Sulla PAS una prospettiva alternativa e molto allargata

In conseguenza del DDL Dillon, nel dibattito pubblico si è tornato a parlare della PAS, la sindrome di alienazione parentale proposta da Gardner. Un argomento che mette spesso i colleghi in una situazione imbarazzante. Capita infatti regolarmente, di cadere in questa successione di osservazioni: la prima è che il fenomeno esiste, e lo si osserva con relativa regolarità, nei contesti della vita e soprattutto del nostro lavoro, la seconda è che, riconosciuta l’esistenza del fenomeno, quando andiamo a vedere la descrizione proposta da Gardner, unita all’insieme dei sintomi che sarebbero considerati rilevanti per effettuare la diagnosi, ci rendiamo conto che quel costrutto così come è, non sta né in cielo né in terra, i sintomi proposti nel clouster non sono in realtà considerabili come indici di una psicopatologia ma tuttalpiù di un comportamento adattivo, e ci appaiono stilati con una presunzione di malafede verso il minore che non è compatibile con la deontologia professionale.  Anzi, viene persino lecito chiedersi se il comportamento in oggetto non sia una stato tipico di un soggetto ricorrente in certe circostanze, ma nient’affatto qualcosa ascrivibile al campo delle diagnosi e delle psicopatologie, le quali si connotano per una assimilabilità a delle malattie, a delle disfunzioni dell’organismo. E possiamo dire questo di un bambino, che in accordo con un genitore, non vuole vederne un altro? Possiamo considerare questo comportamento specifico, paragonabile a stati per cui l’esame di realtà è compromesso (le psicosi) o per cui un grave senso di malessere impedisce le attività quotidiane, inchioda a letto e non fa fare niente (le depressioni?). La sensazione dei clinici, o almeno la mia è che si sia inquadrato qualcosa che danneggia i sistemi familiari e incrementa le singole psicopatologie, ma lo si faccia male, e si insista per iscriverlo in un campo diagnostico non a scopo di cura (d’altra parte anche questo deve far riflettere: il DSM nasce per la psichiatria e la cura farmacologica. E’ pensabile una cura farmacologica per la pas?) ma a scopo politico, e di una politica che è essa stessa il sintomo del malessere di chi la promuove. La Pas -così come è pensata: ossia un’accusa di malafede verso donne e minori – sembrerebbe piuttosto il progetto di una mentalità tarata sull’ostilità e il conflitto.
Qui i sintomi secondo Gardner.

  1. Campagna di denigrazione (nei confronti del genitore)
  2. Razionalizzazioni deboli, superficiali, assurde
  3. Mancanza di ambivalenza
  4. Fenomeno del pensatore indipendente
  5. Mancanza di sostegno al genitore alienato
  6. Mancanza di sensi di colpa
  7. Scenari presi in prestito
  8. Estensione dell’ostilità (famiglia allargata)
  9. Difficoltà di transizione durante le visite
  10. Comportamento durante le visita
  11. Legame con il genitore alienante (precedente)
  12. Legame con il genitore alienato

 

D’altra parte però si ha la sensazione che il fenomeno esista, anche se forse non è corretto inquadrarlo come diagnosi. La ricerca psicologica, le grandi teorie sono piene di costrutti e osservazioni che aiutano a circoscrivere e identificare organizzazioni psicologiche, strategie del comportamento, sistemi complessi di interazione, a carico dei singoli come delle famiglie come dei gruppi sociali, l’individuazione di questi costrutti oscilla tra la neutralità e la sfumatura verso dei giudizi di valore, qualche volta per l’orientamento ideologico di chi formula le osservazioni cliniche, ma spesso anche perché si constata come quel tipo di comportamento identificato spesso vada a preludere a una serie di altri che sono francamente problematici e forieri di sofferenza. Di altri costrutti che in psicologia si individuano si constata invece che la loro presenza rigida e costante è correlabile a una diagnosi psichiatrica, ma possono essere funzionali a stati transitori, essere organizzazioni protettive per la vita dei soggetti avere una funzione omeostatica.

