maschilismo e femminismo di cui si diceva sopra è avvenuto ben prima di quanto capitasse a noi– Trump rappresenta una sorta di oggetto di lusso, per quanto io credo davvero pericoloso, un’iconografia che si avverte come moderatamente nociva perché attaccherà i cittadini di terza classe, non le donne nei villini di provincia, ma quelle dentro alle roulotte, non gli immigrati specializzati nelle fabbriche ma i poveri stronzi senza arte né parte, ed ebrei e omosessuali se saranno sfortunati si beccheranno qualche cazzotto e una macchina incendiata – ma se no se ne staranno nella consueta e ambigua posizione di una mezza cittadinanza, e il sogno della classe media potrà sempre dire che il loro dispiacere è una decorazione estetica, da radical chic – ai Mentana d’oltreoceano come per altro da sempre ai nostri, potrà sfuggire la questione imbarazzante del gay proletario. Ora siccome la crisi in America incalza e stante a quelle medesime statistiche la disoccupazione è scesa di diversi punti nell’intervallo dal 2004 al 2015, i puntelli simbolici per dire a tutti di essere americani della classe media, o di una borghesia piccina picciò ma pur sempre borghesia sono la strategia di una destra, che come sempre in simili circostanze starebbe nei guai. Se nella crisi non c’è trippa per liberali – almeno restringiamo il cerchio dell’identità e si lasciamo fuori, gli immigrati tutti, i froci e i giudei e donne palesemente squattrinate .icona mediatica di un dimenticato lumpenproletariato. La tradizione liberale illuminerà di folclore le sortite verso chi non è mai stato abbastanza wasp per essere preso in considerazione. E d’altra parte i loro tassi occupazionali rimangono ancora molto più alti dei nostri, con le donne americane che anzi continuano a lavorare tanto, mentre le italiane lavorano sempre di meno.  Trump è il leader per un paese di borghesi, altro che le stronzate che ci raccontiamo noi – mentre Grace Paley sembra lontana. Tuttavia, non sappiamo quanto questo giocare col fuoco dei lussi liberali tipo, conquiste esiziali come questa, costerà alle donne americane.

Di tutta questa questione dunque, si possono fare diverse letture, non così immediate: poche cose sono infatti funzionali al capitalismo come l’aborto, che potenzia le scelte, allarga per tutti lo spettro dei consumi, e potenzia la sostituzione delle relazioni con la merce: un maschilista reazionario come Horkheimer ci avrebbe scritto cose terribili sopra. E anzi mi ricordo lo sguardo severo con cui giudicava la semplice contraccezione in una delle ultime interviste che rilasciò – oh, correva il 1972, oggi Giulietta direbbe: eccomi Romeo, prendo la pillola e sono subito da te! E qualcosa di azzeccato lo intuiva – che chi fa il mio mestiere pure se favorevole alla 194 come è il mio caso, non può fare a meno di ignorare. Fatto sta che io credo che oggi molti uomini – altri no, ivi compresi molti di quelli che ne riconoscono la necessità giuridica – vadano assolutamente pazzi per l’aborto, lo adorino e quando dicono di essere tristi per il bambino che non nascerà – mentono. L’aborto dell’amante ha garantito la tranquillità di un matrimonio una volta, e il buon nome della famiglia un’altra, e certamente la possibilità di finire gli studi una terza. Ma soprattutto, siccome sono pur sempre i primi che ammazzano nelle andranghete, nelle pene di morte e nelle guerre, sono pure quelli che se proprio sono tristi davanti all’idea di morte, lo sono perché non possono decidere se darla loro.

L’umanità è imperfetta, e Karen Horney è una pioniera della psicoanalisi mai abbastanza valorizzata per aver intuito la profonda invidia che deve attraversare l’identità maschile di fronte al potere generativo della donna, il senso di smarrimento che pervade quando ci si accorge che l’unica lotta possibile all’immortalità è nel corpo di lei, e i due contributi saranno impari. LA gravidanza, è un potere di specie a cui qualsiasi esperienza individuale rimane subordinata – ma è anche un campo simbolico della propria identità che non ha eguali. Uomini e Donne nascono da una gravidanza, e questo rende il ventre femminile, vuoto oggetto di una ineludibile attenzione emotiva, canovaccio delle più disparate proiezioni simboliche, e anche grimaldello delle più diverse reazioni psicologiche. Non a caso, come sanno le persone che si occupano di violenza di genere – il momento in cui in una coppia cominciano le aggressioni e le percosse verso una compagna, combacia spesso con la prima gravidanza di lei.

Simmetricamente, esiste una vulnerabilità alla psicopatologia femminile, che fa mal tollerare il proprio potere generativo, e che decodifica con angoscia il passaggio alla genitorialità non solo di un bambino singolo ma, l’accesso a un ordine di senso che implica l’essere madre, un nuovo campo di decodifica e di lettura simbolica della realtà – che forse è lo stesso per cui certe volte mi chiedo è così lento l’ingresso delle donne nell’omicidio e nell’aggressione fisica: viene da sospettare che l’archetipo della madre viva nella donna ed esploda nella sua capacità generativa, per cui per la donna ogni altro può anche essere figlio. E’ il figlio di un’altra – è il sacro del vitale. Ma toccare questo piano in tutta la sua terribile potenza –terrorizza: io la madre terra? Ma che davvero? Non ce la faccio, voglio essere mezzo di questo potere,  vita e morte devono passare da me, ma non decise da me.
Viva Trump!

Dunque, l’immagine di Trump che firma il provvedimento antiabortista con una mandria di azzimati anfitrioni, aggancia cittadine e cittadini nella doppia mandata della lotta di classe – vi proteggo io siamo tutti borghesi! Non siete come quelli la che non contano niente e che per farci star tranquilli cercheremo di far crepare, e della vulnerabilità analitica della scarsa individuazione per – essere umani bisogna avere le palle avrebbe detto l’eroe di uno dei suoi film preferiti, e meno la gente ce l’ha per sostenere le responsabilità psichiche della genitorialità simbolica più andranno pazzi per l’immagine del leader carismatico, sessista cattivo, e che oltre tutto permette un viaggio regressivo nel dorato mondo dell’infanzia, dove si perdona con il gelato l’assenza di altruismo, dove papà ha buoni motivi per prendere a scudisciate chicchessia, anche se da grandi toccherà andar dall’analista. Vedremo quanto danni questa pigrizia esistenziale degli americani costerà, se gli anticorpi lasciati in giro da una tradizione etica e politica attiva culturalmente molto più che da noi, riusciranno a preservare l’organismo – loro. E per riflesso il nostro. L’America non è il mio paese, e non sono in grado di fare pronostici. So’ però che la nostra vulnerabilità a simili patologie è molto più alta, e i sintomi del contagio su un organismo sociale così arretrato potrebbero essere molto più eclatanti. Non so. Staremo a vedere.

Imagine


Sono ancora in vacanza.
Davanti a me in questo momento, figli di altri stanno giocando con della sabbia. Sono bambini di tutte le età, spesso graziosi, in qualche caso bellissimi, in alcuni già titolari di una democratica imperfezione, un colorito olivastro della pelle, un naso troppo pronunciato. Una bambina sicuramente mangia troppo o paga già lo scotto di un incipiente dissesto ormonale. Questi bambini sono tutti, variamente amati. Sono bambini portati in vacanza, sorvegliati da occhi attenti che ne allevano la pedagogia fin da piccini e certo la cittadinanza. Rinfrancheranno il narcisismo di qualcuno, maltratteranno quello di qualcun altro, ma sono  la nella vita – 3 4 5 9 10 anni, dove si portano addosso tutti i sogni dei genitori.
In virtù di questo calore onirico, ma anche di questo amorevole e qualche volta pesante onere, mentre giocano davanti a me, colla sabbia – o coll’acqua, questi bambini vengono fotografati. Sono immortalati nella loro tenerezza, nella trasparenza del sorriso e in tutte le promesse che conserva la loro pelle chiara. Bambini belli, con una casa, e che promettono quello la dolcezza, questo la scaltrezza, quella la beltà quell’altra l’impertinenza. Bambini che promettono un futuro, e insieme in quelle foto, conservano il lato migliore del proprio presente.
Nessuno di questi bambini è stato fotografato oggi mentre tirava una scarpa a un altro bambino. Nessuno vedrà mai il volto di quella piccola li, che circa un’ora fa ha pianto troppo a lungo a causa di una madre che non è capace di stare con lei. E quell’altro, che il padre ha messo ora sull’altalena perché non può salirci da solo, quel bambino non fu fotografato nei lunghi mesi di ospedale quando non si sapeva se ne sarebbe mai uscito – e come.
Nessuno si spera davvero, vedrà uno di quei bambini – morto.

