Note psicodinamiche sparse sul come approcciare la violenza, non solo di genere.

Dunque vorrei fare un post su cosa può suggerire la psicologia dinamica per arginare la violenza di genere e in genere tutti quegli atti criminosi nell’ambito familiare, che sono presieduti da una diagnosi importante. Quindi questo post non esaurirà naturalmente l’elenco dei suggerimenti possibili,  o l’elenco delle cose che socialmente è utile fare per arginare la violenza di genere, o altre forme di violenza intrafamiliari – gli abusi sui minori, per esempio, o  gli infanticidi – ma cercherà di mettere insieme delle proposte amministrative in merito alla salute pubblica, che sono la conseguenza prevedibile di un sistema di saperi in merito alle psicopatologie e ai contesti in cui avvengono.  Parlerò dunque di due tipi di interventi: quelli che riguarderanno le nostre modalità di cittadini di interagire con quelle diagnosi importanti e di prendere provvedimenti utili nei contesti di lavoro o di vita, e interventi che cerchino il più possibile di ridurre l’insorgere di diagnosi psichiatriche importanti, o che possano essere capaci di renderle meno problematiche.
Prima di tutto occorre fare una premessa.

Quando pensiamo alle psicopatologie franche, alle sindromi psichiatriche che presiedono azioni criminose, quando ci confrontiamo coll’esito tragico, e ci indignamo e diciamo, ma come non si poteva fare così, non si poteva fare colì, ci sentiamo insieme impotenti e onnipotenti. Da una parte il grave fatto di cronaca è avvenuto, ed è tardi, e molti di noi davvero non volevano che succedesse, dall’altra la distanza di queste cose dalla nostra esperienza quotidiana, ci fa immaginare che noi potremmo risolvere velocemente, che beh allora si facesse curare che allora togliamole il bambino, che allora, perché quella non l’ha lasciato subito vedendo che lui era aggressivo?

Questo ordine di pensieri sono umani e sono anche sani – la loro produzione ha, come la sanzione e l’indignazione – molto a che fare con la protezione della specie. Dove andremmo a finire se di fronte alle donne picchiate e ammazzate, di fronte ai bambini abusati, avessimo come prima reazione un chinare la testa pensosi e supponenti? Dobbiamo soffrire, è la nostra salvezza di specie. C’è molto più terreno di azione politica in un indignato che dice cose grossolane, che avranno bisogno di essere corrette nel merito ma non nell’intenzione emotiva, della saggezza distaccata e pelosamente rassegnata che non avrà mai desiderio di aiutare nessuno.
Tuttavia, nel cercare soluzioni che arginino morti ingiuste e precoci, violenze e abusi, dobbiamo ricordarci del fatto che la realtà ha una sua violenta potente, resistenza a qualsiasi cambiamento che questa resistenza è una garanzia della nostra libertà. – che funziona a sua volta su due coste.

Una costa soggettiva riguarda la biologia del cervello. Le persone non cambiano i loro pensieri con un battito di ciglia. Ci mettiamo anni a imparare uno strumento musicale, anni a dominare una lingua, esercizi per portare una macchina, e molte molte sedute perché una psicoterapia produca degli effetti. Plagiare le persone è davvero complicato, trasformarle improbo. La nostra flessibile resistenza alle richieste del reale, è la nostra principale difesa all’usurpazione altrui. Se non fossimo così tetragoni al cambiamento saremmo dei burattini pericolosamente esposti. Non lo siamo. E’ importante per noi è benefico, anche per la nostra come dire, varietà di caratteri e di specie. La nostra resistenza per esempio alle sirene di un vantaggio economico, permette di mantenere ancora vario colorato e differenziato il paesaggio dell’umano.

Nel nostro contesto politico ed economico – questa libertà ha però una seconda garanzia. Quando dite: togliamo un bambino alla mamma! Incarceriamo quell’uomo che ha minacciato di morte la compagna! Pensate che fare questa cosa così per le spicce, sulla scorta di un timore, si possa fare giuridicamente senza che le nostre libertà siano intaccate. Però la nostra libertà di litigare con un partner, la nostra libertà di essere genitori imperfetti, la nostra libertà di migliorarci dopo aver attraversato un periodo difficile, anche la nostra libertà di lavorare con addosso una diagnosi psichiatrica, dipende da quella normativizzata mancanza di celerità. I legacci con cui certi provvedimenti vengono presi, i passaggi successivi, sono un altro dispositivo che ha a che fare con la nostra libertà. La verità è che da un punto di vista normativo, noi avremmo uno Stato Sociale dei migliori, ma economicamente non è affatto sostenuto, anzi, è ancor più aggredito. La situazione varia molto da regione a regione. Ma se c’è un comparto su cui si taglia sempre di più senza pietà, è la salute psichiatrica, le case famiglia, salari formazioni e controlli delle persone che lavorano nelle comunità terapeutiche.

Questa premessa è importante per una posizione come dire, filosofica di partenza. La parziale inefficienza che ci fa soffrire quando cerchiamo di arginare il male, ha anche a che fare con certe importanti premesse del nostro bene. La dolorosa area intermedia delle nostre azioni possibili, ha a che fare con la nostra libertà e anche con la nostra libertà di mettere in campo delle risorse. Dobbiamo saperla tollerare, dobbiamo saperci stare e dobbiamo saper reggere l’angoscia che ci genera il potere dell’altro , ergo-  il potere dell’altro di farsi male ma anche il diritto dell’altro il suo stare al mondo che non migliora e quindi il terribile potere dell’altro a peggiorare e a fare del male. Sopportare quest’angoscia è un’altra delle necessità dell’agire democratico. Ed è una necessità da saper affrontare perché quando non la si sopporta rischiamo di cadere in scelte che sono rimedi peggiori del male. Se una persona con delle gravi difficoltà relazionali svolge un lavoro non molto bene, ma discretamente, e ha dei comportamenti aggressivi ma che non fanno saltare il piano di lavoro – in termini di macroeconomia sociale, è davvero utile toglierla dal posto di lavoro? E se togliendo a quella persona una delle poche cose che tutelano la sua identità, la sua propriocezione, il suo far parte di una comunità, ne inasprissimo le tendenze aggressive?

Se dunque penso a cosa può suggerire la psicologia dinamica per fronteggiare le varie diramazioni della psicopatologia violenta, la prima cosa su cui bisogna lavorare, come a priori,  è l’angoscia che ci procura il confronto con soggetti o sistemi familiari che non cambiano, che stanno male, che sono violenti, che sono attraversati dal dolore. E che soprattutto non sembrano capaci di cambiare, o sembrano cambiare troppo lentamente. Queste situazioni ci agitano, per molti motivi: un po’ perché una persona che non sta bene, è il ritratto simbolico di parti nostre in difficoltà, nostre parti depressive più o meno minoritarie che vorremmo poter vedere perciò cancellarsi velocemente, un po’ perché il cambiamento repentino e immaginifico – di un amico, di un collega, di un alunno, di compagno di studi, ci restituisce una onnipotenza parziale un vantaggio narcisistico, mentre la sua immobilità un senso di grande frustrazione. Questo ordine di sentimenti e proiezioni però fa saltare il tavolo del lavoro, non avvicina, anzi crea distanze, polarizzazioni, Quando questi pensieri sono dispiegati è tutto un lui e noi, tutto un lui è così noi invece.  Inoltre, per motivi che riguardano anche il funzionamento delle personalità più in difficoltà- che tendono a fare in modo che si verifichi questo assetto alimentando la divergenza, la distanza, salta qualsiasi possibilità di miglioramento: perché se c’è una caratteristica che discrimina spesso le psicopatologie è che chi ne soffre, vive di profezie nefaste che si avverano, e che si servono degli altri, di comportamenti indotti o incoraggiati dal suo assetto interno.

In questo senso io penso che la scuola possa avere un ruolo molto importante, perché soggetti disabili, soggetti in difficoltà, soggetti con una diagnosi di vario ordine e grado, possono in primo luogo insegnare a mettersi in relazione in un contesto protetto. Rispetto però  questo punto, rispetto alle nostre competenze sociali, le nostre capacità diciamo largamente politiche di rendere i luoghi dove abitiamo più vivibili, un ragazzino, o due difficili in classe aumentano quelle competenze, normalizzano le reazioni, aiutano quelli che diventeranno adulti a controllare le proprie proiezioni e i propri stati d’animo di fronte a una personalità in difficoltà e che magari potrà avere problemi con altri domani. Soprattutto, una cosa che vedo è socialmente poco approfondita  – è che dobbiamo insegnare ai figli la tolleranza emotiva rispetto a modi di stare al mondo refrattari al cambiamento. Senza quell’accettazione dell’altro con le sue magagne non si va da nessuna parte, e questo vuol dire insegnare ai figli a sopportare la PROPRIA paura di essere inerti, fallimentari, rifiutabili, fermi.
A volte succedono cose diciamo psicoanalitiche, anche senza che questi processi siano visti e verbalizzati. Non è necessario sottoporre una classe a una terapia di gruppo, perché i bambini imparino a gestire le proprie proiezioni su un compagno complicato, anche se spesso parlare insieme aiuta. Ma un lavoro teatrale di classe, per fare un esempio, con una serie di ruoli assegnati insieme a quel compagno e l’idea di responsabilizzare i bambini, o i giovani adolescenti nel farlo cooperare, potrebbe modificare il campo proiettivo in modo altrettanto efficace. La prima cosa su cui comunque pero dobbiamo lavorare è creare cittadini che siano capaci di interagire con situazioni di difficoltà iscritte nel loro panorama quotidiano. Perché questo aumenterà come dire, il capitale intellettuale ed emotivo a disposizione, quando saranno soggetti nel mondo del lavoro.

In ogni caso però, in una prospettiva psicoanalitica, l’area di grande problematicità per l’emergere delle psicopatologie che preludono agli atti violenti, riguarda la situazione della famiglia quando un bambino viene al mondo. La cornice teorica psicodinamica prevede infatti che a fronte di un eventualmente anche rilevante fattore biologico nella strutturazione di diagnosi importanti sia dirimente il contesto in cui un certo bambino cresce, la situazione della sua famiglia, e gli aiuti esterni su cui può contare. Per coniare uno slogan sgradevole: tra i deliziosi bambini di oggi, ci sono già i possibili atti ostili di domani. E’ uno slogan antipatico, ma quando mi sale la desolazione per l’assenza  o il costo spropositato di asilo nido, per le scuole non a tempo pieno in tante province, mi sale un tale scoramento feroce, e penso che se le persone non riescono a mettersi il cuore in mano davanti a un bambino a cui bisogna fornire una alternativa, forse ci riuscirebbero pensando al rischio della criminalità che quella stessa sofferenza potrebbe imboccare.

Fatto sta che se c’è una cosa che mi ha insegnato la mia esperienza professionale, è il valore che hanno avuto per infanzie largamente abusate figure secondarie protettive quali in primo luogo maestre, se non le zie, o qualche amorevole vicino o vicina di casa. Ma se penso alla situazione complicata di una madre in grave difficoltà, vuoi per condizioni personali, vuoi per condizioni ambientali, la struttura esterna che tiene il piccolo un numero giornaliero di ore, e gli garantisce una serie di occasioni relazionali protette, una teoria di come è il minimo sindacale dello scambio affettivo, mi sembra già una cosa molto importante. Così come sarebbe intelligente, attuare un protocollo di intervento in età neonatale, che assista le neomadri e i neopadri a casa, nella fase post partum con interventi domiciliari anche sulla lunga durata – perché quei primi anni sono molto delicati, e sono gli anni in cui si strutturano questioni dolorose che poi cronicizzano.