 

Piuttosto, io credo che sia più utile considerare la Pas come un funzionamento dei sistemi familiari irrigiditi.
Se osserviamo le famiglie in maniera laica, al di fuori cioè delle prospettive politiche di un conflitto nelle visioni di genere e di coppia, noi constatiamo che ci sono famiglie in cui a volte – a ben vedere anche prima di una separazione materiale della coppia genitoriale – ci sono alleanze forti tra un genitore e uno dei figli mentre l’altro è completamente estromesso dalla relazione tra loro, oppure ci sono sistemi familiari in cui un membro è molto aggressivo con un altro e la prole che assiste tende a essere solidale con il membro palesemente aggredito, terzi in cui invece un soggetto periferico al contesto costruisce reti fuori dalla relazione con il nucleo familiare per poi essere definitivamente espulso. Di tutte queste cose scrive da più di settant’ la psicologia familiare e sistemico relazionale, considerata colpevolmente troppo poco nel dibattito giuridico su questi temi, e considerata da sempre troppo poco chic negli ambienti colti, o che si presumono tali pur ignorando gli sviluppi dell’ultimo secolo di ricerca clinica. Se fossero interpellati questi colleghi, essi spiegherebbero come la PAS è il nome sbagliato di una evoluzione specifica della frattura dei sistemi familiari, una specifica forma di triangolazione, ossia, termine con cui in psicologia sistemica relazionale si intende l’uso di un terzo per spendere un conflitto e scaricarlo su di lui, includendocelo dentro. E se si tenessero in conto i convegni e i confronti in cui si sono spesi gli psicoterapeuti di formazione analitica, si scorprirebbero i numerosi intrecci profondi, che traggono linfa dalle storie originarie di tutti i membri implicati. Perché quando questo tipo di triangolazioni estreme avvengono, non è solo il bambino a mettere in atto un assetto psicologico particolare, ma tutti e tre, e non certo dal momento del divorzio.
Non molto nel dettaglio, possiamo per esempio dire qui.
Un figlio può sentire un bisogno fortissimo di essere vicino alla madre per molti motivi lontani e profondi, per esempio perché è un modo di uscire vittorioso dalla concorrenza edipica col padre, specie se la separazione è avvenuta quando era piccolo, e non ha avuto tempo di digerire la presenza di un altro uomo nella vita della madre. Oppure può sentire il bisogno, avendo visto sua madre depressa e infelice di proteggerla, questo anche perché è un suo modo personale di tenere a bada sentimenti di abbandono depressione e infelicità che quella madre depressa e infelice nella sua purtroppo incontrollabile infelicità non ha potuto intercettare e lenire. Non è raro che figli di donne con diagnosi importanti siano estremamente protettivi verso di loro. Può avere anche una sorta di ritorno identitario, per esempio nella fase preadolescenziale e adolescenziale, sentirsi riconosciuto come maschio, come uomo, come adulto, perché degno rivale del padre. Ugualmente, una bambina ha altrettanti motivi per proteggere la madre che vive come attaccata, per esempio per via di una identificazione profonda il cui scioglimento non è affatto aiutato dalla lontananza del padre, per cui meno lo vedrà più sentirà che le sofferenze della madre sono le sue: l’adolescenza delle femmine dopo tutto è questo, scoprire di essere donne diverse dalla mamma. Sia figli che figlie poi possono arrivare all’ostilità con una figura genitoriale come capolinea di una mancanza di relazione che è cominciata molto prima della rottura del sistema familiare.

Allo stesso tempo, quello che i sistemico relazionali chiamano triangolazione, potrebbe essere interpretato dagli psicoterapeuti di scuola analitica come il meccanismo psicologico per cui alcuni sentimenti emozioni contenuti mentali vengono subappaltati nei figli, spostati su di loro. La cosiddetta madre alienante cioè potrebbe attuare un’identificazione proiettiva sul figlio – facendogli vivere cose che non sempre lei ammette alla coscienza – potrebbe includerlo in un meccanismo di scissione – figlio mio noi siamo i buoni le vittime, le persone gentili, mentre il padre che ci ha lasciato il male il cattivo la mala fede.   Azioni psichiche queste che possono anche essere più inconsce che consce, e che rappresentano una partita della psicopatologia familiare che comincia molto molto prima. A essere anzi più precisi e disincantati, si potrebbe anche dire che quel modo di condurre le partite relazionali era scritto nelle storie dei soggetti che compongono ora la coppia genitoriale disfunzionale, ben prima che quella coppia si formasse. Ognuno di quei membri ha infatti un padre e una madre, un romanzo familiare, problemi e soluzioni ereditati da quella prima vicenda che ora ritorneranno nel proseguire la loro vita. Ognuno di loro ha scelto il partner adatto a rafforzare la propria patologia più che a scioglierla. E si è andato costruendo un sistema malato e sofferente.