Le giovani madri di questi bambini, ora in effetti meno giovani di quando erano madri le loro nonne, si fanno fotografare dopo essersi pettinate i capelli, certe cercando di mangiarsi la pancia e occultando i fianchi in un pareo – debolezze di giovani madri – altre gonfiando il petto orgogliose, tre figli e guardami qua quanto so bella. I padri sorridono sornioni si fanno vedere felici e furbi, mettiamo da parte quella storia del mutuo e del prestito, o meglio ancora facciamo un vanto, un’estetica della sfiga tollerabile. In qualche modo faremo. Piegano allora la testa, il filo di luce che accarezza il mento non rasato. La mestizia vera che almeno faccia scopare, non dico altro. Farsi fotografare comunque è pur sempre una premessa di presentabilità, qualcosa di buono di cui dare testimonianza. Una innocente sponsorizzazione del desiderio di se.
(Non sempre la sponsorizzazione riesce. Dopo si guardano le foto e si dice: cancellala! Oppure evviva! E quando si dice evviva, si fa vedere agli amici, si mette sulla pagina personale si esulta per la coincidenza tra luce e ambizione, alle volte del tutto fortuita).
Nessuno di questi genitori, si è fatto fotografare dopo l’esito positivo di un brutto esame diagnostico, occasione che è capitata per esempio a quel padre. Né si è fatto fotografare da morto, il padre di quei due gemelli.
Essendo per l’appunto morto.

E bianco.

Alcune domande

Si aprono le frontiere della Serbia e affluiscono migranti Siriani verso il centro dell’Europa alla ricerca di un posto dove stare. La rete esplode di immagini dolorose – il giovane che porta la madre vecchia sulle spalle, i bambini insanguinati e curati nelle infermerie, la vita che cerca di sopravvivere a se stessa. Lo scacco emotivo e morale porta l’opinione pubblica a reagire sull’argomento morale, dividendosi tra il ricusarlo e il dovere di accoglierlo. Anche se le persone non vedono quelle immagini, le immagini, la narrazione dell’emigrazione, è diventata un anteriore psichico a cui si reagisce di default, e che mette il problema su un binario esclusivamente morale, la cui soluzione imporrebbe dei costi materiali. Nella cornice di una grave crisi economica e di un governo che va perdendo credibilità ed efficacia, le proposte politiche si dividono tra: quelli a destra, che mettono l’accento sui costi e minimizzano sulla questione morale e quelli di sinistra che fanno lo speculare opposto. Da una parte Salvini con il giubilo di alcune testate giornalistiche– si è vero che so poverini, ma è pure vero che rubano e stuprano e sporcano quindi insomma non sono mica tanto poverini – per continuare asserendo che sempre questi poverini non tanto poverini, costano al pubblico togliendo al pubblico quello di cui ha bisogno. Dall’altra si dilata la questione morale e si minimizza quella del costo: sono madri, sono padri, sono bimbi, sono vittime innocenti della storia, e sono meno di quel che crediamo: e quindi pochi costi molto dovere. Non dobbiamo avere un’Europa senz’anima! Dove sta la nostra anima?

C’è poi una terza agenzia, meno colorata politicamente di quanto desidereremmo in un senso come nell’altro, la quale si misura con il problema della teoria e della prassi, del cosa dire e del cosa fare, e che alla fine sembra che decida ben poco, deludendo in questo senso tutti da sinistra a destra, e tirandosi addosso l’accusa, comoda per tutti e facile: di cattiva fede. Ah stanno al potere sti paraculi! Fanno quello che je pare! Se ne fregano di noantri poverelli! Quando salgono sulla poltrona sono tutti uguali! Che con Renzi è retorica che riesce particolarmente facile perché Renzi è nato proprio come sinistra che sopravvive procacciandosi i voti della destra, e destra che arriva al governo facendo finta di essere di sinistra: ma ci metto la mano sul fuoco che se era uno dei nostri più nostri, frignavamo uguale identica la solfa della mala fede: credere che il potere è cattivo è molto più consolatorio del capire che il potere è inefficace.

Io invece da diverso tempo ho l’amara e deprimente sensazione di un’asimmetria di forze tra la resistenza delle cose e le forze per cambiarle – in un senso come nell’altro, a destra come a sinistra. Quando c’era il Berlusca, con l’allegra compagine di fascisti che per esempio lo sosteneva, non è che riuscissero a fare, nella loro direzione fascista, più cosucce di quanto riusciamo a fare noantri, o la falange renziana. Ci stanno i campi di pomodori ora come allora dove la gente crepa per due euro e le donne sono stuprate per meno, come è accaduto per nel siracusano e probabilmente accade per certo altrove: ma non è che all’epoca di forza italia ci andassero forzuti giovani brianzoli con contratto a termine, né abbiamo registrato un blando cambiamento con i governi che ci piacciono di più.

Questo ordine di problema, riguarda una sorta di assenza di energia e di problematiche congiunturali, che io non ho gli strumenti per analizzare e che secondo me sono ampiamente sottovalutati: riguardano l’annosa questione per cui: comandare è difficile in primo luogo, in democrazia lo è ancora di più, in Italia diventa una cosa disumana, per i lacci materiali che impone la resistenza delle cose. E di questo fatto cioè, di cosa passa tra il dire: sono il capo e voglio fare questo e il farlo, sono il capo e voglio che questa legge sia applicata, e applicarla ci passa un mare di opposizioni di cui nessuno si vuole assumere la responsabilità e che prescinde totalmente dal colore politico del capo.
Ma mi chiedo se non ci sia anche un problema altro, di cui l’immigrazione è solo una costa parziale ridotta, e che riguarda diciamo più genericamente la gestione della crisi economica, della povertà e delle risorse per combatterla. Per quanto anche io pensi che l’aspetto morale di un bambino che muore, ma anche di gente che ammazza uno perché è il direttore di un’area archeologica, sia ineludibile, mi sembra che il centro della questione dovrebbe starsene altrove. Solo che di mestiere faccio altro, questo post risente fortemente della mia grave assenza di documentazioni e di competenza, e io per prima faccio fatica a trovare le pezze per quel che sostengo.

Gli è che questa Europa e vecchia e sempre più povera. Per non parlare dell’Italia. La vecchiaia di cui parlo è una vecchiaia anagrafica e non solo metaforica e questa vecchiaia anagrafica e metaforica si imparenta con la povertà materiale e anch’essa metaforica. Gli ariani invecchiano e fanno pochi figli. Più passano gli anni più diventano bocche sdentate da nutrire che la scienza ha aiutato a vivere di più. Sempre meno persone pagano tasse e sostengono le pensioni. Quando prima quando dopo le politiche assistenziali mi sembra che vivano una situazione di crisi. In Italia inoltre: da una parte la disoccupazione galoppa, da un’altra ci sono mestieri e professioni che spariscono, e da una terza mestieri e professioni che vengono portati avanti da un regime di abuso. Michele Serra in un’amaca recente, retorico come al solito diceva che tutti siamo mantenuti un pochino da questo abuso, interpretando un sentimento comune a sinistra, che è la colpa per il proprio privilegio.
Ma Michele Serra, non è tanto preciso, perché questo abuso avviene fuori dalla corretta normativa dello stato in materia di lavoro, questo abuso vuol dire nessuna tassa pagata, nessun contributo pagato, vuol dire gente che ci struttura sopra altri guadagni e che però se si ammala viene a scassare i maroni nei pubblici ospedali, che parcheggia le macchine sulle pubbliche strade e che manda i figli nelle pubbliche scuole, ma che non caccia un centesimo per il mantenimento di tutte queste cose. Quindi ci troviamo in uno stato la cui legislazione non sarebbe niente male in termini di wellfare (certo se continua con questo smantellamento della sanità pubblica la faccenda cambia) ma che per una serie di patologie del tessuto sociale non è più sostenibile.

E io, che di economia so poco e sono ferma a quella roba li di Keynes e Galbreith che probabilmente è archeologia, mi chiedo: ma tutti sti poracci che vengono qui a chiedere una vita, queste braccia che se hanno superato il mare sapranno essere ben forti, e se vengono accolti come si conviene potrebbero essere ben grati, ma questi qui non ce li potrebbero pagare due contributi a noi vecchiacci? Un pochino di tasse? Nuove forze, nuovi bisogni, nuove necessità. Deficit per deficit, ma è proprio tanto insensato cercare di arruolarceli e farli trottare? E’ proprio assurdo pensare a una risposta strutturata alla povertà che incalza in questi termini?

Chiudo qui. Non è un post sulle mie competenze dicevo: incoraggio gli interventi di tutti, ma quelli che sanno di economia oggi, nel senso che ci lavorano che dovessero passare da queste parti sarebbero parecchio benvenuti, anche a spiegarmi dove c’è di semplicistico e stupido nel mio ragionamento.