Bisogna pure dire, che di protocolli di questo genere, ce ne sarebbero pure molti. Ma la situazione è pulviscolare, determinata da una larga compagine di associazioni private che vincono appalti pubblici, e che in quanto a preparazione, e retribuzione degli associati, curricula dei dipendenti, possono variare molto tra loro. Ma siccome i soldi messi a bando sono sempre sempre di meno, alla fine la qualità dell’offerta è pericolosamente variegata, con associazioni che vantano collaboratori iperspecializzati e altre che si servono di volontari, laureandi, giovanissimi tirocinanti – malamente formati. Oppure, ci sono cooperative veramente ben strutturate, ma i soldi loro garantiti sono quelli che sono, e alla fine, materialmente per sostenere una famiglia dove il padre lavora, una madre è malata terminale e ci sono tre bambini di cui uno ha una patologia cronica grave per cui non può uscire di casa, ecco quel mio collega, può andare ad aiutare quel padre quattro ore a settimana.
Quattro ore a settimana non sono proprio niente.

C’è infine un complicata riflessione da fare e che riguarda l’atteggiamento complessivo che abbiamo nei confronti di soggetti che hanno compiuto crimini intrafamiliari – in primo luogo correlati con la violenza di genere. Questa riflessione emerge più limpidamente nel momento in cui capiamo che la comprensione della psicodinamica di una successione di comportamenti che culmina eventualmente con un omicidio, non equivale a una giustificazione di tipo morale -persino nel contesto stesso di una psicoterapia che non sia legata ad alcun ordine prescrittivo di un tribunale di competenza. Io stessa per fare un esempio, ho deciso di esplicitare  a qualche mio paziente che aveva compiuto un atto moralmente sanzionabile, una sorta di rabbia, o di indignazione – con un calcolo di metodo di intervento ponderato e non come reazione istintiva, perché volevo che il mio paziente si appropriasse delle valenze simboliche ed emotive dei suoi atti, le deleghe che stava mettendo in atto, i subappalti, e gli effetti che andava rincorrendo – (voglio ferire, voglio scandalizzare, voglio etc.) in modo anche da portarlo ad arrivare a riappropriarsi della genetica emotiva delle sue azioni, e scoprire che l’onnipotenza per esempio della semplice truffa poteva rivelarsi un brillante riflesso condizionato del suo mondo inconscio e quindi una inaspettata sudditanza a certi dettami genitoriali, o a certe non viste identificazioni. Racconto questo per dire, che da una parte c’è un grado di separazione importante tra il giuridico e lo psicologico, ma per dire anche che da un’altra ce ne è solo uno e in un mondo dove lo Stato Sociale funziona come si deve, queste due rubriche dovrebbero potersi sovrapporre. O almeno, il più possibile tendere a.

In particolare devo anche dire, che per una serie di azioni criminali almeno allo stato attuale della nostra cultura collettiva,  e in particolare per tutto quello che concerne i reati connessi alla violenza di genere, molti colleghi sostengono che c’è più margine di successo in interventi fatti a seguito di una sanzione  penale. E’ veramente molto difficile – anche se ci si sta lavorando per fortuna sempre di più – riuscire a fare interventi sulla violenza di genere senza che ci sia stata una sanzione pregressa. Banalmente le persone non collaborano, gli itinerari terapeutici sono violentemente sabotati. Invece dei progetti pilota che sono fatti per esempio all’interno delle carceri con sexual offenders, possono produrre risultati più importanti. Questa cosa credo che abbia a che fare analiticamente con l’inclusione simbolica, e la dimostrazione fattuale di un oggetto superegoico che chiede il suo sacrificio. Il dover accettare una sanzione crea un ribaltamento dell’ordine simbolico di una cornice antropologica per cui prima, si immaginava che l’atto violento era iscritto in un ordine narrativo che lo vedeva come giusto, come condivisibile come necessario, con una guida all’azione che aveva la forma apparente di un valore culturale, ma era la pulsione di una immagine interna che chiedeva una revanche. Nel momento in cui lo Stato sanziona – e quindi con lo Stato anche altri uomini, oltre che altre donne, altri padri, oltre che altre madri – c’è un ribaltamento di fondo che è un vertice possibile di lavoro.

 

Ciao

Non è che fossimo poi così amici noi, così estranei l’uno all’altra, io in particolare a te e a tutti voi. Quando ci vedevamo in questi pranzi rumorosi io arrivavo come la regina sciocca di un regno straniero, dove si stendevano parole lunghe come tappeti, pieno di merletti e candelabri e magari samovar, e dovevo star bene attenta a non prendermi sul serio, ma ugualmente mi salutavi con un tuo speciale ossequio, reverenziale e dissacrante insieme.
(Mi avresti regalato degli uncinetti della tua mamma, però)

Non che ci capissimo benissimo, salvo una stima poetica e obliqua per saper parlare i nostri dialetti, mi piaceva come dicevi di noi intellettuali, quel tuo modo di scivolare sul dittongo in modo che nella a si aprisse la piazza di una perplessità, di una ricerca vana, di un prestigio legittimo e tragico.
(Avresti studiato con profitto, penso, e non l’hai fatto.)
Ti ho mandato tutti i miei libri, ogni volta che sono usciti, e questa cosa mi dicevano ti riempiva di allegria, arrivava il pacchetto della casa editrice, tornavi dalla fabbrica, ti vantavi, facevi la ruota di pavone. Non ci capisco un cazzo devo confessare, poi mi scrivevi. E poi mi hai detto ilare e iconoclasta – li ho regalati a una donna con cui speravo di scopare!
Io spero ti siano stati utili.

Non so se sono stati utili, entrambi in effetti sappiamo – che con i libri non si scopa – ma mi aveva divertito quella tua disinvoltura, grazie erano per un’impresa meritevole.)
Certe volte ti spiavo mentre te non ti accorgevi, quando avevi scavalcato una certa staccionata dell’ebbrezza, che tutti ti si diceva di non passare, il fegato spappolato, lo stomaco bucherellato, le braccia pure,  stai attento ti dicevamo.
Anzi a essere onesti avevamo smesso – perché  l’autodistruzione è sempre stata la tua unica forma di svago, e anzi devo dirti, ho ammirato la protervia del tuo cuore e del tuo corpo – io con tutto quello che gli hai fatto tu, oggi non starei qui a salutarti. Sinceramente, un fisico di ferro.

Ma dicevo che ti spiavo. Magro stralunato e siccome ubriaco cattivo ma anche dolcissimo insieme, malinconico. Ti vedevo una tua specifica leggerezza, una tua singolare innocenza. Tutto quel passato feroce sulle spalle  – sbriciolato inutilmente, quei tentativi letterari di prendersi una piccola rivincita dal bordo del mondo, ti ho immaginato ragazzino tirate sassate sulle vetrine, come sulla schiena di un coccodrillo che ti avrebbe mangiato, ti ho visto quegli occhi che ci avevi te, gli occhi dei timidi loro malgrado che di rado ti prendono apertamente, e la loro disarmante incapacità alla seduzione. Sei rimasto figlio per tutta la vita. Ma uffa, oggi eravamo tutti insieme, abbiamo pranzato senza di te, come tutte queste ultime volte, senza di te sempre a parlare un po’ di te.
Com’è brutto quando gli amici se ne vanno.

 

(ciao, qui)

Vicino di ombrellone

L’uomo è un padre alto e con un corpo atletico e degnamente lavorato, ma soprattutto è un padre, un padre in ogni cosa che fa, quando per esempio parla con la voce troppo alta volendo farsi sentire da chi non lo conosce, quando accarezza la guancia del suo terzo figlio, quando stentoreo dice, ascoltate la mamma, e i bambini selvatici  – ne ha cinque – gli rotolano intorno.
 E anche quando fiero, scultoreo, inappropriato e ridicolo si concentra in posture auspicabilmente esotiche, platealmente nipponiche, sul bagnasciuga.
Alla sinistra le radioline, alla destra l’unicorno che galleggia.

(E’ maestro di ginnastica? Chiede una signora grassa, una nonna senza dubbio, ma anche zia con diverse medaglie al valore militare, e che lo guarda interrogativa sotto un ombrellino a spicchi rossi e bianchi, e studiandolo molto, studiandolo con un cuore io credo più di madre che di donna, cosa ci avrà sto povero figliolo, che non trova pace e fa tutti questi movimenti a quest’ora della sera, anziché stare ammodino sulla sdraio per esempio, o parlare di calcio con gli amici.
Forse, si dice, ci avrà un guaio con la schiena.)

Sul fare della sera,  lui a volte si concentra, si dedica al pensiero – a quel punto scivolando a capo insotto e zampe all’aria in lidi più ayurvedici, è evidente che sta pensando yoghescamente, è irto di saggezza,e allora  i bambini lo usano come bersaglio di palline di carta. Poi lui si ricompone e proclama: ora faremo tutti una bella passeggiata! E tutta la spiaggia, nella sua interezza, ha in questo modo appreso che in quella famiglia la mens è sana nel corpore sano, perché il padre sa quali sono I Valori Importanti con cui Crescere dei Bambini, la meditazione, l’amore, ma anche le passeggiate. Tutti siamo cioè resi solennemente partecipi di questo ordine teleologico dell’esistere.
E tutti temiamo sempre, anche se non arriva mai, una preghiera a tradimento.
La moglie, è di nuovo incinta.

Si alza ora, e sono io a guardarlo, lo guardo sempre anzi, spudorata e non molto buona, ora ecco raccoglie le cose, esorta la figlia più grande, che scuote la testa, annoiata e svagata. Lo spio e lo trovo struggente lui con tutti i suoi. E’ un po’ come certi personaggi che stanno spesso nei racconti americani, di genitori bizzarri e disadattati che lottano come possono per amare il più possibile, recitando una comodità con il mondo che non gli appartiene, beandosi dell’innocenza dei più giovani, felici di essere creduti. In realtà stanno in una bolla separata, conflittuale e ostile, si difendono tragici, cartacce sulla battigia, non sono amati, non sono capiti, non sono stimati. Ancora per qualche anno i figli biondi e apollinei di questo padre goffo e popolare, lo guarderanno spensierati e piacevolmente devoti.

 

Poi sarà terribile.

(Per una oscura analogia di opposti – qui)

 

Note su stupro e violenza di genere.

 

  1. Cominciando da una recensione

Sul numero di giugno della New York Review of Boooks è uscita una recensione molto severa e negativa de La Scuola Cattolica, di Edoardo Albinati, romanzo che è uscito nel 2016 e che ha vinto il premio Strega nello stesso anno – la firma Colm Tóibín – romanziere, cattolico, irlandese (se ne può leggere una parte qui).  Le accuse di Tóibín sono diverse: trova il romanzo prolisso, volgare e inutilmente sgradevole, anche se riconosce all’autore un talento narrativo e una consistente capacità descrittiva. Soprattutto però è molto severo sull’impianto teorico dell’autore perché propone una psicologia del maschile, e una rappresentazione dei rapporti uomo -donna poco aderente al vero e, nonostante le intenzioni dichiarate da Albinati a più riprese, decisamente ostile alle donne, poco informata sui cambiamenti sociali che hanno grandemente modificato i rapporti di coppia e simultaneamente poco informata su cosa sia veramente la psicologia dello stupratore.
Ma forse, la cosa che scandalizza di più lo scrittore irlandese è quanto poco questa visione, sia informata sulla psicologia del maschio non stupratore.