Un’area problematica pregressa naturalmente potrebbe riguardare anche i padri, e io trovo che – nonostante molte situazioni giustifichino certamente un senso di dolore e rabbia – quando arrivano quei toni fortemente svalutanti, carichi di odio verso la ex partner che si abbinano alla disinvoltura con cui si è disposti a utilizzare una diagnosi psichiatrica ( che ancora oggi ha un potere sociale screditante) nella lotta per il potere sui figli – beh sia piuttosto evidente. Anche il padre “alienato” si potrebbe rivelare cioè una persona che da sempre vive con grandi difficoltà, antiche sofferenze mai risolte e difese rigide e disfunzionali: sono le stesse della partner, io sono buono vittima e frainteso, lei è quella cattiva persecutoria controllante, io sono quello sempre in buona fede, lei quella sempre in cattiva fede. Anche se magari indubbiamente possa esserci il contributo esasperante di una situazione che peggiora nel tempo. Ma quanto più sono rigidi questi meccanismi difensivi, tanto più si ha la sensazione che siano entrati in scena molto prima della separazione, e ora proprio quel modo di vedere la situazione impedisce di considerare dove si ha contribuito a creare lo stallo attuale e le cause che portano i figli a svolgere quel ruolo e a scegliere la comunicazione ostile verso il genitore con cui non vivono.

E si può magari non a torto considerare come ci siano dei rinforzi sociologici e culturali – a dare cemento alla posizione aggressiva del padre, un certo maschilismo per un verso, ma anche il patire gli effetti di quello stesso maschilismo per cui oggi non si sentono giuridicamente incoraggiati a esercitare un ruolo affettivo, e forse in qualche singola vicenda si potrà vedere un certo femminismo come ostacolo al miglioramento della vita della famiglia e della coppia – ma io non trovo davvero utile e insistere sull’aspetto politico della vicenda, perché vederla in questo modo, maschilismo cioè contro femminismo, è un altro viatico per incrementare quella conflittualità che fa male a tutti.

Vorrei fare piuttosto una riflessione sulla responsabilità che hanno i periti di parte e soprattutto gli avvocati di parte quando si trovino a imbattersi in separazioni giudiziarie in cui sembra esserci in mezzo questo fenomeno, che chiameremo PAS – sindrome di alienazione parentale, anche se come è evidente qui è intesa in tutt’altro modo – ossia come un irrigidimento patogeno del sistema familiare anziché come una presunta diagnosi psichiatrica a carico del minore e della madre.

Gli avvocati di parte vivono un’occasione professionale terribilmente delicata per il ruolo emotivo a cui sono chiamati. In questo genere di occasioni sono chiamati a lavorare in una situazione di conflitto, e viene richiesto loro esplicitamente ed emotivamente di assumere una posizione parziale – anche la dicitura lo sottolinea: sono avvocati di parte. Sentono di lavorare bene, spesso in buona fede, con una profonda sintonizzazione emotiva con i loro assistiti, a volte quella sintonizzazione emotiva risuona forte anche di quelle cornici ideologiche di cui ho parlato nel capoverso precedente. La donna che vuole allontanare il bambino si riterrà sostenuta da un avvocato femminista, l’uomo da uno maschilista, entrambi da qualcuno che si accorderà con loro nell’usare una diagnosi solo per il partner da cui ci si separa e per la prole. In questo modo si cade in una cattiva infinità: perché in realtà ci sarebbero tanti vie, tante parti psichiche dell’assistito con cui sintonizzarsi ma tante volte l’avvocato ( e in qualche sciagurato caso, il giudice) sceglie quella più evidente, più raggiungibile nell’immediato, più facile per lui emotivamente e professionalmente, a discapito alla fine di quello sistema familiare per il quale è chiamato a trovare una soluzione. E non bisogna essere troppo severi con questi periti di parte per tantissimi motivi. Il primo è perché davvero da vicino si vedono vicende estremamente gravi e dolorose con cui è estremamente difficile non identificarsi – anche gli avvocati sono mogli, mariti, padri, madri, traditori, traditi- per non parlare della richiesta esplicita dell’assistito che paga per essere sostenuto in una sorta di tifoseria. Il secondo è anche dovuto al terribile disincanto che i familiaristi devono condividere con altri professionisti che lavorano con le famiglie sul fatto che davvero, certi sistemi familiari sono così patologici da così lungo tempo, raccogliendo patologie a loro volta così antiche, che un linea attenta e sorvegliata spesso si scontra contro il muro di gomma della parte opposta, per cui alla fine capisco che ci senta sollecitati a una estrema durezza. Davvero, sono buoni tutti a essere comprensivi senza confrontarsi con certe controparti che fan venire il sangue alle mani.