La questione delle Calende Greche

Dunque, a due giorni dal referendum in Grecia, buona parte delle volenterose anime della rete, si sono già placate da quella che chiamerei una sbornia politico proiettiva, di grandissima portata, una sorta di sogno condiviso di cui ognuno si è ritagliato uno spezzone e ci ha messo cose sue con una reiterazione e una convinzione che mi hanno lasciata stupefatta – ancorché più convintamente junghiana che mai. Guai al prossimo che mi dovesse parlar male di inconscio collettivo, di strutture mitiche, di archetipi che tornano! Guai che mi scatta l’esegesi compulsiva di tutto Simboli e trasformazioni della libido – ivi comprese le digressioni non proprio avvincenti. La pervasività su tutti i mezzi di informazione e su tutti i social network è stata veramente notevole. In rete, non solo un numero molto alto di persone ha sentito il desiderio di informarsi e di produrre un’opinione in merito – ma si è proprio immersa in un’atmosfera, in una necessità narrativa, in un mondo di reazioni forti e preoccupazioni, esternando a ogni piè sospinto i convincimenti raggiunti – genti che non mangiavano pur di aggiornare il proprio status di sostegno erotico finanziario a Tsipras, altri che invece pensando a quaa cazzo di fattura emessa ma Diobòno giammai retribuita vagheggiavano un telegramma ad Angelona, per farle sentire la solidarietà all’ingrato compito de La Storia. Il tutto però quasi fosse un fatto più privato che politico. Su Facebook non ci sono state le pugne feroci a cui si assiste quando ci si occupa di Grillo o della minoranza pd oppure altro luogo della psiche archetipica, quando si parla di Israele. La Grecia non è un tema che divide le relazioni e uccide l’amicizia, ma ugualmente coinvolge intimamente. Un film di tutti che è un film per ognuno, un sogno di tutti che è il sogno di ognuno.

In partenza era la cruda realtà. Dio è morto, Pericle è stecchito, e sono decenni che la Grecia non si sente tanto bene. Mentre parte dell’opinione pubblica occidentale abbraccicava il Rocci con nostalgico trasporto, e Omero, e Tucidide, e Erodoto non ce lo scordiamo Erodoto! Questi poracci, con un territorio ingrato di suo e con delle amministrazioni da gabbio certo ci avevano il problema del fine mese, mezzo mese inzio mese, e la gestione di quelli che kaloikaiagathoi manco per cazzo (un problema antico per la Grecia, la cui democrazia fichissima peccarità non è che faceva votare popo tutti tutti, e gli stranieri no, e i poracci manco, e gli schiavi non esse anti storica, e le donne t’ho detto non esse antistorica! – e però scusate la vendetta di una che è stata rimandata a settembre due volte) e quindi pazienti psichiatri pe stracci, pensionati pe stracci, disoccupati pe stracci, malati cronici pe stracci.
E in questi stracci arriva Tsipras, quella tipica svolta a sinistra che hanno le democrazie quando si mangia veramente poco e fa: sentite, preferite non avere manco gli stracci per restituire quello che se so magnati in passato all’Europa, o preferite non avere manco gli stracci perché andandocene via dall’Europa non producendo noi stracci, che se magnamo?
Dice grande politica, super democrazia, ma io sono rimasta interdettissima pensando a questi disgraziati, e a questa chiamata alle armi che sembra spostare sulle spalle dell’elettorato la responsabilità della rappresentanza. I(In effetti, io non sono convinta che la formula plebiscitaria sia la conferma della democrazia, due coserelle che ho studiato dopo Erodoto mi farebbero pensare il contrario. Ma su questo staremo a vedere – perché altri dicono che è il momento a richiederlo. ) In ogni caso: i greci che hanno votato hanno detto no e il sogno è partito.

Il sogno, mi è sembrato aveva infatti questi contorni. La vecchia Europa come incarnazione della Grande Madre, declinazione del materno per molti avaro cattivo e ingiusto, per altri semplicemente grande quindi più grande, e designata al ruolo della pedagogia dei piccini che non obbediscono e dall’altra il piccino figlio della madre cattiva, che essendo la madre cattiva è diseredato per costituzione e riottoso per esasperazione, e che ora come l’adolescente ribelle della letteratura per ragazzi che ci siamo lasciati alle spalle, le fa davvero il gesto dell’ombrello alla mamma cattiva! Che goduria! Che spasso! Ficata ficatissima. Due assetti psichici si confrontavano il puer e il senex, coi puer che dicevano Diobòno era ora! Finalmente! Tiè pija e porta a casa! I greci sono bravissimi! I greci prendono in mano il loro destino! Mettendo in secondo piano ma pure mi pare in terzo e quarto alcune sgradevoli considerazioni secondarie del tipo, ma se diciamo a gino pino vabbè niente debito, poi non è che corcà che ci danno i soldi se li chiediamo tipo noi? Il figlio riottoso genera sempre grandissimi casini emotivi ai fratelli meno riottosi.

D’altra parte anche a sentire quell’altri la frazione di mitico sopravanza il reale da parecchio. E se la Grecia esce davvero dall’Europa, niente, dicono l’altri, i vecchi dentro (io confesso di appartenere a questi ultimi) annegheranno tutti illico et immediater. Già stavano pe stracci mo so popo morti. Questi vecchi si immaginano una Grecia alla deriva, e non riescono proprio come certi genitori devitalizzati e apprensivi a dire del figlietto scapestrato che decide di fare di testa sua – vediamo che fa, diamogli una possibilità. Se i primi sono tutti ammaliati dal tricksterismo di una leadership che scende dalla moto e dice agli eurobabbioni tutte parolacce, quell’altri con la bocca a mestolino dei farmacisti di provincia scuotono la testa in sommessi lai, signora mia nonnò così non si fa.

La questione in realtà riguarda temi seri e importanti nei quali buona parte di noi ecco cosa, va cimentandosi per procura. Il problema psichico prima che politico di una sinistra vera, che svolga il sacrosanto ruolo dell’adolescenza di una generazione politica: ossia scardinare vecchi equilibri intessuti di privilegi per portare nuove uguaglianze, è tutto delegato e proiettato sulle spalle di questi qua che ora si ritrovano il compito di salvare i giovani di mezzo globo terraqueo. Tsipras è l’unico ad avere, almeno sul piano retorico interpretato queste istanze e ad averle portate avanti in una progettualità politica, in una linea programmatica. Da noantri questo tipo di progettualità non riesce come non riesce par di capire in tante aree d’Europa, e l’adolescenza turbolenta finisce coll’essere incarnata dalle destre estreme – con cui non a caso il nostro è dunque venuto a patti e ci ha fatto un governo. In sintonia con questa scelta diciamo spregiudicata? Ieri pareva pronto a ciarlare con Putin, altro bell’arnese – di necessità si fa virtù e noantri perdoniamo cose che per altri troviamo inconcepibili.

Forse ci vuole sempre un po’ di mitico per muovere le cose, e io non dovrei essere così annichilita dall’intensità delle reazioni che ha provocato il referendum greco, e la velocità con cui le condizioni materiali dei Greci sono andate in secondo piano, sono diventate un complemento trascurabile della narrazione. Ma io vedo proprio in questo passaggio, con tutte le conseguenze del caso l’evanescenza del sogno politico per noi e la nostra costitutiva incapacità di pensare a niente di analogo in casa nostra, analogo nella forza propositiva più che nell’eventualmente pedissequa riproduzione delle proposte. Se in questi giorni ci fossimo occupati un po’ più di Novecento che di Sparta e Atene, un po’ più di microeconomia che di massimi sistemi, forse vorrebbe dire che avremmo le risorse per stare politicamente nel modo giusto sul nostro territorio, in relazione alla nostra discutibile storia politica e alle concrete questioni economiche e produttive che ci connotano. Ma non lo facciamo e anche la nostra tifoseria da parte di entrambi i fronti, è il segno di qualcosa che non sta funzionando.