Personalmente mi sono trovata in buona parte d’accordo. Quando lessi  le prime trecento pagine de La scuola cattolica e che ho mollato anche per altre perplessità che esulano  da questo contesto –intercettai  tutte le cose che avrei trovato in questa recensione,  e ora ripenso anche alle domande del critico sulla New York Review of Books: ma che facevano i giurati dello Strega quando c’era da leggere queste pagine? E l’editore? Come mai cioè chiede Tóibín, questo libro non ha incontrato ostacoli?
In questo post vorrei in primo luogo rispondere a queste domande, e in secondo luogo parlare di come nella psicologia dinamica e nella psichiatria oggi, si parla di stupratori e di violenza di genere, in terzo luogo parlare di maschi non stupratori e non violenti . Infine vorrei riflettere su un modo efficace, politicamente e culturalmente di parlare di abusi sessuali.

1. L’italia.
Perché caro Colm, sai cosa hanno fatto i giurati dello Strega con questo romanzo e le pagine che ti hanno indignato? Le hanno lette. E le hanno apprezzate, come un nobile tentativo di un uomo di essere intellettualmente onesto con se stesso come maschio e che cerca come maschio di fare un lavoro critico sul maschilismo, imputando un delitto incredibile come quello del Circeo, tout court alla sua natura di maschio. Lo hanno trovato, io credo anche a ragione, un romanzo leale e in buona fede, il ritratto senza infingimenti degli aspetti deteriori di una visione del mondo, che loro per primi probabilmente condividono.  L’Italia d’altra parte è un paese dove da una parte per decenni ha trionfato l’idea del crimine come effetto della marginalità sociale, e dello stupro come reato contro la morale e contro la persona. Hanno pensato che Albinati potesse essere una buona risposta a quel retaggio.

Albinati d’altra parte fa un’operazione che viene richiesta spesso agli uomini da alcune  femministe, italiane e non: assumiti le responsabilità delle tue derive criminali, assumiti le responsabilità del tuo modo gerarchizzante e violento di trattare le donne. Confermaci a noi donne, che voi maschi siete nostri nemici. Riconoscete che questa cosa dello stupro è roba vostra.
A questi dello Strega questa cosa pare nobile e attuale. E c’è da capirli – perché non so da voi in Irlanda – ma noi in Italia abbiamo parlamentari come Calderoli, percentuali risibili di donne in politica e ai vertici delle aziende, un gender gap che ci fa sorpassare da paesi come il Cile, un consistente problema di violenza di genere, e dunque, quando noi ci abbiamo il femminismo, abbiamo il femminismo vecchio, il femminismo adatto all’arretratezza di un certo sistema culturale. Da noi è attuale quello che le donne americane archiviano insieme ai fondatori puritani degli Stati Uniti. Ci ritroviamo a premiare un libro che aveva senso premiare nel 1981. Siamo sociologicamente, e culturalmente fermi. Siamo anzi in una recessione economica che è anche una recessione della riflessione sociale e politica. In diversi settori della nostra vita pubblica – dalle scuole al sistema sanitario nazionale, dalle carriere accademiche al dibattito pubblico, tutto era più democratico, vivace, promettente, proliferante trent’anni fa. E dunque – in un sistema socioculturale fermo sono ancora efficaci strumenti di lettura culturale stantii.

Questa arretratezza culturale, fa squadra con la resistenza in Italia fortissima, del mondo intellettuale, e in particolare del mondo  di chi fa narrativa, teatro, cinema, di aggiornarsi su cosa scrivono e cosa producono gli studiosi di scienze sociali  e soprattutto di psicologia. Al di la di quanto abbia approfondito Albinati – l’ignoranza su tutto quello che è stato scritto dopo Freud da parte del mondo intellettuale è  un trend ancora fortissimo. L’intellettuale medio italiano non è andato oltre Freud. Spesso straparla di psicoanalisi senza avere la più blanda contezza del fatto che gli scaffali del terapeuta da cui si è fatto probabilmente curare, sono pieni di altri nomi. D’altra parte, moltissime femministe in Italia – anche se naturalmente non tutte – hanno un rapporto conflittuale con la psicologia. Un po’ perché vedendo quella che viene spacciata per attuale dall’industria culturale la considerano ancora  maschilista, ma in parte perché la psicologia seria, quando lavora non dice quelle cose che dice Albinati – uomini cattivi tutti in quanto titolari di fallo, il quale è ipso facto connesso con la sopraffazione. Per cui la violenza è una specifica dei rapporti di coppia.  La psicologia inquadra la violenza di genere nell’agito di una patologia, che è al livello di individuo, o del sistema culturale che la patologizza. Alle donne femministe pare che questo inquadrare l’abuso nella patologia, sia un togliere un’arma. E la situazione politica ed economica delle donne Italiane, ti fa soffrire se perdi un’arma. Diciamolo – c’è da capirle.

 

 

  1. Stupratori e maschi violenti con le donne

Io credo che per capire per bene l’atto dello stupro, e in generale la psicologia della  criminalità aggressiva e omicida bisogna prima di tutto mettere a fuoco e interiorizzare e la grande rivoluzione che ha comportato nella psicologia e nella psichiatria l’irruzione del concetto dei disturbi di personalità (e l’immane valore che ha avuto l’opera di Kernberg nelle sue descrizioni del funzionamento borderline).
Noi veniamo da una teoria psicologica per cui prima si individuavano due macro aree: la nevrosi e la psicosi, che rappresentavano due grandi descrittori di modi di funzionare e il cui focus dirimente era sulla comprensione del reale. Nelle nevrosi ci possono essere dei disturbi emotivi di vario ordine e grado, ma la decodifica del reale è corretta, non ci sono allucinazioni, non ci sono visioni, c’è un buon funzionamento razionale. Nelle psicosi il funzionamento è diverso, la decodifica del reale è compromessa, le persone possono dire cose che appaiono illogiche, vedere oggetti che non ci sono, sentire suoni e voci che in realtà non sono presenti, e anche quindi obbedire a dettati interiori che fanno fare delle cose contrarie al senso comune, e in qualche caso pericolose per se stessi e il prossimo. Questa dicotomia in fondo ruota attorno alla capacità di intendere, ancora più che a quella di volere, e le persone che vivono nel campo psicotico avendo compromesso la prima vedono compromessa anche la seconda. Questa storica opposizione ritorna ancora oggi nel nostro codice penale: un avvocato può invocare una perizia psichiatrica che dimostri con una diagnosi che una franca schizofrenia elimina  disconosce nell’autore del reato la capacità di intendere e di volere, e quindi la sua responsabilità penale. E’ una strategia che le vittime di violenza di genere spesso temono.

Questa storica opposizione è anche incardinata a una specie di divisione delle sfere di competenza, con la psicologia e la psicoanalisi che a lungo si sono occupate delle nevrosi, cioè di tutti quei disturbi che si andavano a formare a partire dal mancato superamento del complesso edipico e la psichiatria che si è occupata delle schizofrenie, e di quei funzionamenti mentali caratterizzati da una perdita di contatto con il piano di realtà. Ed in fondo questa opposizione rimane nel nostro retroterra culturale anche per delle ragioni non proprio sciocche: in fondo, le psicosi sono quelle che vengono curate con degli psicofarmaci con certezza, mentre per le patologie dell’altro comparto si prevedono molte diverse possibilità. Questa polarizzazione però ha delle ricadute anche sul modo attuale di concepire genericamente la violenza di genere. Si assiste a due versanti: quello reazionario maschilista – che tende a minimizzare, a coltivare l’ipotesi narrativa del raptus o dell’accecamento,  e quello progressista e femminista che tenta di far risalire la vicenda a una storia nevrotica, o a una storia di potere della cultura dominante,  dal momento che gli autori di questi crimini  – sentendoli parlare, sembrano avere un buon rapporto con la realtà e sembrano fare discorsi molto logici. Hanno cioè la capacità di intendere e di volere, non sono schizofrenici.

In realtà l’introduzione dei disturbi di personalità ha radicalmente cambiato questo panorama trasformando l’opposizione tra funzionamento nevrotico e funzionamento psicotico in una ellisse al centro della quale c’è un funzionamento diverso, che può essere moderatamente disfunzionale se è vicino al comparto delle nevrosi e che può essere invece più gravemente disfunzionale se è vicino al comparto delle psicosi. I disturbi di personalità sono molti, sono variegati e riassumerli tutti qui esula dai nostri scopi. Quello che ci preme sottolineare è che come maxi categoria dobbiamo dire che: corrispondono a un buon funzionamento cognitivo, l’esame di realtà è integrato, non si palesano allucinazione o deliri, non si sentono voci. Le persone che ne soffrono possono essere anche estremamente competenti nel lavoro, e mantenere delle aree di funzionamento intatte, però la gestione della decodifica emotiva della realtà, i meccanismi difensivi che vengono adottati sono assolutamente distorti, disfunzionali, e comportano gravi difficoltà.  Da un punto di vista analitico, queste persone utilizzano meccanismi difensivi più arcaici e rigidi, investono i loro oggetti di massicce proiezioni, e usano in maniera massiva quel comportamento complicato da spiegare che è l’identificazione proiettiva. Non solo cioè mettono addosso all’altro cose che non lo riguardano, ma fanno vivere all’altro sentimenti di se stessi negati e non accettati.

C’è un certo dibattito su quanto di biologico ci sia nei disturbi di personalità – spesso una radice biologica c’è in molti disturbi psicologici.  In una stanza d’analisi è interessante notare come il malessere di un assistito spesso non combaci con l’intensità dell’esperienza negativa che pure riporta. Tuttavia si constata come i disturbi più franchi nascano diciamo da un incontro funesto tra una vulnerabilità biologica e un accudimento largamente disfunzionale. Qui allora arriviamo a un altro mito da sfatare della psicologia popolare è che la retorica del trauma. Non è che le persone ci hanno un trauma, un evento, una cosa brutta, e poi fanno le cose brutte da grandi. Questo è un mito fascinoso che la costruzione dell’edificio psicoanalitico ha messo in giro e tutti si sono fermati a guardarlo senza più occuparsi di come diventava il resto del palazzo.

Perché invece oggi, anche molto grazie alla ricerca analitica post freudiana – l’asse che comincia con Melanie Klein, prosegue con Winnicott, va avanti con Kohut e Kernberg  giù giù fino alla teoria dell’attaccamento o al lavoro sulla mentalizzazione di Fonagy, ci si concentra molto sugli stili di accudimento che vanno dalla nascita all’infanzia, e si ragiona su come una successione quotidiana di inadeguatezze o mancanze, o anche comportamenti reiteratamente ostili e aggressivi verso un bambino, ne foggino il modo di gestire le emozioni, di relazionarsi e come dire di sopportarsi,  in qualche modo applichino dei processi distorcenti, imprimano un’organizzazione psichica che rimane durevole nel tempo, e che esiterà poi in una vita problematica o in comportamenti lesivi per se ed eventualmente per gli altri.
Ora non è mai scientificamente corretto parlare per assoluti, ma mi sento di dire che in una stragrande maggioranza dei casi, specie nel nostro contesto culturale, gli atti criminosi che riguardano la sfera privata, stupro,  violenza di genere, femminicidio ma anche infanticidio, affondano in primo luogo le loro radici nella magmatica area dei disturbi di personalità – il che (è sempre saggio sottolinearlo) non sta a significare che tutte le persone a cui sia stata formulata una diagnosi in quell’area tendano, per l’amor del cielo, a compiere atti criminali ma che quel tipo di azione ha spessissmo a che fare con quel pacchetto di funzionamenti.