Tuttavia dobbiamo cominciarci a chiedere quanta responsabilità abbiano le modalità dei contesti che si relazionano a una famiglia rotta, nell’aumentare in modo ineludibile la rottura di quella famiglia, e di impedirne la sua trasformazione in una coppia di nuclei separati e uniti da un terzo che deve essere una genitorialità rimasta ancora viva ed efficace come coppia. Utilizzare la Pas per come è stata formulata da Gardner in sede processuale, con tutte le conseguenze che può avere – come abbiamo visto in alcuni tristi fatti di cronaca – o come il DDl Pillon vuol dire improntare un modo di intervenire che è il proseguo della storica conflittualità della coppia, esasperandola e cronicizzandola. E’ una sorta di conferma dei meccanismi patologici che hanno portato a quella separazione e anche a quegli effetti ossia, l’allontanamento di un figlio dal proprio padre. Il padre potrà pur ottenere una vittoria materiale sulla carta, ma il prezzo potrebbe essere altissimo, inemendabile, perché sarà proprio il figlio a far pagare il fatto di essere utilizzato come capro espiatorio e non essere preso per niente sul serio, e se questa protesta dovesse essere ignorata, e il minore costretto a una frequentazione che non ha scelto emotivamente, fino a portarlo a una compiacenza e un’accettazione che non rispondono a un’elaborazione reale, beh, altri problemi psichiatrici alle porte potrebbero arrivare, e i rimproveri verso la madre cattiva e cattivissima un alibi di scarso successo.
Forse allora sarebbe opportuno cominciare a considerare questo fenomeno, nella sua doppia peculiarità: come ultimo irrigidimento di disfunzioni problematiche di lunga data, che si organizzano con le emozioni e i modi di percepire la realtà, per cui non possono essere cancellate con un provvedimento veloce, che imponga cambiamenti subitanei, e come un fenomeno che riguarda un intero nucleo familiare in tutte le sue parti. Questa prospettiva permetterebbe a tutti i professionisti coinvolti (e io penso che in molti in realtà già lo facciano) di lavorare in questi difficili frangenti in un modo più sarealmente utile per tutti.

Sul ddl Pillon

Comincia ora la discussione del ddl Pillon, un disegno di legge teso a riformulare le norme della separazione tra coniugi in particolare in presenza di figli. Il disegno di legge prevede alcuni cambiamenti salienti che qui vorrei sintetizzare

– obbligo della mediazione familiare, in presenza degli avvocati di parte per avviare la separazione
– abolizione dell’assegno di mantenimento, con divisione delle spese fatte in base al riscontro delle prove di pagamento
– divisione rigorosa a metà del tempo passato con i figli.
– Un indennizzo per il genitore che lascia all’altro la casa di proprietà

 

E nel dettaglio si riscontra:
– cambiamento dell’accordo solo previo accordo della coppia
– nessuna osservazione aggiuntiva o casistica particolare quando i figli in questione dovessero essere molto piccoli, per esempio sotto i tre anni
– nessuna rilevanza rispetto i desideri espressi dai minori
– nessuna possibilità di ricorrere al tribunale di fronte all’inadempienza di un genitore.

Sulla carta, può giustamente sembrare a molti, un notevole passo avanti giuridico. L’attuale diritto di famiglia protegge molto le mogli e le madri, e spesso questa protezione in sede di tribunale diventa l’arma con cui ex partner vengono messi in grave difficoltà economica, in primo luogo, ma anche spesso resi protagonisti di vicende familiari in cui sono loro malgrado, allontanati dai figli. Oggi davvero molti padri, hanno un sincero desiderio di passare più tempo con i propri figli, e un sincero desiderio di sorvegliarne la crescita e sono davvero tante le vicende amare per cui ci sono uomini allontanati dalla famiglia perché le ex compagne fanno in modo che i figli non vogliano incontrarli.   Inoltre, quando le associazioni di padri separati sottolineano l’enorme onere economico a cui vanno incontro, denunciano il vero specie se si pensa alla questione dell’assegnazione della casa, che viene stabilita in base a quale genitore vivrà con il figlio, per cui può accadere che un padre, titolare di una casa di proprietà ne perda completamente la titolarità e si trovi a dover pagare un affitto e anche un assegno con degli alimenti. Per molte persone è davvero oneroso e complicato. Non è tema di questo post, ma una correzione della legge attualmente in vigore che allevi la situazione del genitore a cui non è assegnata la casa – stabilendo un indennizzo, risarcendolo con delle esenzioni fiscali? Sono ipotesi – potrebbe essere una cosa intelligente, così come aiutare questi nuovi padri ad essere tutelati nel loro voler essere più presenti nella vita dei figli – per esempio alzando l’asticella del minimo di cura necessario. Da psicologa, per me per esempio: l’attuale giorno a settimana più i due fine settimana al mese sono davvero troppo pochi. Almeno un altro giorno infrasettimanale, sarebbe una cosa auspicabile per il benessere dei bambini. La famiglia cambia, i padri cambiano, ed è giusto che cambi la legge che ne regolamenta la vita quotidiana. MA sono blande ipotesi – ci sarebbe molto da fermarsi e pensare.