Luz se ne va. Lunga vita a Luz

Rimasi molto perplessa, e anzi anche altre cose come arrabbiata, per strano che possa sembrare, ma di più addolorata e dispiaciuta quando, all’indomani dell’attentato a Charlie Hebdo, i sopravvissuti alla strage avevano deciso di far continuare a uscire il giornale. Comprendevo una serie di ragioni che oscillavano dalla psicologia sociale, a quella individuale, dalla pressione economica a quella politica.
Il giornale doveva uscire, per dimostrare al cosmo tutto che l’attentato non era riuscito. L’umorismo iconoclasta di Charlie non doveva proprio ora, smettere di incarnare la tradizione di certa Francia, che brucia i nobili, che mangia i preti, che sputa la correttezza politica insieme ai chador fuori dalle scuole. Charlie era l’incarnazione novecentesca del settecento francese e la comune, di Voltaire e l’anticristo… e che si andava a rassegnare proprio quando c’era più bisogno? E che l’esile anarchia dell’umorismo cede alla dittatura del ricatto mortale? Noi Charlie abbiamo paura! E se tu cedi dobbiamo avere ragione di averla! Imploravano a gran voce Francesi ed Europei.
Non farci avere paura Charlie dunque e ingoia i tuoi morti con il solito sorriso.
Senza contare la valanga di quattrini che comporta il business tutto postmoderno del battutista martire.

Postmoderno. Il regno cioè dove ciò che per un’epoca e un mondo e una storia ha la lettera maiuscola – prende la lettera minuscola e cade tra le virgolette. Il luogo culturale mentale e psicologico dove gli oggetti vengono messi alla distanza di sicurezza della detrazione di sacro, in modo da poter godere leziosamente di essi senza sbattere le corna sul dolore. E’ un luogo, il postmoderno di gentilezza, di clima temperato, di kitch e umorismo infantile. Un luogo di democrazia e di pace. Dove il sacro è la rappresentazione di un mondo lontano, dove la morte è qualcosa di cui si può parlare, che si può evocare e ricordare. Nella dolce patria del postmoderno, il sangue è pomodoro, i cadaveri sono gli scheletri dei cartoni animati, le guerre di religione sono vignette e la povertà è la sua rappresentazione. L’amore postmoderno, come la sua amarezza, ha sempre qualcosa di diluito. Di sbiadito.

Ora ero perplessa, di fronte al tentativo di una sorta di postmodernizzazione lampo della morte – e dunque dell’ennnesima prova dell’irriducibile del sacro. Vedi il tuo amico di una vita insieme ai tuoi colleghi di sempre stramazzare davanti ai tuoi occhi di lunedi, e martedì pretendi da te stesso di poter subito narrare l’accaduto. Hai la prova emotiva della totalmente premoderna sacralità dell’ironia, ora devastata dalla violenza, e cerchi immediatamente di tornare a utilizzarla e a rinarrarla come se la ferita fosse soltanto un disegno brutto che rimane sulla pelle.
Ma la ferita mortale dell’ironia non è un segno in una rete di segni. E’ una contraddizione in termini destinata ad esplodere. E secondo me Charlie Hebdo non poteva continuare. E se da una parte capisco il disperato tentativo di combattere la sconfitta della propria ragion d’essere, per quanto riesca a indovinare e sentirmi anche vicina emotivamente a chi ha tentato il tentabile, non posso non considerare con perplessità la richiesta grave e patogena di un contesto culturale che ha imposto di non abdicare e che su quella fallace sopravvivenza estrema ha strutturato persino una fonte di lucro. Vai in edicola! Compra il numero della speranza!

A settembre Renè Luzier -lascerà Charlie Hebdo. Vignettista di punta, sopravvissuto alla strage per miracolo, aveva preso la direzione del giornale dopo Charb, ma non regge il tentativo e dopo qualche mese dalla strage si allontana dal periodico. Parlando disperatamente, dell’ossessione a ricostruirsi una vita. Non si può fare a meno di fargli tutti gli auguri di questo mondo, a lui e ai suoi colleghi, e non si può fare a meno di capirlo ora come forse allora, quando ha tentato con tutto se stesso di tenere in piedi ciò che ha amato, l’eredità di colleghi ora sentiti come sacri, e l’importanza tutta premoderna e terribilmente ineludibile di tutto quello che c’era di etico e di politico nella scelta linguistica di un settimanale satirico. Non ce l’ha fatta, come dubito ce la possano fare i sopravvissuti alla strage di gennaio, perché mantenere l’ironia dopo una strage è una contraddizione in termini psicologicamente poco sostenibile.

L’ironia è una difesa nobile, matura, adatta a prove in cui però, forze ben più determinate, potenti della psiche sono già entrate in campo hanno fatto il loro lavoro, e hanno vinto. Entra in scena quando la negoziazione è possibile, quando varie manovre di raffreddamento dell’aggressione sono state rese possibili, oppure semplicemente non sono state necessarie. Il problema epistemico di Charlie era questo, il credere che le manovre precedenti potessero essere sempre sostituibili quando erano in realtà ineludibili. Per vivere quella satira aveva bisogno di quegli altri che non la facevano, aveva bisogno dei giornalisti che facevano i reportage, e dei ricercatori che facevano le inchieste, e del sindacato che faceva le proteste, e dei politici che facevano la politica, e di tutte quelle agenzie psichiche del collettivo che svolgevano le funzioni psichiche del collettivo allo scopo di dominare il nemico di turno. Dall’aggressione della rivolta all’intellettualizzazione degli scrittori, c’era un mondo psichico e operativo necessario prima di difendersi nel sapido lusso della distanza ironica. Il piatto era già addomesticato.
O meglio, si è creduto che il nemico fosse addomesticato. Che il mortale era riconfigurabile in una narrazione possibile.

Invece la morte è entrata saltando tutti i passaggi in un contesto strutturalmente impreparato a negoziarci, almeno con questa sintassi. Se Charlie Hebdo fosse stato un giornale di inchiesta o politico, per dire, le persone che ci lavoravano trovavano nella scrittura una possibilità di negoziazione, un linguaggio psichico, una classe di azioni che le avrebbe un pochino aiutate, piuttosto che imporre loro cortocircuiti mentali a dir poco intollerabili. Con ogni battuta che chiede di compiere immediatamente un passo lontano da un passato che sta addosso, con un compito comunicativo che impone qualcosa che è contraddetta dallo stesso stato d’animo.
Io penso che la scelta di Luz sia più che comprensibile. E spero che lui e i suoi cari colleghi ancora forti e vivi e con tante cose da dire, comincino a farlo. Trattenenendo tutto il politico e sacro che non ritenevano opportuno manifestare in quanto tale, e lavorandoci con altri linguaggi altre difese, altre strutture mentali e stilistiche. Più adatte al loro momento di vita. E di cui possiamo ancora avere grande bisogno.

Il sesso della recessione

Alcuni anni orsono, quelli di ISBN pubblicarono un bel saggio di Susan Faludi, il sesso del potere che descriveva la curiosa reazione di una certa parte della cultura americana a seguito dell’undici settembre. Si parlava di uomini e donne, anche di ceto medio e alto, anche istruito e domestico con il mondo della carta stampata, che considerava l’attentato alle torri gemelle, come la triste conseguenza di una cultura devirilizzata, fiaccata dal femminismo, dove avevano vinto valori – come l’antirazzismo, l’uguaglianza, il pacifismo – che si considerava dovevano avere come unica provenienza il femminile.
I maschi non sono più i maschi! Le femmine non sono più le femmine e quei trogloditi la’ ce l’hanno vinta! Proferivano grosso modo fior di signore wasp mentre corteggiavano industriosamente un generale dell’aeronautica militare a un party repubblicano.
Altre e altri telefonavano alla povera Susan Sontag – già malata di cancro – e la coprivano di insulti.

Questa evoluzione psicologica, mi affascinò moltissimo e a suo tempo ne scrissi proprio citando il libro di Faludi. Naturalmente la femminizzazione culturale non aveva molto a che fare con le torri gemelle, anche considerando la maschia tradizione che gli USA hanno mantenuto nel loro modo di gestire la politica estera – e il tutto mi fece persino sorridere. Ma allo stesso tempo era chiaro che c’era un problema a monte, che aveva trovato nello schock dell’11 settembre una occasione per esprimersi, ed era il problema culturale e soprattutto psicologico di uomini e donne che non riuscivano a digerire un nuovo assetto esistenziale e rispetto al rapporto sesso genere. A quanto pareva. Questo problema era a noi ancora molto lontano dieci anni fa, e lo sarebbe in buona parte anche adesso, anche se sembra emergere in qualche parte del paese una costellazione simile, di signore bionde ricche e carrieriste che corteggiano generali in pensione scrivendo pamphlet con titoli nostalgici, filosofi bellocci che straparlano di psicologia infantile, personcine polverose che protestano con la testa china contro l’ipotesi che due maschi si scambino effusioni, madri di famiglia con casa di proprietà che hanno paura di vedere il figlietto per una volta vestirsi da damina dell’ottocento. E tutti quanti frignano sotto l’incantata benedizione dell’artistocrazia nera. Cardinali Bagnaschi e varie toghe upper class.