Stringendo il focus sullo stupro, perché sia compiuto, perché un uomo decida di compierlo, occorrono delle premesse per quel che mi concerne, largamente patologiche. La prima riguarda l’eccitazione scatenata non dalla vivacità sessuale ma dalla morte sessuale. Come dimostra l’esperienza o l’iconografia pornografica, gli uomini sani sono eccitati dall’eccitazione della partner, o di una partner immaginaria. Nell’immaginario sessuale maschile, lei è vogliosa, seducente, attiva, mostra col corpo il suo coinvolgimento. Lo stupratore invece ingloba nel suo pacchetto immaginario, una morte di lei, una resistenza, una ferita, o un disgusto.  Il grande cortocircuito che lo abita, è tra eros e thanatos, dove la forza mortifera vince su quella erotica e dove la valenza aggressiva del testosterone (mediatore ormonale di sesso e di lotta) sopravanza su quella sessuale. L’uomo che stupra non fa sesso, annichila, combatte, è più vicino ai militari ubriachi che fanno razzia nei villaggi che a qualsiasi maschio sessuale adulto che si porti a letto una ragazza.  Dunque lo stupro è un atto sessuale solo per una questione diciamo di geografia del corpo, per una questione di mezzi, ma di fatto è un atto aggressivo, uno schiacciare, un ridurre a niente.
La seconda riguarda le premesse psicologiche interne con cui è pensata e vissuta la donna. Nella mia personale esperienza professionale con uomini coinvolti in vicende di abuso sessuale, o di violenza di genere, l’agito aggressivo è una caduta nell’azione che si vendica che controbilancia, che agisce un grande potere interno rispetto al quale il soggetto si sente fortemente inerme e anche dipendente.  Per far un esempio di come può essere l’immaginario interiore di un maschio abusante, senza voler fare cortocircuiti banalizzanti tra vicende private e produzioni autoriali, io trovo che per esempio il film la venere in pelliccia, di Polanski, rappresenti molto bene quello che può essere il mondo onirico, interno di un maschio abusante. Ne’ la venere in pelliccia, la donna seduce ma mette ha un potere totale sul protagonista, lo eccita ma non lo mette nelle condizioni di agire sessualmente con lei. Lo confina a un bisogno eternizzato. Spesso i sogni di questo tipo di pazienti – le rare volte che arrivano a una consultazione  – magari su istigazione di un avvocato o per il provvedimento di un giudice, inscenano femminili enormi, superpotenti, irraggiungibili, talora con comportamenti sadici, rispetto ai quali il sognatore si rappresenta come inerme, imbelle, incapace di fare alcun che, o che sopravvive grazie all’identificazione di un maschile interno testosteronico e ferino. Mi sono capitati sogni di pazienti in cui Il femminile errappresentato come un animale enorme e minaccioso, fuori misura, mentre il maschile al confronto come piccolo, schiacciabile, modesto.

La terza riguarda due sottili problematiche che hanno messo in luce gli studiosi postfreudiani e che hanno a che fare con i disturbi di personalità sul versante borderline più gravemente compromesso, e riguardano l’incapacità di mentalizzare gli stati emotivi altrui, di sentire cosa prova il prossimo, e allo stesso tempo l’incapacità di sostenere una rappresentazione simbolica una meta rappresentazione delle proprie costruzioni interne. Di reggere l’impatto cioè della fantasia, e nel caso specifico della fantasia sessuale. Come spiega molto bene Bader, le fantasie sessuali sono formazioni di compromesso che fanno sopravvivere la libido a fronte di censure psichiche provenienti dalla propria storia infantile, piattaforme in cui tutti noi – consapevoli o meno – costruiamo il nostro modo di stare in relazione sessualmente – con i nostri partner. Ma la fantasia sessuale può essere una forma su cui si può lavorare che si può trasformare specie nei territori della psicoterapia, è qualcosa che può essere lavorata in termini di rappresentazione in una misura largamente postmoderna dove si decodifica quando una persona si eccita per una certa immagine, quale parte di lei entra in gioco, e quale parte di lei è proiettata sul partner della scena immaginata.(  Per questo per altro secondo me non ha molto senso condannare il porno, il porno è un gioco dell’immaginazione un giocare a è naif considerarlo tout court responsabile di un passaggio all’atto) La fantasia sessuale è una funzione postmoderna della psiche, un giocare a qualcosa ma lo stupratore non regge questo piano del fantastico non regge il piano metaforico, non sa esplorare il suo giocare a. In effetti, quando si lavora con uomini responsabili di una violenza di genere, in generale, spessissimo si constata questa difficoltà, che li rende più vicini al piano delle psicosi che a quello delle nevrosi: stanno poco sul piano metaforico, bisogna lavorare molto per far recuperare loro questo uso simbolico dei loro pensieri, né sanno esplorare troppo emotivamente cosa sentono quando pronunciano certe frasi. Bisogna lavorare molto, per recuperare queste competenze, e arrivare a far emergere quel senso di subalternità al femminile interno.

 

L’eziologia di questo disastro relazionale, può avere storie svariate. E può essere poco sensato qui cercare di elencare una casistica. Però mi interessa fare un solo esempio, perché può essere utile per rendere conto del corto circuito tra variabile familiare e variabile sociologica e culturale. Poniamo una coppia genitoriale composta da: un padre aggressivo disoccupato ma arruolato nella criminalità organizzata e una madre fortemente depressa e molto svalutata dal padre. Il figlio di questa madre avrà davanti a se una madre per un verso emotivamente inaccessibile, perché quando è molto piccolo non ha proprio la possibilità di occuparsi di lui. Una madre che non gli da da mangiare quando la chiama, che non viene quando piange, che si disprezza, che è platealmente svalutata dal marito, che magari in quanto donna è stata anche platealmente svalutata dal padre, e che segretamente considera il figlio anche causa della sua disgrazia, guinzaglio del suo inferno privato. Pensiamo all’odissea di messaggi ambivalenti, schizofrenogeni che questa madre da, a un figlio che viene idealizzato in quanto maschio, ma che è comunque stato vittima di un penoso distanziamento. Questo ragazzino prima ancora di imparare a parlare e camminare ha assaggiato una dipendenza furiosa e gravemente frustrata, e gli ha fatto provare una rabbia terribile, che non ha mai incontrato nessun contenimento. Se da piccolo, precocemente piccolo, a 3 mesi, sei mesi, un anno, due anni, si è dovuto confrontare conil bisogno rabbioso, a 3 4 5 anni si prepara all’edipo con il padre che alza le mani sulla madre, o che dice cose molto brutte a lei e su di lei. Un padre che c’è poco, ma quando c’è è in questo modo. Il ragazzino può decidere inconsciamente che allora, l’unica cosa conveniente da fare è identificarsi con un maschile cattivo, abusante, che nella coppia genitoriale è rappresentato dal padre, ma che potrebbe essere una sorta di maschile fantoccio, immaginifico, come spiegava un tempo Chodorow e in tempi più recenti Zoia, che compensi narcisisticamente le voragini per cui anche il suo pensare è a mezzo servizio. E’solo  un esempio. Ci sono moltissime variabili. E spesso, bisogna dire, da storie simili poi arrivano adulti molto diversi da questi – perché incredibili sono le risorse delle persone. Ma a riprova di questo assetto ricorrente, è interessante sottolineare quello che rilevano spesso le operatrici dei centri antiviolenza: la violenza di genere si scatena in una coppia in una percentuale abbondante di casi, in occasione di una gravidanza: quando la donna rivela un potere di specie, mette al mondo un bambino che ricorda al partner se stesso da piccolo, ma si mette anche nella situazione di essere inaccessibile come era sua madre. Il nascituro è un competitor. La rabbia è cieca.

Quello che dunque risulta dissonante nelle ricostruzioni della mente di uno stupratore, è che nella nostra psicologia popolare, nella migliore delle ipotesi intessuta da freudismo della prima ora, non arriva mai la qualità di un discorso mentale incrinato, dove il campo simbolico ed emotivo sono devastati, e dove deve arrivare da qualche parte la derivata del tragico nel senso di sofferenza, non solo del tragico nel senso della sopraffazione, ma anche delle strane incongruenze logiche. Per esempio,  la narrativa sul maschio abusante non conosce mai il ridicolo, l’umoristico che è capace di suscitare il disturbo mentale, perché spinge sempre sulla somiglianza con l’uomo della strada – anche Albinati, questo cerca, la continuità. Eppure nella mia esperienza con situazioni del genere – io ho toccato con mano quell’incongruenza.  Metto qui due dialoghi inventati, ma molto molto simili a certi a cui ho partecipato nel mio lavoro.

 

–  Allora lei, dottoressa, lo sa che mi ha detto?
– Cosa?
– Che non era giusto che io decidessi la musica da mettere
– Era una cosa grave?
–  Ho sentito che dovevo strozzarla.

E che non è molto lontano da

– Allora io gli ho detto: non si mette la macchina in doppia fila!
– In effetti non si dovrebbe…
– Ma lui ha detto che era di corsa e se ne è andato!
– Lei come si è sentito?
– Molto arrabbiato. Perciò gli ho staccato lo specchietto retrovisore.

L’atto aggressivo – associato a un futile motivo, viene sempre rappresentato quando ci si occupa di violenza di genere come prova di crudeltà, di una cattiveria che non si discute sul piano logico. La gratuità è rappresentata come prova massima del potere, e dell’esercizio del potere, ma non si mette mai nella narrativa, anche perché è davvero molto complicato farlo, oltre che per una funzionalità alla logica maschilista.  L’accento sullo stralunato, sull’illogico, sull’antieconomico è arduo, difficile, e sembra non convenire a nessuno. Non conviene alla logica vittimista ma non conviene neanche a quella del potere maschilista. Le volte che i partner ammazzano la moglie, i figli e poi se stessi, persino in quell’occasione che è la prova massima della contemplazione dell’illogico che ti fa cadere nel tragico, l’illogico, lo psico -pato -logico è eluso. Seconda della prospettiva politica il persecutore è cattivo o ha le sue buone ragioni, o al limite ha avuto un raptus di follia, un accecamento transitorio, ma non una disfunzione permanente. Perché la disfunzione permanente è ridicolizzante. Eppure è piuttosto evidente che aggredire una che non conosci, così come aggredire una partner, è fondamentalmente un avvelenamento dei pozzi. Intacchi un oggetto da cui dipendi. Se lo fai lo fai perché la tua decodifica del reale, è molto meno funzionale di quanto appaia. E questa disfunzione, si dimostra nella frequente successione femminicidio -suicidio.

 

3.E i maschi che non sono violenti?