Tuttavia, questo ddl rappresenta la risposta mal strutturata e peggiorativa di una domanda anche lecita, e lascia basiti, al di la del banale conflitto di interessi, considerare il fatto che a proporlo è un professionista – il presidente di un’associazione di mediazione familiare – che dovrebbe avere (si presuppone, evidentemente a torto) qualche rudimento di esperienza materiale in fatto di separazioni. Lascia basiti perché per gli addetti ai lavori, che siano mediatori, che siano avvocati, che siano psicologi, constatano che per come è scritto questo ddl 1. Incrementa la conflittualità genitoriale, dilatandola e procurando alla coppia una moltiplicazione di occasioni di lite 2.   Lede gravemente, davvero gravemente, gli interessi dei bambini. 3. E’ particolarmente delirante nei casi in cui ci sia violenza di genere, per la diffidenza che mostra verso le denunce in questo ambito, e i poveri bambini siano vittime di violenza reale o assistita.
Vediamo i singoli punti.

La conflittualità genitoriale è molto aumentata dalla perdita dell’assegno di mantenimento. L’assegno di mantenimento, è magari un accordo difficile da digerire, ma almeno impone alle parti in causa di risolvere la questione una volta per tutte, e poi di riuscire in qualche modo a organizzarsi nelle proprie vite separate. L’idea che le spese debbano essere continuamente riconteggiate e divise al millimetro, mi pare che ridia ai membri della coppia continue occasioni di dissenso, piattaforme simboliche su cui di volta in volta rimettere in campo disagi emotivi. Perché, come capita di constatare nelle liti in tema di eredità, le persone per i soldi si dilaniano, ma non per il luogo comune dell’avidità e che tutti sono brutti e cattivi, ma perché sui soldi simbolicamente si mette in campo una proiezione affettiva, sono i sostituti di primo grado da un punto di vista simbolico dell’amore, della relazione, che piaccia o meno. Sono la moneta vicaria dell’essere con. Ed è semplicemente delirante mettere dei genitori nella posizione di stare a rinegoziare la fine del loro affetto e il loro voler bene ai figli a ogni scontrino fiscale.
Ugualmente, anche partire dalla teoria del figlio diviso a metà per tempi e spazi, ripropone continue situazioni di conflitto, specie considerando l’attuale organizzazione economica e sociale delle coppie. Davvero all’atto pratico i padri italiani riusciranno a reggere tutti, questi ritmi? E quando non riuscissero e delegassero a oltranza o chiedessero al partner di riprendersi la prole è sicuro che questo non creerebbe disagio? E ancora liti?
Questo ddl riguarda gli uomini e le donne, in un momento di vita tra i peggiori e i più dolorosi, un momento di vita che li rende ammalati: ossia in difficoltà, conflittuali, intolleranti, spesso magari non sempre, ma spesso, al peggio di se. La separazione è non di rado una sorta di adolescenza cattiva, dove tutti protestano tutti piangono tutti si trovano in un cambiamento che non avrebbero voluto. Pensato in questo modo, le parti sono incoraggiate a rimanere in questo stato di aggressione permanente, con mille quotidiane occasioni di risentimento. E’ una separazione cioè, che non sembra pensata da un mediatore familiare. Da uno che deve aiutare le persone a separarsi e a negoziare. Nella realtà materiale della vita quotidiana.

  1. La disattenzione verso i minori è scandalosa e per me criminale. E mi pare che si esprima su più livelli.
    Il primo è il mancato assegno per la parte, di solito la madre, che ha i figli a carico e che non dovesse lavorare. Io capisco che i temi delle donne non sono prioritari per gli estensori di questo decreto, ma se siamo in un paese con una bassa occupazione femminile, e che ostacola in vari modi il lavoro delle madri, come si può sperare che la madre separata lavori? La verità è che siccome Pillon è un neocatecumenale reazionario, la posizione mentale è quella di dire: donna hai voluto la bicicletta? (del’emancipazione? Della separazione) Ora pedala, anche se magari la bicicletta, nell’eventuale contingenza, ossia la separazione l’ha voluta il partner, oppure è l’esito dell’aggressione alla coppia da parte del partner per esempio – per un tradimento. In ogni caso, una madre che non ha mai lavorato e che ora dovesse trovare il modo di lavorare – a cinquant’anni? Sessanta? Si troverebbe in una grave difficoltà materiale e quindi psicologica, e questa difficoltà psicologica, potrebbe ricadere piuttosto o gravemente sui bambini. E naturalmente sull’ex partner medesimo.  Un’evenienza questa, in un paese con un bassissimo tasso di occupazione femminile, tutt’altro che scontata.
    Il secondo per me riguarda l’assoluta indifferenza alla qualità della vita dei figli. L’importanza che vivano in un contesto di riferimento, continuativo e rassicurante. Io ho serie perplessità che cambiar casa ogni dieci giorni specie quando per questioni di forza maggiore la casa del partner è molto lontana da quella dove il figlio è cresciuto e ha costruito la sua quotidianità sia una cosa buona per i bambini. Può forse andar bene se le case degli ex coniugi sono molto vicine, ma soprattutto nelle grandi città mi pare raro che succeda.
    Il terzo motivo, è il mancato riferimento all’età del bambino. Se l’idea che un minore sia affidato fifty fifty in generale mi suscita qualche perplessità ma non faccio fatica a escludere coppie armoniose che riescano a risolvere la cosa per il meglio, se penso al minore di tre anni, un bambino di pochi mesi, un bambino di un anno magari ancora in allattamento, tolto alla madre, mi sale proprio una preoccupazione indigeribile, mi pare che si faccia un torto al minore gravissimo. Un bambino di meno di un anno separato dalla madre ogni due settimane????
    Non credo che ci sia molto da dire.