E’ curioso come in realtà l’angustia per l’identità di genere in estinzione abbia una connotazione di classe così precisa, e sia una cosa da decorosa borghesia – che riguarda meno chi con i quattrini fatica, e ancor meno chi nei quattrini abbonda. Diciamo che tra le sentinelle in piedi ci sarà qualcuno che ha chiesto un mutuo – ma difficile che non glielo abbiano dato, a lui o a papà suo. In un paese così violentemente allergico a sottili questioni psichiche – così solare volgare e prosaico, dove la gente ha imparato a stento a dire “fare l’amore” con sessantottardo trasporto, avendo sempre parlato più trucidamente di scopare, dove per secoli hanno figliato donne in carne con maschi ossuti e segaligni, in questo paese dove più scendi verso il tacco più ti perdi gli asili per strada, e le femmine nelle case – beh questo frignare sulla scomparsa della differenza sessuale ha del fiabesco. E’ come il sintomo che sembra non entrarci niente col resto della patologia, che uno questo sintomo non se lo spiegherebbe e manco vorrebbe occuparsene. La scomparsa della differenza di genere? Ih! hanno appena mancato di rinnovare il contratto a una mia amica perché era in aria di gravidanza. A me pare che la differenza di genere troneggi.

Oltralpe grandi città hanno sindaci omosessuali, professori universitari cambiano sesso a tradimento senza pena alcuna per il rettorato, le bambine giocano con i camioncini e e le giovani donne accedono al mondo del lavoro in percentuali più decorose che da noi, eppure assolutamente fuori sincrono, con una preoccupazione che non ha alcun reale fondamento – anche nel remoto caso dovesse apparire condivisibile – emerge un allarme sociale fuori senso. Una sorta di antifurto che suona senza ladri, una sirena dei pompieri che strepita senza incendio. Vogliono annullare le differenze tra uomini e donne! Vogliono annullare i ruoli! Ma dove? Ma chi? Ma quanti? Ma che dice? Ma di che si parla? Ah! Il progetto di Trieste nelle scuole! Che siccome alcuni bambini triestini talora si vestiranno da infermiera, e le bambine da primario allora i bambini tutti delle patrie scuole. Trieste caput mundi.

A me ora, non interessa entrare nel dettaglio della lamentazio e discettare psicologicamente del perché ha per lo più un fondamento inesistente. Posso solo dire che, come tutte le grandezze psicologiche anche l’interpretazione della propria identità di genere, più è flessibile più è sana, più è rigida più è foriera di costruzioni sintomatiche, per cui insomma se i bimbi di Trieste possono osservarsi nell’alchimia dell’interpretazione sessuale: come è una donna con una tuta da lottatore? Com’è un maschio che fa la mamma con la prole in braccio sul petto? Beh è tutta salute. Eventuali strutturazioni patologiche – sulla cunfusione di genere, sulla vecchia etichetta del disturbo d’itentità di genere che io conserverei contrariamente al DSM hanno tutte altre origini. Posso pure parlare, come tanti altri fanno delle numerose ricerche longitudinali che hanno riguardato la vita dei figli di coppie omosessuali. E come stanno sti fiji? Come l’artri, né più né meno (anche se qualche studio addirittura tifa per il più – non perché la gayezza sia protettiva si è interpretato, ma perché lo sarebbe l’assetto psichico di chi si cimenta in una lotta culturale contro un contesto uniforme. La forza del carattere insomma, la duttilità mentale) Ma a me interessa individuare qualcosa di terzo. Una strumentalizzazione psichica dell’argomento presepe. Qualcosa che ha a che fare con altro.

Siamo un paese sull’orlo della perduta borghesia. Per un certo periodo abbiamo creduto di essere borghesi tutti, con rarissime eccezioni. Non solo gli operai si vergognavano a essere operai, e volevano essere borghesi – e io confesso, non mi sono mai sentita di dargli contro, ma anche i ricchi trovavano poco chic essere ricchi e a larghe fette simulavano una sorta di impoverimento, ponendosi come borghesi con i buchi ricamati a tombolo. La sapida originalità dell’artigianato così imbarazzantemente individuale se ne andava sotto la scure della produzione di massa, e anche il magniloquente charme di quella ricchezza fantasticamente eccentrica andava spegnendosi in un conformismo tranquillizzante. Gli ultimi dandy oggi, pascolano alla Giudecca ai margini del tempo e di un epoca storica, a sgraffignare un po’ di diritto esistenziale senza tanta speranza.

 

 

La crisi ha trasformato il sogno borghese, in una scialuppa di salvataggio, in una zattera per poveracci, dove stare aggrappati come meglio si può. E di questa zattera, la bandiera stracciata che sventola, la maglietta sul bastone delle vignette, è l’immagine del presepe middle class. Lei signora a modo e seduta. Lui in piedi che guarda il domani, il cagnetto da una parte e i bambini ai piedi. Come in un’immortale scultura in bronzo che troneggia dinnanzi alla stazione di Trento.
Come a dire – ci soffiano il contratto a tempo indeterminato, ci aumentano l’IVA, collassa il sistema pensionistico, i nostri figli non si sa se potranno fare la nostra vita – beh almeno quando torniamo a casa la sera possiamo ancora assomigliare alla famiglia Cunningam. Ricky Cunningham rulez.

Diego Fusaro è preoccupato del fatto che una presunta cancellazione collettiva del genere renda i soggetti manipolabili. Come prima istanza ti viene da dire – por’omo farnetica. Il sesso non si cancella, il sesso è un colore che si mischia con altri, la cui retrocessione totale è una sorta di chimera semantica. Ma in un certo senso, c’è da capirlo: perché aldilà dei proclami pseudomarxisti, la sua chiamata alle armi dei presepi tutti – è una preoccupazione classista di segno opposto. La differenza è una roba da liberali, quando ti manca da mangiare c’è il caso che della gonnella non te ne freghi tanto. C’è il caso che occupi la fabbrica, c’è il caso che scendi in piazza. E non di rado – specie nel triste e profondo Nord angariato dalla debacle di molte aziende, beh se la signora va a lavorare non c’è tanto da lamentarsi. E se la signora va a lavorare, quando ci sarà da prendere decisioni a casa, di Fusaro e del presepe se ne fregherà.
Non sono le maestre di Trento a togliere potere al presepe, è la pagnotta che scarseggia – come del resto, è già stato in passato.

Dunque la resistenza di questo drappello a certi mutamenti culturali – isolati e piuttosto innocui – mi appare più come una faccenda di classe che una faccenda di chi sa quale – assolutamente fallace – cognizione di causa sulla psicologia dei bambini e dei generi e delle persone. Sono gli strascichi ideologici della vecchia DC che cercano in un mondo sempre più inesorabilmente laicizzato una bandiera ideologica sotto cui stringersi l’uno coll’altro per difendersi dal crollo del Mondo perduto che li minaccia. Le signore che difendono il loro ruolo di spose sottomesse, puntellano uno status sociale che placa il senso di angoscia, e i maschi adulti e consenzienti che comprano La Croce (pare un ossimoro lo so) cercando di ricomporre una sorta di patriarcato perduto e postmoderno. E’ per il momento, nient’altro che una rumorosa minoranza che da una risposta a un ceto, la buona borghesia in retrocessione, di un’area geografica – il centro nord. Soprattutto nord. Se dovessero essere capaci di coniugare alle bordate reazionarie e sessiste un pensiero economico ben strutturato e una strategia politica consistente sarebbero forse pericolosi. Al momento mi pare che gli si dia anche troppa attenzione.

borghesia 2.0

Episodio uno: qualche giorno fa L’Isis ha fatto circolare l’ultimo dei suoi video più impressionanti, in cui un pilota giordano era arso vivo. E’ l’ultima produzione cinematograficamente macabra di quelli di IS. Prima di questo video sono circolati quelli delle donne uccise a sassate per adulterio, dei prigionieri sgozzati, degli omosessuali lanciati dall’ultimo piano di un palazzo, e altri ancora altrettanto orripilanti. La rete, come emotivamente prevedibile – ha risuonato, si è scossa e indignata in buona fede: su tutti i social network le immagini sono riverberate seguite da commenti e riflessioni molto preoccupate e arrabbiate.

Episodio due: qualche giorno fa ero in rete e discutevo di vaccini: molte persone ad oggi stanno mettendo in discussione l’opportunità di vaccinare i propri bambini e io, con un certo scoramento, discutevo con alcune di queste persone. Erano interlocutori laureati, con un modo di disquisire sintatticamente e logicamente strutturato, che avevano accesso a una larga fetta di informazioni – superiori a quelle che avevano i nostri genitori quando siamo nati noi – ma che mi sembravano dimostrare l’assenza di alcune difese importanti diciamo per non uscir di metafora – mancavano delle difese immunitarie del soggetto politico e del cittadino medio. Difese che abbiamo fino ad ora applicato in maniera talmente automatica, da renderle oggi difficili da individuare.