Nel lontano 1952 Melanie Klein introdusse in psicoanalisi dei bambini  il concetto di identificazione proiettiva. Si tratta di un meccanismo difensivo, come la scissione e la proeizione, molto complicato e articolato, secondo cui il bambino e poi l’adulto che non avesse sufficientemente elaborato le sue fasi di crescita, mette addosso all’altro parti di se negate – spesso parti dolorose, indegne, da rifiutare, sentimenti orribili di sentirsi abbietti, sputati, non amati, nell’altro, facendoli vivere nell’altro e facendo in modo che l’altro si senta come si sente lui. Questa teorizzazione avrebbe poi permesso alla  Klein di scrivere quel testo così bello e importante che è Invidia e gratitudine, in cui ben descriveva quello stato patologico di chi, sentendosi povero, abbietto, privo di cose belle, non solo di amore, ma anche di essere amabile, e confrontandosi con un altro vissuto come pieno di quelle stesse cose di cui si sentiva privo, si riempisse di invidia, e lo attaccasse anche tramite la sua identificazione proiettiva.

 

Nel 1967 lo psicoanalista Dicks, che alla Tavistock si occupava di psicoanalisi delle coppie, proponeva la possibilità di concepire un’idea positiva dell’identificazione proiettiva perché osservando le coppie funzionali, o moderatamente disfunzionali, si rendeva conto che invece quello che succedeva in quelle coppie, era che un partner metteva addosso all’altro, e vedeva nell’altro, le proprie parti buone le faceva agire, le controllava e le proteggeva.  Ugualmente si poteva dire della proiezione: non esiste solo la proiezione maligna di parti negative non accettate di se sull’altro, ma nella coppia si proiettano sul partner anche le proprie parti buone. La toponomastica junghiana in fatto di coppia e identità di genere metaforizza queste questioni con i concetti di figure archetipiche controsessuali, per cui gli uomini cercherebbero nelle donne le connotazioni tipiche delle loro caratteristiche interne di anima, e le donne negli uomini le caratteristiche tipiche del loro animus.

Stringendo lo sguardo su una ipotetica psicologia maschile dei rapporti di coppia, si può dire che qualora un bambino maschio, sia stato allevato da una genitorialità sufficientemente buona, scavallata la pubertà avrà una serie di oggetti interni da proteggere e ritrovare nella partner, potenziandoli e facendoli crescere. La tenerezza, la dolcezza, e tutta la variegata scala musicale del sentimentale non sono falso se, ma anche altre cose che specie nei sistemi sesso genere più conservatori, il maschile riconosce al femminile,  lui cercherà e proteggerà in lei. Quel lineare rapporto col vitale, con il carnale, con il corporeo. Questo sta a dire, che nell’arco identitario del maschile, nel suo mondo interno ci sono molte variabili dell’essere con una partner. Ribaltamenti, tenerezze, cameratismi, passività, romanticismi, svariate forme di giocare a, ossia di mettere in una partita fantasia sessuale e relazionale e gioco sessuale reale, in modo da attivare una evoluzione interna a se stessi, alla partner e alle diverse relazioni.  Diciamo anzi che queste cose ci devono essere, e se non escono questa mancanza è diagnosticamente rilevante.

Un’altra cosa che possiamo dire sulla linea di confine che segna la caduta nell’atto criminoso contro la donna, riguarda la capacità di mentalizzare stati mentali diversi dal proprio. Bisogna riconoscere che ci sono contesti culturali e sociali che teoricamente scoraggiano gli uomini dal raffinare queste competenze – si pensi alle carriere militari per esempio, o certi ambienti socioculturali dove la criminalità organizzata sociologizza culturalizza tratti patologici, ma non è che al maschile manchi, la capacità di sentire gli stati d’animo di chi ha di fronte, di identificarsi con l’altra, di capire quando è felice, quando è triste, e cosa le può succedere emotivamente quando è aggredita fisicamente o sessualmente – l’empatia non è un dispositivo culturale – è un dispositivo biologico. Secondo alcuni, passa dal funzionamento dei neuroni specchio – rientra in un minimo sindacale delle competenze soggettive.. Questo arsenale di competenze, è una dotazione che l’essere umano ha e che sviluppa a varie altezze, aiutandolo nella vita privata e nella vita professionale. Poi ci saranno persone che hanno questa capacità più sviluppata e persone che invece ce l’avranno di meno. Ma esiste una soglia che è quella comune, le persone che stanno sotto quella soglia comune, che non riescono per esempio a vivere l’esperienza dell’identificazione che fa arrivare emotivamente gli stati d’animo dell’altro, che non sanno riconoscere il dispiacere e la sofferenza – specie in un contesto storico e culturale che non le incoraggia in quella direzione (la psicologia della guerra meriterebbe un post a parte) devono avere un importante impedimento interno. Per quelle persone c’è un mondo emotivo fortemente blindato e decisamente inaccessibile, che rende, il loro modo di parlare degli altri, con un latente fondo di surreale. Ma di norma anche se il passato e l’infanzia non sono state rose e fiori, agli uomini quei dispositivi non sono preclusi.

 

4.Ancora Femminismo, ma come

Questo non vuol dire, che non sussista un grande problema, che riguarda la violenza di genere, e che femminismo o meno, non si debba porre una domanda politica e amministrativa per risolverlo. E non vuol dire che il problema di uno sguardo sessista nella gestione delle cose, comprese queste, nel nostro paese non esista. Ma credo che bisogna insistere su una distinzione, e dipanare un cortocircuito.

Lo stupro è un oggetto simbolico, l’epigono della sopraffazione del maschile sul femminile. Dell’uomo sulla donna.  E’ il sogno diciamo di una cultura che in questo modo rappresenta una gerarchia di valori. Possiamo considerare lo stupro come un film che vediamo tutti, tutti noi che condividiamo la nostra storia patria culturale, e che con la sua violenza indica una distribuzione del potere. E’ un atto misogino che diventa simbolo di una società maschilista. E per quanto misoginia e maschilismo siamo concetti diversi tra loro, con una clinica diversa – il maschilismo è un atto politico nevrotico o addirittura rispettabile e condivisibile da tutte le parti in causa, la misoginia è un atto francamente patologico ma mi sono espressa qui – l’atto misogino dello stupro viene letto, e quindi protetto e interpretato come atto maschilista.  Nell’economia simbolica di un paese francamente maschilista allora può capitare che sia minimizzato, non considerato grave, che ai processi possano ancora presentarsi giudici che non aderiscano allo spirito della legge che lo consideri reato contro la persona, perché magari le donne sono persone di serie b, può capitare che il giornalista che lo descriva si abbandoni a una leggerezza che prima  di tutto è una dichiarazione politica, può capitare che la ragazza che lamenta un atteggiamento persecutorio da parte di un estraneo, incontri una noncuranza se va alla polizia – possono ancora capitare molte cose perché lo stupro è qualcosa in cui in molti latentemente rispeccchiano un ordine simbolico.

Allora quando arriva il libro di Albinati, o le correnti femministe che lo hanno incoraggiato, in apparenza sembra che si proponga una operazione a favore delle donne, ma in generale è il suo simmetrico opposto. Il maschio è inguaribile,  perché il cazzo è la sua malattia, ma allora a quel punto è lecito parlare di malattia? Di male? Siamo molto molto costernati, dice Albinati, proprio addolorati gua’, ma questo è l’ordine delle cose. Noi maschi siamo così.

 

La conseguenza politica ulteriore sarà: che i maschilisti più incancreniti muoveranno la testa gravemente, eh vedi, comunque alla fine dice che siamo tutti così, donna a casa a letto e chiava, lo dice pure Albinati che è tanto istruito,  ma tutti quegli altri, quelli che compartecipano più o meno malvolentieri a una gerarchia dei ruoli che li fa essere illuminati professori universitari femministi nella misura in cui il cesso anziché la moglie lo pulisce una donna più povera,  ma anche quelli che nel privato, il cesso lo puliscono loro e i regazzini li guardano loro, quindi perché occuparsi delle quote rosa nelle dirigenze delle imprese, o perché occuparsi proprio di quelle picchiate che tanto mi fo un mazzo sul mio, dicevo questi questi che potrebbero essere soggetti politici di un discorso collettivo sulle questioni di genere in Italia, questi si tirano indietro, dicono che la cosa non li riguarda, si sentono ingiustamente feriti, con Albinati, o le femministe che gli mettono addosso una psicologia che non è la loro, che magari sono partner di baldanzose e pettorute virago, si ammazzano la sera di battute volgari con la moglie, arriva questo e parla di cose a loro del tutto estranee, e dicono ma questo è matto. Io non ci entro niente. Mi chiedono di assumermi una identità che non è la mia.E ce li giochiamo. Perché ci hanno pure ragione.
Ma ce li giochiamo, perché perdiamo l’occasione di sottolineare loro le modalità e le occasioni in cui partecipano a una gestione sessista della vita pubblica.

Proporrei di spostare la necessaria azione politica in difesa delle donne, sulle modalità con cui è gestita la sperequazione di potere dei generi, e sui modi con cui sono operate le scelte interpretetative, e i provvedimenti da attuare rispetto agli eventi relativi alla violenza di genere. Non chiederei invece di femministizzare la psicologia, riproponendo segretamente quella stessa gerarchia di potere che si imputa all’ideologia dominante. Non è scientifico, non è corretto, non è infine politicamente utile. Ascrivere lo stupro all’identità del maschio più che alla frattura psicologica, implica la doppia complicazione di: non utilizzare correttamente gli strumenti che la psicologia offre, il che sul piano pratico vuol dire che quando un uomo violento incarcerato, finisce di scontare la pena, esce e torna a essere violento, proporre un’immagine del reale fondata su una talmente radicale malattia del reale, dal momento che questa malattia sono i maschi, che non c’è redenzione. E questo probabilmente se lo possono permettere soprattutto quelli che la mancanza di redenzione la soffrono blandamente.

 

Ci sarebbe  infine da ragionare, su come scrivere di queste cose, su come fare letteratura,  perché alla fine non è per niente facile. Mollai il libro di Albinati, che magari dopo pagina trecento aveva altri meriti che non mi sono data la possibilità di riscontrargli, con la stessa sensazione sgradevole che ho avuto spesso davanti  a certi comici, per esempio il Mago Forrest, e la Gialappa’s quando facevano delle gag oggettivamente spassosissime sul maschilismo, sull’uomo che sbava di fronte a una donna e non sa guardarla altrimenti. Quell’umorismo infatti per un verso mi intrigava, mi blandiva, perché prendeva in giro un’organizzazione ideologica, l’organizzazione ideologica sessista per cui una donna è sempre solo corpo, per un altro, sembrava giocare su un’ambiguità, perché in fondo era autoironia, ossia ironia sugli aspetti più squallidi di un orizzonte di senso condiviso, la donna è solo corpo e io sto anche dando una bella gomitata militaresca a chi ne è convinto. Alla fine, il mio  – comunque amato – Mago Forrest non rideva mai con me, rideva sempre di me con altri maschi. Ma si rendeva inattaccabile perche sembrava che invece ridesse di loro. Ugualmente, Albinati restituisce la stessa sensazione. Critica un ordine di senso a cui però arriva che appartiene con una certa comodità. Un uso disinvolto dell’indicativo che in  certi passaggi è raccapricciante. Gli si riconosce il tentativo, credo veramente onesto – di averci provato.

Ma una buona scrittura, su queste cose, deve ancora arrivare.