 

Il quarto motivo, riguarda sia la sottesa idea dell’alienazione parentale e la fantasiosa pretesa di risolverla con un atto giuridico sbrigativo, sia il caso terribilmente grave e terribilmente frequente delle separazioni che seguono a violenza sui minori, e violenza verso la madre a cui si trova ad assistere il minore. Infatti l’idea è quella di dividere il tempo dei genitori a prescindere dai desiderata dei figli contesi, perché si parte dall’assunto che se un figlio non vuole vedere uno dei due partner è sempre comunque manipolato. Questa cosa è già di per se un’aggressione, un dire al futuro cittadino che è un cretino, uno che si fa maneggiare, in caso di figli adolescenti si tratta di un parere secondo me gravemente collusivo con certe patologie che emergono in quell’età. Un ragazzino di sedici anni dice risolutamente di voler stare con la madre, e lo Stato gli dice che lui non conta niente, che non ha un parere da prendere in considerazione, che crede di avere un’identità ma si sbaglia. Scusate, sono i semi per un comportamento criminale serviti sul piatto d’argento. Se il minore ha una qualche psicopatologia pregressa, una difficoltà scolastica, una bocciatura alle spalle, un problema di immissione nel mondo degli adulti, obbligato contro la sua volontà ad andare dal padre per gruppi di quindici giorni, è proprio pronto per la deriva sociale.
Questo perché se consideriamo davvero, per esempio tutte le ricerche che sono state fatte da psicologi rigorosi, e attenti, dovremmo sapere che la PAS come costrutto esiste pure, ma non è una manipolazione che si fonda su una mera suggestione r giochi di potere, ma che si basa sull’orchestra di meccanismi difensivi che si intrecciano a emozioni reali, necessità psichiche profonde, riflessioni e osservazioni che il minore fa sul piano di realtà, e non possono essere criminalmente cancellate con un colpo di spugna. Se un figlio desidera proteggere la madre dal dolore che è convinto le abbia inferto il padre, avendola per esempio vista piangere numerose volte, sapendo nel frattempo che il padre ha un’altra relazione, non sarà di certo la la dichiarazione astratta di un tribunale che la madre ha una depressione cronica ( magari pure causa reale del suo malessere)   a fargli cambiare idea e a farlo star bene con suo padre. Il bisogno di farsi difensore di sua madre, ha radici profonde, nell’organizzazione edipica che una separazione conflittuale ha impedito di superare, per quel figlio proteggere la madre è di vitale importanza. E’ solo uno degli esempi, naturalmente, ma non è che se il tribunale dice, dal nulla dopo una vita di esperienze ed eventi guarda sei manipolato, che il minore dice ok avete ragione ora sto volentieri con papà. Il minore, per i mille romanzi familiari che qui non possiamo sintetizzare, ha molteplici motivi possibili per ritenere vitale per se, gravemente vitale proteggere la madre, o comunque il genitore alienante. E se si crede di farla facile, beh noi psicologi, noi che lavoriamo coi servizi sociali, le case famiglia, insomma, noi ci ingrassiamo, il lavoro aumenta, l’infelicità si moltiplica.