Il punto di convergenza di questi due episodi e degli argomenti di cui sono al centro, è la cittadinanza due punto zero, ossia quella fascia della popolazione mediamente istruita e non angariata dal digital divide che accomuna geografie e storie diverse. Questa popolazione nuova, mi si dispiega come una sorta di nuova borghesia, che a prescindere da delle condizioni economiche di partenza che possono anche essere svantaggiose o al contrario molto avvantaggiate, ha una buona istruzione, ha curiosità intellettuali e fascinazioni politiche, e dispone grazie all’effetto di un’istruzione di buon livello di un arsenale di medio raggio di strumenti per affrontare la realtà e forse, sempre in virtù di quella qualità della scuola pubblica che oggi si vuole prendere allegramente a sprangate, rivela una relativa compattezza ideologica, su ciò che è bene fare e ciò che non è bene fare.

Ma la caratteristica che ancora più contraddistingue questa nuova cittadinanza è l’uso della comunicazione tramite social, perché l’ingresso dei blog prima, di Facebook e Twitter dopo nella quotidianità della comunicazione ha trasformato i figli dei cittadini semplici di un tempo, in cittadini di diverso tipo. Perché succede questo: chiudono i quotidiani, reggono le versioni on line, scende il prestigio del giornalismo titolato, che si ritrova ad essere diffuso in rete sugli stessi media che usano i singoli cittadini per le loro comunicazioni, mentre questi ultimi abbandonano le conversazioni verbali con cui esprimevano i loro pareri e scrivono quello che pensano. Alla fine succede qualcosa che smette di essere un effetto ottico: i giornalisti esperti di questo o quell’argomento hanno un prestigio o una credibilità di poco superiori ai cittadini che esprimono pareri molto circostanziati e che magari a causa della loro estroversione e competenza relazionale hanno tanti contatti capaci di mettere in evidenza sui social network le loro posizioni.
La rete è democratica, la rete annulla le distanze! L’esperto di mediooriente ha tanti like quanto il ciccio formaggio, e il ciccio formaggio a sua volta – assume una rilevanza inedita rispetto a suo padre.
La questione ha implicazioni anche politiche: il tal parlamentare che magari è marginale rispetto al dibattito pubblico potrebbe avere in rete minore risonanza, per la sua magari non spiccata capacità a dominare il mezzo di quanta ne abbia invece il cittadino ics il quale, passando la giornata su internet dalla mattina alla sera è capace di diventare un opinion leader.
Questa cosa ha delle conseguenze importanti sullo statuto delle opinioni di questa cittadinanza, perché queste nuove opinioni sono infatti come dire, di grandezza fisica diversa. Non hanno la volubilità e la fatuità della parola detta, che oggi c’è e domani non si sa. Non sono pulviscolari come quelle di un elettorato anonimo la cui identità si indovinava incrociando dati percentuali e variabili sociologiche – quelli che votavano dc, quelli di sinistra quelli che. Sono opinioni grandi come messaggi scritti, piccoli mondi che diventano costellazioni di consenso, nebulose di like che rimandano la risonanza, diventano un oggetto culturale la cui manipolazione comincia a far gola e le cui reazioni diventano il termometro di un mondo di appartenenza.
Di questa cosa, si accorgono quelli di Is. Sognano di attaccare l’occidente, sognano di sconvolgerlo, e vogliono sentirsi potenti nel terrore che procurano, il loro gesto omicida conquista una postmoderna rigenerazione mediatica, la loro legittimazione arriva dal nostro scandalo. Sia detto a mo’ di inciso, nostro non tanto come occidentali, ma nostro come altri rispetto a loro, un’alterità che ci accomuna a molto mondo islamico, che oggi deve essere ancora più terrorizzato da quella minaccia, che ha visto ben più morti, e che però ha raggiunto un uso della rete non dissimile dal nostro.
La nuova borghesia globale 2.0.

L’accorciarsi delle distanze in termini di prestigio tra divulgazione di personale qualificato o rilevante per, e cittadinanza comune che esprime un’opinione – provoca però nuovi effetti anche in termini di qualità delle informazioni assorbite, e a cui si decide di accordare credibilità. Le vecchie e antidemocratiche gerarchie dell’informazione si configuravano per la loro diversa accessibilità come oggetti ultimi e come fonti citate, e la loro diversa possibilità di acquisizione: il giornale buono lo dovevi pagare, il libro ben fatto anche, posto che avevi i soldi per pagarlo lo dovevi capire, e non sempre potevi farlo nella tua lingua madre e senza altri strumenti suupportivi: c’erano meno mezzi di divulgazione e la decodifica di una nozione complessa aveva bisogno di enciclopedie, e dizionari e manuali di consultazione. La cultura era classista ma in una misura, non totale ma relativa anche più onesta.
Ora c’è la rete. L’informazione dell’alto approda insieme a quella del basso, delle volte ampiamente rimaneggiata, ossia decodificata per l’utenza, delle volte ampiamente travisata, molto spesso affiancata da baggianate di diametro inusitato, ma le decodifiche di affidabilità sono perdute, e tutta una serie di agghiaccianti e pericolose bufale si fa largo presso la nuova borghesia 2.0 che non sa più trovare strumenti per valutare ciò che la rete importa come veridico, sfruttando processi che anno anche a che fare con la psicologia cognitiva. E dunque, animalisti che credono che Spielberg abbia fatto guori un triceratopo, antivaccinisti che seguono con lo stesso gradiente di affidabilità il medico disconosciuto dalla comunità scientifica che parla di vaccini e autismo e il medico riconosciuto dalla comunità scientifica che nega la relazione. L’elemento determinante è la cornice della rete che fa da qualifica per se, oppure da squalifica altrettanto irrazionale – donde i complottismi di vario ordine e grado. Non ci credere, non è mai così.

La democrazia della rete ci piace tanto, l’annullamento delle differenze ci fa sentire più forti, più importanti. E infatti che bello! Su Facebook facciamo amicizia con scrittori famosi e personaggi televisivi che ci dicono cosa mangiano a pranzo e qualche volta diciamo qualcosa di davvero brillante e siamo veramente fichi! Che grazioso vantaggio narcisistico, quest’ascesa sociale in poltrona.
Ma intanto – nel mondo reale non cambia niente: politicamente rimaniamo complementi oggetti senza scavalcare alcunché per essere soggetti. I diritti vengono sempre più erosi, le condizioni economiche rimangono identiche e in ambito internazionale o meno – il nostro opinionismo altro non è che un oggetto usato a fini manipolatori – una cartina tornasole sulle cui reazioni basare le scelte future (per il momento in quale modo particolarmente glamour ammazzare il prossimo bambino – domani, chi sa). Allo stesso tempo diventiamo preda del truffatore e del ciarlatano abituati come siamo a considerare ciò che viene dalla rete ipso facto credibile solo per il fatto che viene dalla rete, e ci intortiamo in campagne di opinione che procurano il nostro danno certo – come la faccenda dei vaccini. La quale delegittima un sapere ufficiale proponendone la sostituzione con un altro che diventi altrettanto ufficiale senza avere le credenziali del precedente.
Forse occorre fare qualcosa.

Gaza e il tradimento delle nostre icone.

(questo post è stato scritto nel novembre del 2012. siccome me lo chiedono un po’ di persone lo riposto oggi)

In questi giorni in cui l’opinione pubblica è tornata a seguire le vicende di Gaza, un antico tormentone – è tornato alla ribalta. Esso conosce diverse possibili varianti – ma sostanzialmente recita: non capisco come mai un popolo che ha tanto patito e tanto sofferto, ora proprio quel popolo da vittima si trasforma in carnefice. La variabile meno affettuosa è: io trovo che gli israeliani si comportino come i nazisti. E’ un fenomeno interessante, e trovo che parlarne sia una cosa utile. Non apprezzo affatto, e l’ho detto più volte, il voyeuristico interessamento che l’Italia ha nelle vicende israeliane, ma possiamo anche tranquillizzarci sul fatto che esso non ha il minimo effetto: ossia l’opinione pubblica italiana e occidentale incide a un livello pari allo zero nella percezione delle parti in conflitto: suscita al massimo un blando interesse nei più colti, ma non credo si vada oltre. Allo stesso tempo, questa accesa discussione, questa tifoseria calcistica sui corpi stecchiti, mi prenderete per cinica, potrebbe essere una buona palestra per riflettere sui nostri modi di pensare politicamente o meno, per i nostri modi di approcciare le cose – giacché il manicheismo è un tipo di atteggiamento che se si riserva ad un contesto – si riserva anche altrove.