 

Cosa cura in una psicoterapia? ( note estive)

E’ piuttosto complicato capire per chi non ha mai attivato una psicoterapia, su quali dispositivi garantisca il miglioramento di una persona, quali siano i reali strumenti di cura. Un po’ si mischiano stereotipi, un po’ luoghi comuni, un po’ rimasticamenti collettivi di cose un tempo dette, e un po’ naturalmente perplessità e resistenze culturali. Non aiuta l’ampia offerta di paradigmi teorici e modelli di intervento, né il fatto che per quanto siano decenni che si portino avanti interessanti ricerche standardizzate sull’efficacia delle psicoterapie, siamo al punto per cui c’è una grande quantità di risultati ma ancora non perfettamente gerarchizzabili tra loro, non facilmente sussumibili in un unico sguardo. Ora, per quanto io mantenga da sempre un atteggiamento piuttosto laico e disincantato rispetto alle diverse epistemologie, drenando nel mio modo di lavorare strumenti che vengono da approcci anche piuttosto lontani dal mio, i contesti di cura e i modi di lavorare sono molti, e volendo ora parlare di cosa rende efficace una psicoterapia, io posso parlare del mio modo di intendere la psicoterapia, e del modo di intendere la psicoterapia in un contesto psicologico analitico. Ossia la psicoterapia di marca psicodinamica e specificatamente junghiana.

Presso il pubblico colto, ancora riecheggia la militaresca dichiarazione di guerra di Freud – la dove c’era l’es ci sarà l’io. In virtù della quale parrebbe davvero che la prima cosa e più importante è una illuministica lotta per il territorio, con la positivistica lanterna dell’io che fa acquisire consapevolezze su ciò che prima era inconscio, o scontato, o rimosso, o svalutato. Il Sapere come principio di cura. Questo mito grandissimo del sapere come mezzo di cura procura però spesso, ricordo quando successe a me perchè sul lettino ci stavo io, una sorta di delusione quando alla prova dei fatti e alle sfide della vita si scopriva che sapersi non bastava, sapersi non era sufficiente – e si continuavano a fare le stesse cose di sempre. E’ una sensazione molto frustrante, ed è la sensazione della metà del guado. Io so tutto dottore, ho capito eh ho capito, ma che ci faccio? Ora?
Come sarebbe che guarisco? Come sarebbe che sto meglio? Quando accade?
Facciamo un passo indietro, per capire le premesse che costituiscono il lavoro di cura di una psicoterapia psicodinamica.

Una psicoterapia psicodinamica è una serie di incontri tra due persone in uno spazio delimitato. Le due persone si incontrano a cadenza regolare, per un tempo prefissato, a un costo concordato, in un luogo che è lo studio del professionista. Hanno una precisa assegnazione di ruoli e decidono di fare un lavoro insieme perché in quella assegnazione di ruoli uno chiede un aiuto e l’altro lo fornisce. Uno sa delle cose di se stesso e l’altro -si presume – sa delle cose sulle persone.  Volendo possiamo considerare questi due soggetti come due linguaggi, uno dei quali sente che non è abbastanza funzionale a parlare la propria vita e a rispettare i propri desideri l’altro invece è qualcuno molto competente in fatto di linguaggio, si è specializzato in un certo idioma, nel caso mio l’idioma psicoanalitico e junghiano e adesso domina questo e auspicabilmente altri linguaggi. La metafora dei sistemi linguistici ci è utile perché fa capire bene come mai ci siamo tante scuole diverse. Gli approcci diversi in psicoterapia possono essere considerati proprio come lingue, per cui ci sono una grande quantità di parole diverse che convergono su significati identici, ma ci sono anche formula idiomatiche che fanno riferimento a concetti che sono di quella cultura psicoterapeutica ma non sono presenti in altre.

Quando parliamo di consapevolezza, per cui la psicoterapia aiuta nell’assumere coscienza della natura di certi nostri comportamenti, noi dobbiamo perciò in primo luogo pensare che non solo scopriamo tout court delle cose di noi stessi che non sapevamo, ma noi di seduta in seduta facciamo un esercizio di scrittura che ha due conseguenze, riscriviamo il privato, e studiamo una grammatica più sofisticata per il nostro presente. Volendo usare questa metafora linguistica  a proposito di quella tendenza a  ripetere lo stesso errore in occasioni simili, che Freud con genio individuò nella coazione a ripetere, una delle concezioni degli albori analitici da scolpire nel marmo, possiamo dire che la coazione a ripetere  si rivela in parte  come una stringa discorsiva da riscrivere, nei perché e nei per come di quel ritorno a fare sempre le stesse cose, e una parte una nuova grammatica che l’accompagna e che quindi accompagnerà il nostro modo di valutare le situazioni quando si presentano.

Qualsiasi psicoterapia dunque, in primo luogo funziona in questa direzione: allarga il linguaggio psichico e allarga quindi la grammatica delle reazioni possibili. L’aumento delle parole corrisponde all’aumento delle possibilità. L’aumento delle interpretazioni propone un aumento delle scelte possibili.
La grammatica analitica, nel dettaglio si avvale di alcuni costrutti tipici del suo idioma. Guarda cosa proietti in quella persona, riconosci quali vicende della tua infanzia tendi e ricostruire nell’incontro con quel partner, analizza cosa simboleggia per te il certo gesto – metti in relazione la rappresentazione onirica del tuo inconscio con quello che fai – sono solo alcuni esempi, i primi che mi vengono in mente.
Il primo punto della terapia  cioè -riguarda le parole che usiamo per descrivere esperienze emozioni e decisioni. Il secondo punto secondo me, non per priorità ma per ordine logico, riguarda un piccolo necessario scarto della volontà che certe occasioni propongono.

In generale, si pensa specie quando si hanno in mente le terapie analitiche, che il paziente non debba sforzarsi di fare molto – e questo secondo me è molto vero all’inizio della terapia e per tutta una lunga fase iniziale – in cui il maggior impegno è concedersi il permesso di scoprirsi, darsi la possibilità di parlare di se e dire come si parla, come si vive, le parole che si usano, e poi ancora darsi il tempo di immergersi in un tessuto linguistico che deve essere esplorato e che poi si deve imparare a utilizzare. Un po’ come quando si va all’estero a lungo, e si impara a parlare nell’esistenza una certa lingua, più che sulla carta. A un certo punto però arrivano delle occasioni che sono riconoscibili, occasioni simili a quelle che facevano soffrire il paziente prima di cominciare il suo percorso, in cui capitava che cadeva in comportamenti che lo portavano lontano dai suoi desideri e obbiettivi. E li secondo me deve entrare qualcosa che ha a che fare con la volontà. La volontà di resistere a certe sirene terribili della nevrosi interna, la volontà di non stare a sentire le vecchie interpretazioni del reale.
Se non lo chiamo io, non mi chiamerà mai, dice per esempio la giovane paziente convinta di non essere amabile. Ma anche convinta di interessarsi così poco che se davvero il partner o la persona amata non la dovesse chiamare ne sarebbe annullata. Ma se la giovane paziente riesce a provare a parlare la nuova lettura delle cose, e a dire, va bene questa volta non mi farò sentire a lungo, non mi farò sentire affatto, per fare un esempio banale, potrebbe scoprire o di essere ricercata ma anche di sopravvivere di stare bene nel caso in cui questa ricerca non avvenisse.
Il secondo punto delle terapie spesso consiste in delle cose da fare per davvero.

Il terzo punto, è terzo per agilità di esposizione ma non per grado di importanza e riguarda la qualità emotiva della relazione, e il modo del terapeuta di abitare le relazioni con i pazienti. Questo terzo punto secondo me ha due variabili: Una  il setting, che secondo me ha una sua doverosa fissità – per cui la relazione ha dei confini chiari esplicitati e fermi  – questo almeno nel mio codice linguistico e con i miei pazienti, adulti – per cui c’è un costo fisso, un posto fisso, una durata fissa, un orario fisso, il dovere del lei, il modo di stare seduti. Una seconda riguarda il tono emotivo, il modo affettivo del terapeuta di stare nella stanza e con i suoi pazienti e che cambierà nei modi e nelle declinazioni di paziente in paziente. Questa coppia di fattori ha una importanza determinante, sia perché garantiscono una affidabilità, sia perché metaforizzano una capacità di abitare emotivamente delle situazioni contenendole. Le regole sono dei contenitori protettivi, sono simboli di scatole, e spesso le persone che vengono in terapia non dispongono della capacità interna di avere delle scatole.

C’è poi qualcosa di emotivo, di affettivo, che sfugge alle categorizzazioni, e diventa difficile da circoscivere e che riguarda la dedizione dell’analista. Questa dedizione si declina in diversi modi, anche  – questo è come lavoro io – nella rivelazione di stati di animo negativi.  La relazione terapeutica è quella strana formula relazionale di un rapporto in vitro, ma autentico, di una cornice professionale ma affettiva, e deve essere una relazione che da una parte offre una esperienza riparativa, dall’altra offre delle occasioni, in vitro di correggere vecchie modalità e ancora, vecchi linguaggi psichici. Un terapeuta può rivelare a un paziente che lo ha fatto arrabbiare, e insieme possono ragionare su un episodio che ricorda altri fuori dalla stanza, ma per fare questo è importantissimo che la dedizione dell’analista, la sua affidabilità sia assodata garantita. Sentita come forte.

Infine il quarto punto, tutto analitico, secondo me riguarda il lavoro sul sogno. Il lavoro sul sogno, quando è fattibile (non tutti sognano) permette un secondo lavoro linguistico che sembra un lavoro con due interlocutori, la coscienza del paziente e il suo inconscio.  E anche un lavoro con due linguaggi, quello cosciente e quello inconscio. Naturalmente questo sdoppiamento è apparente, naturalmente noi siamo una sola entità ma lo sdoppiamento è determinato dallo sdoppiamento di prospettive e anche di oggetti. Il sogno permette di osservare il gioco psichico delle rappresentazioni, e nell’interpretazione dei sogni si fa un lavoro di decodifica che sembra arrivare a due riceventi. Anzi, quando l’interpretazione è fallace, non funziona il sogno si riproporrà identico, se invece l’interpretazione è accolta, funziona, sarà come se l’inconscio del paziente avesse mandato un messaggio e si accorgesse che è stato raccolto, e che ha avuto una risposta, e il sogno successivo inscenerà un cambiamento, proporrà qualcosa di nuovo.  Nella microfisica delle terapie è difficile cogliere i miglioramenti di seduta in seduta, ma a un certo punto ci si può guardare dietro le spalle e si può vedere la storia di un cambiamento che ha coinvolto tutta la personalità.

 

Metodo Dewey

 

I libri pensa ora, appena tornata a un volume di polvere e maschi soavi che aveva abbandonato, sono di tutti, sono di quelli che li leggono bene e li leggono male, di quelli che ci fanno le orecchie, e di quelli che li foderano. I libri si sottolineano ma anche si abbandonano, e anche pensa, i libri sono di quelli che ci fanno l’inventario di ciò che non sanno e di quelli che ci cercano solo le storie d’amore.
(I libri pensa, non sono cose per altari.)

Non s’arrabbia con i filosofi amati che si difendono poco per eccesso di eleganza, né con la tenerezza di quelli che cercano la scorrevolezza e il rapimento, come se i romanzi fossero i nastri della merceria, i capelli lisci delle bambine che devono essere sempre pettinati.  Addirittura prova una  sottile di gratitudine per le poesie orribili, testimoni di una   mancanza di talento persino sovversiva, le rime baciate per costruzione forzata, i versi di una inventiva maldestra.
Da ragazzina aveva un amico che la portava a vedere solo teatro malfatto.
(Le librerie come il bagnasciuga delle lunghe costiere dove muoiono le conchiglie, i sassi di diverse grandezze, le alghe anonime, le meduse grasse e innocue, la piccola plastica della nostra inettitudine.)