Naturalmente ancora più criminale è la casistica, malamente contemplata dal ddl, delle famiglie abusanti. Il ddl prevede la casistica delle famiglie abusanti, ma in una distorsione ideologica parte dall’assunto che le denunce di abuso siano spesso false, e quindi prima che l’eventuale parte lesa sia riconosciuta come tale dovrà affrontare un complesso iter procedurale in termini di ANNI, nel frattempo però l’affido seguirebbe le linee indicate dal disegno.
Per quanto io sia tra i colleghi che più insistono nella necessità di far avere contatti tra figli abusati, vittime di violenza assistita e genitori abusanti, perché purtroppo quello è il genitore, bisogna che ci si fa i conti e in qualche modo lo si iscriva nella propria storia, il massimo che si possa sperare in certe vicende terribili e che il padre sia curato serratamente, la coppia familiare pure, che ci sia volontà da tutte le parti in causa, e che i minori siano guidati in una serie di incontri protetti, circoscritti nello spazio e nel tempo e sorvegliati (il tutto però bisogna dire: nella consapevolezza della cronicità grave, e della difficoltà di intervento risolutivo con questo campione di pazienti e assistiti) E IL TUTTO PERO’ SUBITO, NON DOPO GLI ANNI VITALI DELLA CRESCITA ESPONENDO IL MINORE A ULTERIORI ABUSI. Ritenere con questa allucinante e irresponsabile disinvoltura che un bambino a cui un soggetto psichiatrico ha spento le sigarette addosso, che ha frustato con la cinghia, che abbia rotto il braccio di sua madre davanti a lui, che le abbia ficcato un coltello nelle narici (perché cari di queste cose si parla, è bene che si sappia) e via discorrendo ed eludendo i casi ben più gravi e frequenti , debba andare a casa sua per due settimane al mese, perché le cicatrici se le deve essere inventate causa pas, veramente fa rabbrividire, fa cascare le braccia. Il pensiero che poi questo disgraziato, non volendoci andare, debba andare in una casa famiglia – siamo proprio nel campo della follia. Ma è più corretto dire dell’incompetenza per quel che concerne la psichiatria delle coppie violente.

In conclusione io credo che questa proposta di legge, scritta in maniera abborracciata, e frettolosa, al di la della matrice ideologica che la connota, sia tarata su un umano ideale: forse sui film degli anni cinquanta? Forse sui cartoni animati? Forse sulle favole della buona notte? Perché presuppone un idilliaco e vissero tutti felici e contenti in un momento della vita in cui l’umano cade e spesso rischia di rimanere nel suo funzionamento peggiore e più difficoltoso, quando cioè non è per niente conciliante e idilliaco.  Suppone che certi cambiamenti storici e culturali che ci sono stati siano l’esito di un’ondata ideologica e non lo specchio di un cambiamento nell’esistenza materiale di tutti uomini e donne. Non tiene per niente conto delle condizioni in cui vivono le persone, delle aggressioni del quotidiano, della psicologia delle persone e delle persone durante la separazione, dei diritti dei bambini. Occulta con atarassica serenità i problemi spesso insormontabili che si creano in caso di patologie psichiatriche conclamate e marginalità sociale. E’ una proposta di legge scellerata che dovrebbe essere rifiutata da tutti, uomini, donne, destra, sinistra, cinque stelle o meno. Di cui  forse cinicamente, beneficeremmo solo  noi professionisti grazie alla moltiplicazione di perizie, percorsi obbligati mediazioni familiari fatte (secondo il decreto di fronte alla presenza di familiari, questo particolare è un ultima prova dell’incompetenza degli estensori: me li vedo i genitori a parlare del conflitto davanti agli avvocati di parte avversa. Tanta sincerità proprio) .

Tanto dolore, problemi che non si risolvono, disperazione,  e dunque tanti professionisti chiamati in causa e remunerati. Una moltiplicazione di perizie di parte, di mediazioni familiari, di interventi riparatori, per una legge che non è fatta per gli uomini, ma per gli angeli.  Non mi pare che sia giusto verso le famiglie e gli elettori tradire così tanto i bisogni che hanno manifestato.

Diario

 

(Quando vengo a Venezia amo tornare negli stessi posti, e anzi, cerco sempre dei nuovi stessi posti, da aggiungere ai vecchi. Gli stessi posti, mi danno l’illusione di un’intimità solitamente sfuggente, fanno il lavoro che fanno con le amanti quando i mariti delle altre ce le portano a cena. Gli stessi posti creano una confidenza quasi apollinea, una fede al dito pure se solo per gioco. Gli stessi posti dicono, come il mio bar del mattino qui a Venezia (san Luca), per la signora un caffè molto schiumato! Oppure, come il libraio in terà degli assassini, niente Remo Bodei signora mi spiace. (ma l’hanno ristampato)

Stavo a caccia allora di un nuovo stesso posto, e avevo adocchiato uno spacciatore di gonne di lusso dalle parti di campo Manin, ero entrata piena di buoni propositi, ma anche a Venezia ci sono queste sciure che combattono la morte con la diffidenza, la finitezza con la supponenza, io scodinzolavo piena di buona volontà (e incoscienza) intorno a una sottana di crema, turchese e amaranto, la sciura mi guardava però con secchezza, mi accoglieva con troppo ritardo – forse avevo troppo rossetto, forse troppa Capitale, forse troppi chili chi sa – e me ne andavo allora mesta.
Ci son pure gli stessi posti dove non andare.