Non tutto è antisemitismo, bisogna chiarire questa cosa, e prendere posizione è anche una scelta naturale e spontanea che anche ai migliori capita di fare – in fondo, ha il merito di dimostrare un interessamento alle cose che non riguardano immediatamente la quotidianità – è il sintomo di un pensare politico che non si tira indietro. Non è che se uno perciò condanna la politica di Israele è tout court antisemita – ma ,come disse Gad Lerner in una vecchia puntata dell’Infedele, il richiamo al Nazismo è una specie di scorciatoia emotiva più che intellettuale, un colpo scorretto per cui si decide di toccare l’avversario dialettico nel suo punto critico, non tanto per correttezza di inferenza quanto per qualcosa di più viscerale, che vuole azzittire l’avversario con i suoi nodi personali. Quando sento il richiamo al Nazismo nella questione di Gaza, aldilà del qualunquismo che dimostra un paragone storicamente improprio, io sento che si presenta il conto della fatica psicologica che ha per i non ebrei l’elaborazione dell’Olocausto, una sorta di colpevolizzazione per aver costretto tutti quanti a prendere atto di quello che era stata la Shoah: nell’impossibilità di negarla da parte dei più onesti, nell’impossibilità di poter ridurre a qualcosa un esperienza che arriva a essere innominabile, rimane questa fatica dolorosa che non sembra aver riscatto. Non è solo perciò per l’antipatia che le persone di destra nutrono verso il mondo arabo, che questo tipo di comparazione alligna molto di meno sui loro portali e giornali: digerire la connivenza esplicita con una colpa, l’obbligo a farlo è stato quanto meno liberatorio, rispetto all’esperienza di coloro i quali si trovano a dover elaborare una colpa storica di cui non sentono di avere colpa.
Forse allora, è bene prendere sul serio questa frase – non capisco perché un popolo che ha tanto subito oggi da vittima si trasformi in carnefice – e interloquirci seriamente, anziché gridare all’anatema come a me, è più volte capitato di fare. Perché si dice questa cosa? Cosa si cela dietro di essa?

Lasciamo da parte l’esame della situazione concreta. Per quanto mi riguarda – esattamente come contesterei aspramente l’arrivo di una destra fascista in Italia benché possa capire le cause politiche del suo arrivo – io non faccio fatica a pensare quanto di peggio ci sia a disposizione sull’attuale governo in carica in Israele. Non considero le decisioni di Nethaniau difendibili, non tanto nella reazione al conflitto in atto – perché la guerra è guerra – quanto per aver collaborato attivamente al peggioramento delle cose. Anche se, sono tristemente convinta che un governo moderato o più vicino al mio desiderio di mediazione e convivenza civile, avrebbe sortito effetti pressoché analoghi.
Piuttosto mi interessa constatare che, quando si dice: “possibile che chi è stato vittima ora diventi carnefice” non si sottolinea la derivazione per lo più capitalistica europea e occidentale, degli israeliani, ma la loro natura di essere ebrei. Sono ebrei prima di tutto, sono ebrei prima di essere europei. I loro errori e le loro cattiverie sono perpetuate in quanto ebrei non in quanto occidentali. E a nulla valgono i paragoni di comportamenti davvero immorali di altri occidentali nelle diverse occasioni di colonialismo. Essi sbagliano come ebrei.

In questa scandalizzata perorazione, precipitano diverse cose, che confluiscono in una apprezzata mescolanza. Prima di tutto, c’è la segreta e talora sinistra convinzione che gli ebrei sono migliori di altri, un traguardo che l’Olocausto dovrebbe aver contribuito a raggiungere, ancora più fortemente. Sono sempre stati, dice il clichet talora segretamente antisemita talora semplicemente problematico al livello psicologico, più intelligenti, più colti, più razionali di noi. Con l’Olocausto diventano quelli che sono più consapevoli di noi del dolore, coloro i quali insegnano un’esperienza indicibile. Sono quelli che vengono nelle scuole dei nostri bambini, i vecchi venerabili col tatuaggio sul braccio a raccontare quello che altri non possono inventare. Non possono quindi tradirci, perché sono la nostra occasione di catarsi. Sono state le nostre vittime e ora devono diventare i nostri eroi. Essi devono abitare la categoria del simbolo. Per questo non possiamo concepire ora gli Israeliani come occidentali, gente come noi, non possiamo pensare alla questione israeliana come una grana che riguarda l’Europa, perché si perderebbe la valenza mitica che ha l’ebreo meraviglioso e saggio che imperversa nelle pagine culturali del manifesto, lo stesso che poi è stato sostanzialmente discriminato nelle pagine di politica estera.

Se si riconducessero gli ebrei israeliani alla normalità dell’umanità, se si riconoscesse Israele come una terra dove sono andati degli occidentali, uomini e donne come concretamente sono gli uomini e le donne – una volta che si ripensasse alla Shoah, non si approderebbe a una così ingenua considerazione. Pensate all’attrito che fa questo stereotipo sugli ebrei – ma come da vittime ora si fanno carnefici – a quello molto più diffuso e ancora più amato a sinistra: le colpe dei padri ricadono sulle spalle dei figli, e che alligna ogni due per tre nella psicologia popolare: quando si sente dire – certo se quello è pedofilo, sicuramente anche lui da piccolo ha subito qualche cosa. E’ diventata una semplificazione amatissima questa da quando Freud ha fatto i suoi studi sul trauma, per cui chi ha subito un trauma tende a riperpetrarlo. Ma con gli ebrei non si applicano queste categorie.

Sono categorie, e quindi di per se, per la loro generalità pur sempre piuttosto inutili, le persone sono varie e complicate e quando gli ebrei subirono la persecuzione razziale e l’internamento dei campi vi arrivarono con storie diverse, e ne uscirono diversamente segnati. C’erano ebrei ricchi, ebrei poveri ebrei che avevano un padre che li picchiava, ebrei che avevano una famiglia amorevole, ebrei adulti ed ebrei bambini. C’erano ebrei che trovarono una soluzione sopportabile nei lager, altri che sono stati esposti a traumi irripetibili. Storie psichiche diverse attraversarono un trauma che si articolò in maniera differenziata. Ma la razionalizzazione e l’intellettualizzazione – le difese psicologiche più mature che permettono di fare qualcosa con un vissuto al punto di poterlo trasformare, sono state un lusso che Dio ha concesso a pochi fortunati. Quelli con più risorse psicologiche prima ancora che relazionali. Perché gli ebrei sono umani, e non sono migliori degli altri – e quando la loro psiche viene rotta, si rompe come gli altri.

Si rompe, e spesso i sintomi si trasmettono intergenerazionalmente, quando il trauma non riesce a essere elaborato. I figli degli ebrei che videro l’Olocausto o che lo riuscirono a schivare – sono quelli che si trovano ad agire psicologicamente parti scisse dei propri genitori che non sono riusciti a evadere. Queste parti scisse, non sono il buon cuore, il pensiero all’altro, il sentimento umanitario, queste parti scisse sono aree di rabbia terribile, aree di aggressività introiettate, e che non di rado fanno cortocircuito con una ribellione verso quel padre che ora appare una vittima imbelle, sacro per quell’esperienza e quindi odiosamente inattaccabile. Non a caso,  per un certo periodo ebbero successo presso gli adolescenti israeliani gli Stalag, atroci fumetti pornografici dove i soldati israeliani vessano e stuprano donne naziste. Il meccanismo di difesa che scoprì Anna Freud, e che si chiama identificazione con l’aggressore, si trasmetteva cioè per le vie segrete dell’intergenerazionalità, sobillato dalle difficoltà della situazione politica contingente, che offriva un’occasione per elicitarsi.

Quando gli ebrei arrivarono in Israele, scaricato dall’Europa colpevole, erano dunque quelli poveri, straccioni, vittime e perdenti, inefficaci politicamente, imbelli e fallimentari. Amos Oz spiega molto bene, e dalle nostre parti anche Piperno, quale vergogna fosse per una famiglia avere un reduce da un lager a casa. La generazione successiva è quella che ha cercato un riscatto, e che quando il mondo arabo ha cominciato a dimostrare di non voler ingoiare – sempre per ricordare Oz – quello che l’Europa aveva vomitato, ha trovato una collusione inconscia con i fantasmi intergenerazionali e una efficace rivalsa storica: doveva essere un popolo di intellettuali, ma la storia politica e la storia psichica li ha resi un popolo di militari.
E’ una storia che riguarda solo gli ebrei? E’ una storia che riguarda gli uomini? O è una storia che riguarda l’Europa?