Capisce pure che i libri, sono scale o sentieri, o ascensori, così come si diceva un tempo delle società più giuste, dove si deve poter salire di piano, anche se la nostra li spacca tutti gli ascensori, ma questo è un altro discorso, i libri si dicevano sono questa cosa che ti prende da una casa e ti porta in un’altra, ti prende da un orto di parole e ti porta in un maniero, di libro in libro si finisce per poter scorrazzare su pianeti interi.

E per questo, se c’è una sola cosa che la sfida in questa sindacalizzata accettazione della cultura, sono quelli che sono arrivati forse per altri vantaggi in cima alla scala, o anche per una oscura tigna della cima, più che per amore  dei paesaggi,  e arrivati dove sono arrivati, sono ancora affezionati alle monotone minestre dell’infanzia, e su poltroncine ammodino avendo sempre scambiato formaggini industriali per prodotti francesi, dicono nefandezze sui grandi scrittori, plateali sciocchezze, un po’ per questa affezione a codici stantii,  un po’ perché il puerile scandalo borghese, negli occhi altrui – gli procura un vantaggio di ritorno, un fascino riflesso. 
Ma non bisogna arrabbiarsi neanche con questi.
(La democrazia della malagrazia).

 

(qui)

Sul mentire

 

Una fantasia ricorrente che mi viene riferita con curiosità dalle persone che non sono mai andate in terapia, riguarda la menzogna.
Mi chiedono: come fai se un paziente mente? Te ne accorgi?

La domanda mi fa sorridere. Non è che non capiti mai, ma la menzogna intenzionale, nella libera professione, è moderatamente frequente. Quando mi viene fatta questa domanda, percepisco una proiezione sul paziente immaginario, il quale diviene incaricato di incarnare la diffidenza verso la mia figura professionale, o un desiderio di sfida verso una specie di disciplina madre che sa e giudica, rispetto alla quale un immaginario paziente figlio fa delle marachelle o dei dispetti.  Quando mi si fa questa domanda cioè, penso si trascuri la sequenza di oneri che una psicoterapia comporta, quali non solo l’onorario del terapeuta, ma l’impegno in agenda, spesso addirittura due volte a settimana, che chiede una priorità esplicita su altre cose importanti nella vita. Tralasciare quest’onere fa trascurare l’importanza degli stati d’animo di malessere, di scontentezza o  disperazione che fanno prendere sul serio una terapia, che fanno assumere scegliere una responsabilità. La menzogna plateale capita, anche li in fondo molto meno spesso di quanto si sia portati a credere,  a quelle persone a cui per varie questioni terzi abbiano imposto dei colloqui psicologici. Partner che trascinino qualcuno in una terapia di coppia, giudici che impongano un ciclo di incontri a un giovane adolescente.
La menzogna plateale è una contraddizione in termini, eventualmente in quanto tale, un sintomo piuttosto poderoso.

In generale comunque lo psicoterapeuta, specie di estrazione psicodinamica, per il suo modo di concepire tutto quello che cade nel dialogo, tutto ciò che viene detto in stanza, ma anche fuori della stanza, ha un rapporto peculiare con il concetto di bugia, e anche con una serie di concetti molto orientativi nel senso comune che hanno a che fare con il binomio vero/falso autentico/recitato come per esempio tutta la retorica del personaggio, della corazza, della mascherata. Queste antinomie concettuali che nella nostra quotidianità per diverse persone assumono dei contorni ideologici, in stanza di cura tendono un po’ a sfumare, è come se il passaggio da fuori a dentro la stanza, togliesse quel filtro che avevano a disposizione le vecchie macchine fotografiche  – il polarizzatore – che tendeva a rendere i confini delle immagini più netti, e introducesse una prospettiva sfumata, più organica.

In stanza infatti appaiono nuovi vertici di osservazione che destrutturano il concetto di finzione. Un vertice riguarda lo statuto epistemologico di tutto ciò che viene detto, e un vertice riguarda la funzione di ciò che viene detto nel contesto di una relazione. In termini pratici: una persona è seduta di fronte a me e si sta per esempio vantando di un grande successo sul lavoro, infarcendolo di talmente tante piccole cose, che in realtà  stanno stravolgendo gli eventi. Il teraputa allora si chiederà:  questo racconto quali parti interne del paziente rispecchia, e cosa dice l’atto di aggiungere quei particolari del suo modo di stare in relazione con me, e non solo con me?
In un certo senso, tutto è verità in terapia. Ma è una verità molto complicata perché in ogni stringa discorsiva, in ogni frammento delle cose raccontate, il linguaggio, il corpo, i silenzi, ognuna di queste cose che fanno il corpo della parola, dicono le loro verità parziali, intrudono.

Per esempio: il nostro uomo che ci racconta un parzialmente falso, successo professionale, ripete molte volte lo stesso inciso, si passa la mano nei capelli, non vuole smettere di parlare, copre con le parole il silenzio possibile,  e allora questi secondi atti discorsivi  – ci si chiede – cosa aggiungono al suo racconto?  Forse ci spiegano bene la funzione specifica che assolve quella falsa celebrazione di se?
Forse ci testimoniano la consapevolezza della riconfigurazione forzata? Forse ci dicono a quale necessità emotiva obbediscono? E quell’immagine di se, di persona che ha ricevuto molti bei riconoscimenti, di cosa è la verità? A chi sta cercando di piacere? Tutti quei premi sono la desiderabilità sociale che il nostro uomo ha in testa, ma secondo chi per primo?

Nelle sedute successive, potrebbero emergere delle questioni familiari interessanti. Genitori per esempio molto più sintonizzati sulla prestazione che sull’affetto verso il bambino che è stato, e ora il nostro uomo che ha davanti una donna che si prende cura di lui ascoltandolo nei suoi poblemi come magari si aspettava facesse sua madre, attiva una recita di se che pensa sia per lei seducente come quando ai tempi della scuola era preso in considerazione perché aveva preso qualche bel voto, oppure altre operazioni ancora più sottili che la dinamica di transfert potrebbe aver suggerito, la bugia palese, il successo mal raccontato, possono essere dispositivi messi in atto in maniera non consapevole per fare in modo di non essere apprezzato, per rendersi denigrabile – perché è uno dei pochi stilemi relazionali che il paziente conosce, e perché parte del suo problema è la tendenza a fare in modo che gli altri lo disprezzino.

Trovo utile questo tipo di sguardo anche fuori della stanza. Al di la di circostanze relazionali e temi che esigono un patto di lealtà per cui il mentire intenzionalmente rientra in una delle varie forme di tradimento o di dolo, io sono fieramente ostile alla retorica dell’autenticità, e alla rampogna del personaggio. Mi pare che questo tipo di retoriche – di solito destinate a penalizzare stili relazionali istrionici, e che hanno nel bene e nel male un successo – siano vincolate a delle problematiche che sono almeno altrettanto importanti psicologicamente in chi esprime dei giudizi: perché per esempio assumi che una persona con cui hai un rapporto superficiale sia autentica con te? Sia trasparente? Abbia l’obbligo di mostrarti le sue debolezze? Per quale motivo tendiamo a giudicare autentica una dichiarazione di fragilità, una situazione problematica, una difettualità e non una parata istrionica seduttiva? Cosa ti da per certo che un linguaggio costruito sia non se, più di un linguaggio semplice, con la consapevolezza che tutte le strutture linguistiche sono celebrali, apprese secondarie, manipolabili e costruibili?

Per certi versi trovo che la dicotomia tra verità e menzogna sia una semplificazione che ottunde e rende sopportabili diverse questioni complicate delle persone, questioni che riguardano la propria stima, la propria capacità di essere liberi per dei versi, per cui si sanziona nell’altro la sua libertà di movimento, il suo sapersi celare o anche disegnare, ma per altri, si consola con la sanzione la propria sofferenza a non avere potere. Quello stronzo non mi sta dicendo tutto di se: il problema non è il mio bisogno, il problema è la sua falsità.
La radice autoassolutoria del pettegolezzo.

Naturalmente, di contro, nel nostro mondo relazionale al di la delle retoriche novecentesche, che da Pirandlelo in poi ci hanno fatto prendere coscienza della scivolosità di certi costrutti, il binomio vero  – falso, ha una sua incontrovertibile funzione fondativa del contratto sociale, e della relazione tra soggetti, e fondamentalmente senza sanzione della menzogna non si può costruire nessuna collettività, nessuna diade. Ed è giusto che ci siano contenuti che siano passibili di giudizio e soggetti chiamati a giudicare. Esiste la menzogna ed esiste il tradimento, ed esiste il dolore, come deve esistere la sanzione. Ma nella microfisiologia delle relazioni, in particolar modo quando siamo soggetti di secondo ordine, e non destinatari di primo grado, secondo me rimane sempre utile chiedersi quella persona che ci sta dicendo qualcosa di non corrispondente al reale, per me. A cosa sta corrispondendo? Quali parti vere sta dichiarando? Che cosa rappresenta per lui il destinatario del suo discorso?
Assumere che tutto è sempre vero, e capire come, è una cosa che può riservare utili sorprese – e forse aiuta a ricucire qualche tradimento.

Con i pazienti omosessuali

 

Recentemente mi sono ritrovata a riflettere  – come clinico – sul mio modo di pensare ai pazienti omosessuali. Penso di essere aiutata dal mio vertice di osservazione di partenza, e penso che l’influenza di questo vertice di osservazione vada iscritta nei binari da elaborare su questo come su altri temi nella costruzione del proprio modo di lavorare.
Mia madre era figlia unica, e ha cercato negli amici dei familiari di elezione, delle persone a cui appoggiarsi nella vita in mancanza di parenti e fratelli.  Tra gli zii che mi ha procurato ci sono stati alcuni omosessuali, persone molto simpatiche e brillanti, e in qualche caso con una vita sentimentale burrascosa che era al centro delle nostre preoccupazioni e dibattiti e certo anche divertimento. I miei zii di elezione avevano uno spiccato senso dell’umorismo.

L’omosessuale, per i miei genitori che nella mia adolescenza attraversavano i tremendi anni 80, portava addosso, ipso facto, quel minimo garantito di eccentricità, quella effrazione del codice culturale, ma non penale, che li faceva sentire a loro agio.  I miei genitori avevano una compagine di amici buoni, efficaci, ma spesso psicologicamente sgangherati, perché sgangherati lo erano a loro volta, e la sgangheratezza – i farmaci, i guai finanziari, i divorzi multipli, i riti ossessivo compulsivi fino a certe sintomatologie teatrali , per quanto nei limiti di una fattuale borghesia, erano la loro cuccia. La psicoterapia non era nel panorama possibile di nessuno di questi figli del novecento, presi a schiaffi in vario modo dalla generazione dei padri, quello orfano, quello perseguitato, il terzo menomato e via di seguito, e l’idea di fondo era quella di costruire una barca comune in cui cercare di stare comodi alla bell’e meglio per come si poteva.
Crescendo ho visto due cose: certe gabbie esistenziali farsi più potenti e invincibili fino a una morte coerente, ma anche una libertaria accettazione del come si è, che mi sono portata appresso, e che considero un regalo etico, e particolarmente prezioso per il mio mestiere – un mestiere per cui non bisogna scandalizzarsi mai, non bisogna allearsi mai con normative di costume, dove si deve dare come percorribile qualsiasi opzione. Un mestiere da percorrere col cuore libero.