Mi aveva molto scoraggiato, questo stesso posto che avevo più volte puntato. Ho uno stesso posto di anelli (teatro la Fenice) uno stesso posto di vino alla mescita (santi apostoli) ho fatto persino pace con il mio stesso posto preferito di alcolici e cicchetti il Bottegon, che mi pareva non si volesse mai comportare da stesso posto, invece ora se incontro qualcuno che lavora al bottegon per Venezia quello persino mi saluta (con un gesto del mento, la faccia inamovibile, non si può chiedere troppo) e questo per me è una gran cosa,  per esempio quando vado in un mio stesso campo molto amato, pieno di bambini sempre allegri, e ragazzini che stanno per innamorarsi (campo santa Margherita.  E vecchi pure, vecchi che si innamorano di nuovo e stanno a bersi aperitivi seduti sulla piazza, la fettina d’arancia e la signora di lino accanto  – da spiare con pudore).
Avevo deciso quindi di abdicare. Non sono dell’umore opportuno per nuove delusioni.

Ma sapete che è successo oggi?
Ero tornata a Murano, per una ricerca di allegria che in questi giorni seguo per contrasto, la questione di tutte quelle botteghe di vetro, gli alberi nel sole, ed ero tornata prima a mangiare nello stesso posto dell’anno scorso – ma senza precisa intenzione, voglio dire né per colonialismo né per seduzione – un ritorno quasi casuale dovuto alla contingenza. Un ristorante che ha una vista bellissima sulla laguna, e gestito da ragazzini, e questi ragazzini mi hanno riconosciuta a me e ai miei, e ci hanno coccolato (un primo nuovo stesso posto!)  e poi siamo andati li accanto, dove ci sono gli ultimi signori della laguna che fanno bicchieri sontuosi, stanno nascosti dai turisti, quindi noi ci siamo messi li, io che ho una famiglia eh, dei bambini, proprio come l’anno scorso, a spiarli a lungo lavorare, a sentire le storie del vetro, del laboratorio, di Marta Marzotto che ordinò dei bicchieri sottili e altissimi e poi morì.
Come state? Ha detto il magico artigiano, quando siamo arrivati.
Due stessi posti in una sola giornata, quasi come quando l’amante riesce a passare la vigilia con l’amato)

 

(qui )

(morire, volevo dirti, morire in generale non si fa)

Il mio gatto stava attaccato alla vita con solo ormai due corde lise, che gli passavano dalle zampe, quelle davanti, mentre il resto della sua bellezza di gatto era diventata inerte e pure dolorosa.
Il tempo s’è mangiato il mio gatto, io credo almeno la sua parte materiale, il tempo fatto di cose che si toccano e cambiano strusciando l’una con l’altra, trasformandosi, distruggendosi.
Per esempio il pelo del mio gatto, ora che era attaccato a queste due esili corde, era diventato diradato e opaco, perché dei tanti tipi di tempo che se lo potevano mangiare, il più vorace è stato quello in cui abbiamo visto insieme dei film alla televisione, io e il mio gatto.

Pure le guance gli erano diventate asciutte e smunte, gli zigomi pronunciati di un povero del dopoguerra, il muso di un gatto di sabbia e di rovine, quando a dire il vero, aveva avuto sempre guance piene e gradasse di gatto sovrano, guance di gatto omaggiato e viziato, guance quasi boriose aveva il mio gatto, e queste guance gliele deve aver mangiato quel tipo di tempo, che passa per i baci sulla testa.

(Era stato un gatto metodico, pigro, ieratico e paziente, portato per giochi da tavolo più che per l’atletica, empatico e gentile nei momenti di tristezza, quando avevo lo studio in casa aveva sostenuto dei pazienti, qualcuno lo ricorderà con affetto. Questo per dire, che non è stato il tempo dell’agone e della virile caccia, a fare del mio gatto un gatto magro, sottile e ed evanescente. Disprezzava queste sciocche occupazioni. Lo ha consumato invece il tempo delle discussioni di clinica e filosofia. E forse pure quel guardarsi negli occhi sfidante e agonistico – facciamo a chi ride prima.)

E certo è stato un tempo cattivo e iniquo, vorrei dire non quello passato sulle mie spalle o tra i miei piedi, quello che faceva piangere il mio gatto di dolori al ventre, per quanto fosse un gatto vecchio e stanco. Quello è stato il tempo cattivo della malattia incurabile, per la quale mio gatto amato, abbiamo fatto quel che si poteva, punture e pasticche, e gite dal dottore e cibi selezionati. Siamo stati felici, e per un po’ abbiamo pure pareggiato.
Ma due corde sole sono troppe per tirare una vita, non si può fare e dunque gatto mio amato, le abbiamo dovute tagliare
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