Ben tornate (con riserva di preoccupazione)

Vorrei fare alcune considerazioni veloci e schematiche sulla liberazione di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo. Sono considerazioni superficiali e come al solito piuttosto personali perché riguardano una vicenda sulla quale non ho forti competenze, e che derivano piuttosto dalla constatazione di come da più parti è stata recepita questa storia così come è stata narrata.
Io fondamentalmente, che siano state liberate, sono molto contenta. Sono due ragazze giovani, come tantissime e tantissimi, voi non sapete quante e quanti, ce ne sono in giro nei posti pericolosi lontani dalle nostre vite, a fare delle cose che a noi non è mai andato di fare e a correre rischi da cui il nostro buon senso ci tiene alla larga. Sono cadute nella rete di quei rischi, non so in che misura per colpa di un coefficiente costante di pericolo o per smaccata inefficienza dell’organizzazione a cui facevano riferimento. Ma a fronte del lungo elenco di rapiti e anche uccisi nei teatri di guerra, eviterei di dire stronzate del tipo, siamo tutti ct.

Ci sono però delle considerazioni che secondo me vanno fatte ugualmente, quanto meno per impostare il dibattito, che mi pare ab ovo, viziato da alcune distorsioni di prospettiva e di ideologia.

  1. Greta Ramelli e Vanessa Marzullo sono donne con un nome e un cognome, un titolo di studio e esperienza all’attivo, per poca che sia, maggiorenni. Non sono delle bambine, lo sono solo in questo curioso paese in cui si va a lavorare tardi, si fanno figli tardissimo, si sta inchiavardati alla famiglia di provenienza in uno stato di adolescenza protratta e incoraggiata dal sistema socioeconomico che rende impossibile l’emancipazione dei giovani dalle famiglie. Fuori da qui due maggiorenni non sono due povere sgallettate, sono persone che stanno per mettere su una famiglia, che già lavorano che vivono fuori dalle proprie case. Che sono titolari della loro vita. E’ interessante la puerilizzazione di Ramelli e Marzullo, e credo che sia anche autenticamente sentita. Sono state vissute da tutti come bimbette allo sbaraglio. Ma è un problema dell’Italia, non loro.
  2. In questa rappresentazione delle due giovani donne, ha certamente giocato il fatto che fossero donne, e che inoltre non abdicassero nel loro modo di vestire e di essere, a un certo clichet maschilizzato della femmina che corre pericolo, ma omnia munda mundis! – si facessero ritrarre con le gonnelline a fiori i capelli e i sorrisi belli. Non è serio eh! Non è possibile! Non è credibile! Se fai certe cose, devi averli legati li capelli, e averci i pantaloni per dinci bacco. E il pensiero mi è andato alla Rosanna Cancellieri che in un’intervista raccontò dei suoi contrasti con Sandro Curzi, che aveva una contrarietà ideologica all’idea che una giornalista andasse in video con dei vistosi orecchini rossi. C’è un problema cioè con l’idea di un femminile attivo, che faccia delle cose da maschi, senza necessariamente adeguarsi all’estetica e comunicazione maschile. C’è uno stereotipo sull’immagine che deve avere chi commercia con il male – stereotipo molto più condiviso da chi non ci ha spesso a che fare.
    Voglio dire che conosco qualche psichiatra che ha dovuto vedere pazienti nei manicomi criminali famosi per efferati delitti seriali, che gira con imbarazzanti magliettine a cuori e paillettes.
  1. C’è anche un problema, prima ancora che di genere – l’uomo che corre il pericolo è un eroe, la donna che corre il pericolo una cojona – rispetto all’idea stessa di qualcuno che corra un pericolo a scopo umanitario. In questo senso, l’assolutamente illogico paragone con i Marò mi risulta interessante. Per quale motivo infatti comparare due situazioni assolutamente incomparabili per interlocutori chiamati in causa e rischi possibili? Che forse ce li ridanno i Marò se sganciamo i milioni? Che i forse i Marò sono in mano a un gruppo non identificato e privo di regole o sono in mano a un governo istituzionalmente consolidato? Ma i marò cari miei sono molto meno iconograficamente buoni, sono molto più psicologicamente neutri, sono maschi che fanno le solite cosette de maschi, e quindi molto meno scomodi narcisisticamente di queste due sgallettate che ci rinfacciano a colpi di pericoli e sorrisi il nostro culo al caldo. Io percepisco in certe reazioni livorosissime e intollerabili, un problema di invidia per quel misto di incoscienza e buono, per quel che di irrazionale ma sacro, che c’è in chi fa qualcosa di illogico dal punto di vista dell’autoconservazione ma di forte sul piano etico. E più ridono nelle foto, e più sono così iconograficamente rispondenti a questa immagine di folle adesione a qualcosa di buono, più il commentatore medio si sente sfruguagliato in qualcosa e scatta una sostanziale invidia che viene disinnescata in parole ricche di disprezzo.

Ecco, io riformulerei il dibattito partendo da queste considerazioni. Moralmente, io non posso che essere contenta del fatto che due brave persone siano tornate a casa, giovani o meno che fossero. Siccome attualmente chi le aveva prese, per me rappresenta attualmente quanto di più pericoloso e cattivo ci sia in circolazione si sono contenta che non siano state uccise. L’unico mio oggettivo cruccio e dispiacere e anche motivo di perplessità etica e politica, riguarda il destino dei soldi, eventualmente e temo probabilmente dati in cambio delle loro vite. Non tanto, per come potevano essere spesi da noi, quanto, per come saranno usati da chi li avrebbe presi.
Ossia, per uccidere altre persone.

Righe private sul caso Cucchi

Alcune cose che ho bisogno di dire, e che lascio così sulla pagina – destrutturate – perché la struttura mi pare in questa occasione una forma d retorica, che fa attrito con la gravità degli eventi, e con la mia risonanza emotiva a questa vicenda. Ieri c’è stata la sentenza del processo Cucchi e tutti gli imputati, medici e poliziotti sono stati assolti Quindi faccio un post insolito che rinuncia a porre relazioni, per il bisogno di dire delle cose che non hanno soluzione – e per la sensazione che forse sia meglio non darne. La spiegazione, anche la denuncia sociale, anche la logica rabbiosa, è sempre un aggiustamento, è un compromesso, e un tentativo di svolta evolutiva. Ma parte della mia reazione forte alla sentenza Cucchi sta in una sensazione di vanità, di svolte che non si compiono.

  • Per quanto fascinoso il concetto di cattiva infinità che sta dentro all’assenza di testimoni che riportino la flagranza di reato, un prigioniero in ospedale, è un soggetto costretto ad essere affidato a delle persone che si trovano ipso facto nella posizione di O FARE BENE O ESSERE INCRIMINATI. Terzium non datur. E’ l’asimmetria che lo prova. E’ come una madre con un bambino. Si fa male? Colpa tua. Un cane lo morde? Colpa tua. Cade? Mangia una cosa che gli fa male? Colpa tua.
  • Rispettare le sentenze è un concetto importantissimo per la tutela della democrazia, in cui io non smetto di credere adesso. Eppure per la stessa tutela della democrazia, e anche a fronte di altri fenomeni recenti – Genova già lontana, ma la polizia che carica dei manifestanti assolutamente pacifici è cosa di ieri, per non parlare di altre molto discutibili sentenze, tipo il caso Ruby– mi fa contestualizzare questo processo e chiedermi se non rispettare questa sentenza, mettere in discussione qualità del procedimento e intenzioni dei giudici non sia un altro modo per difendere la democrazia
  • Ci sono due vie per cui la sentenza ci colpisce emotivamente. La prima se ci sentiamo figli, e pensiamo a noi che siamo stati figli, figli che hanno fatto tardi la sera, figli che hanno fumato o hanno avuto cari amici che fumavano, figli che hanno pensato alla polizia con la sfida dei figli o con la fiducia dei figli, perché la polizia è il padre, farà molte cose che non ci piacciono, ma è innaturale che il padre ti ammazzi. Così come figli o malati siamo andati in ospedale, dai medici dinnanzi a cui di solito facciamo i bambini, e ci lamentiamo, e magari i medici si sbagliano e magari i medici ci trattano con supponenza, e magari si distraggono, ma non ci ammazzano. Ci prende un terrore, allora a pensare a Cucchi.

    La seconda è se ci pensiamo genitori, pensiamo ai nostri figli che crescono a quando cominceranno a fare le prime stronzate che tutti o quasi abbiamo fatto, e non li potremo controllare, perché ci devono passare, e pensiamo al fatto che il mondo è fatto da genitori che inventano altri genitori – e se fa una stronzata sto mio figlio un questore lo cazzierà e se fi fa male una dottoressa lo guarirà, e invece. Te l’ammazzano.

  • Un abbraccio alla famiglia Cucchi, che comunque ha fatto qualcosa di utile per il paese anche se adesso si sentiranno perduti nella perdita.