Pensavo a questa cosa, riflettendo sul mio lavoro con i pazienti omosessuali, constatando da una parte un certo agio, l’omosessualità per me non è un apocalisse, e dall’altra chiedendomi se quell’accettazione genitoriale di un tempo, fosse a sua volta una qualche forma di discriminazione non voluta, per la significanza ricca di conseguenze ambivalenti che aveva nel mio contesto familiare lo statuto di eccentrico.  Tutto sommato però penso, che tra i tanti equipaggiamenti possibili questo è uno dei più utili e flessibili e ora mi chiedo se non sia d’ausilio nel mettere mano a certe domande che per un verso sono scabrose per lo sguardo politico, per un altro sono per me ineludibili per lo sguardo analitico.

Pensavo. E’ corretto nella psicoterapia con un paziente omosessuale, arrivare a un punto e dedicare uno spazio nella terapia che ragioni sulla ratio dell’orientamento sessuale, che lo metta in relazione alle vicissitudini personali della persona stesa sul lettino, o davanti a noi in un colloquio?
La domanda è complicata perché indica un punto insidioso e pericoloso, anche se secondo me quelle insidie e pericoli sono dovute in parte al rischio di allenarsi con codici culturali discriminatori, in parte a una idea puerile, distorta, naif della psicologia analitica o della psicoterapia. Ma anche eludere la domanda, come spesso tra clinici si è portati a fare, anche con un certo successo nella terapia bisogna dire, è un’operazione monca, e a parer mio una perdita di occasioni.

La questione di partenza è che si teme che, a storicizzare la scelta oggettuale nelle vicissitudini familiari e infantili di qualcuno, la si patologizzi, e la si stigmatizzi. Per quale motivo non si storicizza la scelta eterosessuale? Per esempio si dice, e ancora si prosegue dicendo, correlare un orientamento sessuale alle vicissitudini familiari, non vuol dire mettere l’omosessualità in parallelo con altri itinerari patologici? Fare questa cosa alla fine, non vuol dire rendere la prospettiva psicoterapeutica il braccio armato di un fronte culturale omofobico? A quel punto, non si va a finire nelle terapie riparative? Cosa abbiamo lottato a fare, per togliere l’omosessualità dal DSM oramai 36 anni fa?

Io trovo queste domande lecite, e penso che indichino qualcosa di vero. Sono ancora troppi i colleghi che verbatim hanno un atteggiamento davvero libero rispetto alle persone omosessuali, ma che all’atto pratico conservano cascami discriminatori, anche di basso voltaggio, velati e impercettibili. Spesso sono anche sollecitati dall’utenza, pazienti che implicitamente chiedono di essere disconfermati nel loro timore di essere omosessuali, o famiglie che portano un adolescente in terapia perché temono che un orientamento difforme alle aspettative prenda davvero corpo.

Tuttavia se penso ai ferri del nostro mestiere, io non posso fare a meno di sapere che la costruzione e ricostruzione narrativa del proprio passato, il rivedere e ripensare la propria storia, la propria infanzia, sono la grammatica del nostro lavoro di cura, una grammatica che ha una serie di importanti zone di coagulazione, il rapporto con le le persone che si prendono cura di noi, il rapporto che queste persone hanno tra di loro, come noi le viviamo dentro di noi, come le pensiamo col tempo, e che difese mettiamo in campo quando in quei campi relazionali ci hanno dato delle cose che tagliano e che ci fanno male. E perché non può essere iscritta, nella storia della strutturazione di se, in un storia che in qualche modo deve essere sempre orgogliosa, o quanto meno lo deve diventare, perché non ci si può iscrivere farci trovare un posto la genesi dell’orientamento sessuale, o su cosa un certo orientamento si è adattato?

La correlazione alla patologia in verità è una cosa che dipende dallo sguardo culturale ma anche a una certa beata sciocchezza normativa nel pensare alla nostra professione, e a quello che facciamo, a quelli che sono i nostri obbiettivi.
Per la verità infatti non è vero che in un ambito psicodinamico la scelta oggettuale eterosessuale non sia  storicizzata e sia data per scontata. L’edificio psicoanalitico nasce come cronaca ricostruttiva di quella scelta oggettuale.  Le teorie evolutive di Freud, per sorpassabili che fossero, erano questo: la disamina di come emerge una scelta sessuale e relazionale dei bambini sulla scorta della loro esperienza di figli. E per quanto noi clinici di area psicodinamica si lavori cento anni dopo quelle teorie, e le si abbia arricchite e sorpassate con molti altri approcci e soluzioni psicologiche, spesso, almeno io per onestà devo dire, spesso con i miei pazienti eterosessuali ricorro a quella storiografia dell’eterosessualità, funziona, ritorna, fa fare dei progressi alle nostre storie di cura. La grande questione identitaria che ruota intorno all’organizzazione edipica, è una chiave di accesso al funzionamento delle relazioni che difficilmente abbandonerei. Certo non è l’unica e certo oggi, ci sono altri contributi teorici capitali, che è un peccato mortale trascurare (il pensiero mi va alla corrente di idee che muove da Klein e finisce nella psicoanalisi relazionale, passando dalla teoria dell’attaccamento e che mi hanno insegnato infiniti modi di decodificare lo stare in relazione e di riscriverlo e ricostruirlo tanta più infelicità comportava nel paziente che avevo davanti – ma è solo un esempio)  – ma quello che voglio dire qui, è che mi sento disonesta a dire questo pacchetto funziona con tutti i pazienti, ma no con gli omosessuali no, queste cose con gli omosessuali all’improvviso non contano.
Come si fa allora, utilizzando quelle domande che riguardano la storicizzazione delle scelte oggettuali, a non cadere in trappole discriminatorie, pericolose omofobiche?

Ammetto che io non sento particolari difficoltà con i miei pazienti, mentre sento particolari difficoltà nello scriverne e parlarne con i colleghi perché io per prima ho a cuore una battaglia politica libertaria e deontologica,- Il mio pensiero di cura sui pazienti omosessuali è nell’obbiettivo di renderli ex pazienti se non felici, ex pazienti più liberi e più forti nell’esercizio di se. Quindi pazienti in grado di costruire relazioni durature con persone da cui si sentano attratti, pazienti in grado di affidarsi al corpo dell’altro se è arrivato il momento, pazienti che esercitino orgogliosamente la soluzione esistenziale che la loro storia personale ha messo in campo, e la loro storia analitica ha riscritto rinarrato, rispiegato e in qualche caso corretto. Lavorando io analiticamente, faccio entrare in questo lavoro di rinarrazione – di tutti i miei pazienti etero o omo che siano – la storia delle loro scelte oggettuali, e noto che questa operazione ha per i pazienti omosessuali un duplice vantaggio. Da una parte aiuta alla costruzione di un orgoglio di se, di una consapevolezza forte, io sono questo e desidero questo, io so cosa sono,  dall’altra aiuta nella risoluzione di una terribile piattaforma nevrotica di questi pazienti che è l’omofobia interiorizzata.

Limitarsi a far capire quanto si condividono segretamente stereotipi omofobici è di aiuto, ma è un aiuto parziale, i pazienti che introiettano profondamente un lessico svalutante, convinzioni discriminatorie, al punto da limitare la propria libertà personale, non riuscendo a portare avanti nessun coming aut, vivendo situazioni relazionali nascoste, limitanti, e frustranti, allo stesso tempo si vivono in maniera molto nevrotica, i pregiudizi omofobici si saldano con dei loro funzionamenti distorti, autolesionisti, autosvalutanti. La voce di quelle parti della società ostili alla vita dell’omosessuale è spesso e volentieri la voce di un mondo interno castrante, coartante, che nasce da quella stessa famiglia di provenienza dove si maturò la scelta oggettuale. Un lavoro sul proprio romanzo familiare rende, come accade con gli altri pazienti, più forti di fronte ai ricatti emotivi delle parti regressive dell’orizzonte culturale. La strumentazione tradizionalmente analitica rompe la saldatura tra nevrosi privata e discriminazione pubblica, più di qualsiasi sermone politico, per quanto ben intenzionato – perché tra le altre cose, in una regia immaginaria toglie lo scettro del potere emotivo all’altro, e lo restituisce a se stessi.
Sono io, che do il nome alle cose. Sono io che non chiamerò più me stesso – frocio.

Questo genere di operazione riesce comunque avendo ben chiara una prospettiva sofisticata del lavoro, che non combacia più – questo bisogna dirlo – con la guerra di posizione che caratterizzava l’approccio freudiano: la dove c’era l’es ci sarà l’io, con tutta una serie di zelanti cascami neopositivisti per cui il paziente arriva alla terapia affogato in una serie di vicende nevrotiche e di trappole del falso se (che costrutto pericoloso infido  e complicato questo del falso se – ma è un altro post) e poi grazie al processo di rischiaramento della sua realtà psichica dovrebbe diventare borghese ariano estroverso biondo con gli occhi azzurri, cattolico apostolico e romano. Non si ha a che fare con il male da convertire in bene, deliri di grandezza a parte, ma con una microfisiologia delle radici identitarie, che le pulisca, che le rispetti, che le faccia germogliare, con tutte le loro ambivalenti significanze. Con scelte adattive che hanno delle cadute nevrotiche quando si irrigidiscono ma che sono funzionali a una identità e un adattamento quando si mantengono flessibili. In questo senso a volte mi viene da pensare l’organizzazione delle scelte oggettuali, l’orientamento sessuale, un po’ come gli stili di attaccamento, i quali non hanno ipso facto una significanza patologica ma sono assetti con cui cresce la personalità a seconda della propria storia di provenienza, e che testimoniano bene una certa costellazione di comportamenti, di modalità relazionali, di pregi e di difficoltà ( mi chiedo spesso scherzando: quanta buona letteratura e quanto buon teatro dobbiamo all’attaccamento insicuro ansioso?). Nella storia dei nostri pazienti c’è già il loro presente, c’è già la loro identità funzionante, ci sono già le loro risorse, nei loro sogni ci sono già le loro riserve simboliche, le loro chance di scarto, le loro possibilità In questo probabilmente, il contributo della prospettiva junghiana, almeno nella mia pratica clinica è essenziale.

Certo – se sul fronte pratico si risolvono o si portano avanti con agio molte terapie – questo è uno sguardo funzionale a questo momento storico e in questo nostro specifico – rimangono aperte delle questioni. In fondo le omosessualità sono molte, le eterosessualità sono altrettanto, e maggiore libertà circola nelle possibilità comportamentali accettate socialmente, più assistiamo alla liquidità all’evanescenza, con solidi padri di famiglia che a un certo punto piantano tutto e si fidanzano con un ingegnere, e altrettanto sorprendenti militanti omosessuali che un bel giorno trovano una donna sottile e ci fanno un paio di figli – e probabilmente andiamo verso la genesi di nuove configurazioni familiari, che diverranno minoranze sempre più nutrite e che racconteranno sempre più di nuove infanzie, nuove strutturazioni di se, nuove declinazioni dell’edipo – che ancora una volta ci faranno rivedere le premesse teoriche, e fare i conti con le conseguente etiche e deontologiche dell’invecchiamento dei nostri strumenti. Staremo a vedere – intanto, navigando a vista – cerchiamo di fare il meglio.