In conseguenza del DDL Dillon, nel dibattito pubblico si è tornato a parlare della PAS, la sindrome di alienazione parentale proposta da Gardner. Un argomento che mette spesso i colleghi in una situazione imbarazzante. Capita infatti regolarmente, di cadere in questa successione di osservazioni: la prima è che il fenomeno esiste, e lo si osserva con relativa regolarità, nei contesti della vita e soprattutto del nostro lavoro, la seconda è che, riconosciuta l’esistenza del fenomeno, quando andiamo a vedere la descrizione proposta da Gardner, unita all’insieme dei sintomi che sarebbero considerati rilevanti per effettuare la diagnosi, ci rendiamo conto che quel costrutto così come è, non sta né in cielo né in terra, i sintomi proposti nel clouster non sono in realtà considerabili come indici di una psicopatologia ma tuttalpiù di un comportamento adattivo, e ci appaiono stilati con una presunzione di malafede verso il minore che non è compatibile con la deontologia professionale. Anzi, viene persino lecito chiedersi se il comportamento in oggetto non sia una stato tipico di un soggetto ricorrente in certe circostanze, ma nient’affatto qualcosa ascrivibile al campo delle diagnosi e delle psicopatologie, le quali si connotano per una assimilabilità a delle malattie, a delle disfunzioni dell’organismo. E possiamo dire questo di un bambino, che in accordo con un genitore, non vuole vederne un altro? Possiamo considerare questo comportamento specifico, paragonabile a stati per cui l’esame di realtà è compromesso (le psicosi) o per cui un grave senso di malessere impedisce le attività quotidiane, inchioda a letto e non fa fare niente (le depressioni?). La sensazione dei clinici, o almeno la mia è che si sia inquadrato qualcosa che danneggia i sistemi familiari e incrementa le singole psicopatologie, ma lo si faccia male, e si insista per iscriverlo in un campo diagnostico non a scopo di cura (d’altra parte anche questo deve far riflettere: il DSM nasce per la psichiatria e la cura farmacologica. E’ pensabile una cura farmacologica per la pas?) ma a scopo politico, e di una politica che è essa stessa il sintomo del malessere di chi la promuove. La Pas -così come è pensata: ossia un’accusa di malafede verso donne e minori – sembrerebbe piuttosto il progetto di una mentalità tarata sull’ostilità e il conflitto.
Qui i sintomi secondo Gardner.
- Campagna di denigrazione (nei confronti del genitore)
- Razionalizzazioni deboli, superficiali, assurde
- Mancanza di ambivalenza
- Fenomeno del pensatore indipendente
- Mancanza di sostegno al genitore alienato
- Mancanza di sensi di colpa
- Scenari presi in prestito
- Estensione dell’ostilità (famiglia allargata)
- Difficoltà di transizione durante le visite
- Comportamento durante le visita
- Legame con il genitore alienante (precedente)
- Legame con il genitore alienato
D’altra parte però si ha la sensazione che il fenomeno esista, anche se forse non è corretto inquadrarlo come diagnosi. La ricerca psicologica, le grandi teorie sono piene di costrutti e osservazioni che aiutano a circoscrivere e identificare organizzazioni psicologiche, strategie del comportamento, sistemi complessi di interazione, a carico dei singoli come delle famiglie come dei gruppi sociali, l’individuazione di questi costrutti oscilla tra la neutralità e la sfumatura verso dei giudizi di valore, qualche volta per l’orientamento ideologico di chi formula le osservazioni cliniche, ma spesso anche perché si constata come quel tipo di comportamento identificato spesso vada a preludere a una serie di altri che sono francamente problematici e forieri di sofferenza. Di altri costrutti che in psicologia si individuano si constata invece che la loro presenza rigida e costante è correlabile a una diagnosi psichiatrica, ma possono essere funzionali a stati transitori, essere organizzazioni protettive per la vita dei soggetti avere una funzione omeostatica.
Piuttosto, io credo che sia più utile considerare la Pas come un funzionamento dei sistemi familiari irrigiditi.
Se osserviamo le famiglie in maniera laica, al di fuori cioè delle prospettive politiche di un conflitto nelle visioni di genere e di coppia, noi constatiamo che ci sono famiglie in cui a volte – a ben vedere anche prima di una separazione materiale della coppia genitoriale – ci sono alleanze forti tra un genitore e uno dei figli mentre l’altro è completamente estromesso dalla relazione tra loro, oppure ci sono sistemi familiari in cui un membro è molto aggressivo con un altro e la prole che assiste tende a essere solidale con il membro palesemente aggredito, terzi in cui invece un soggetto periferico al contesto costruisce reti fuori dalla relazione con il nucleo familiare per poi essere definitivamente espulso. Di tutte queste cose scrive da più di settant’ la psicologia familiare e sistemico relazionale, considerata colpevolmente troppo poco nel dibattito giuridico su questi temi, e considerata da sempre troppo poco chic negli ambienti colti, o che si presumono tali pur ignorando gli sviluppi dell’ultimo secolo di ricerca clinica. Se fossero interpellati questi colleghi, essi spiegherebbero come la PAS è il nome sbagliato di una evoluzione specifica della frattura dei sistemi familiari, una specifica forma di triangolazione, ossia, termine con cui in psicologia sistemica relazionale si intende l’uso di un terzo per spendere un conflitto e scaricarlo su di lui, includendocelo dentro. E se si tenessero in conto i convegni e i confronti in cui si sono spesi gli psicoterapeuti di formazione analitica, si scorprirebbero i numerosi intrecci profondi, che traggono linfa dalle storie originarie di tutti i membri implicati. Perché quando questo tipo di triangolazioni estreme avvengono, non è solo il bambino a mettere in atto un assetto psicologico particolare, ma tutti e tre, e non certo dal momento del divorzio.
Non molto nel dettaglio, possiamo per esempio dire qui.
Un figlio può sentire un bisogno fortissimo di essere vicino alla madre per molti motivi lontani e profondi, per esempio perché è un modo di uscire vittorioso dalla concorrenza edipica col padre, specie se la separazione è avvenuta quando era piccolo, e non ha avuto tempo di digerire la presenza di un altro uomo nella vita della madre. Oppure può sentire il bisogno, avendo visto sua madre depressa e infelice di proteggerla, questo anche perché è un suo modo personale di tenere a bada sentimenti di abbandono depressione e infelicità che quella madre depressa e infelice nella sua purtroppo incontrollabile infelicità non ha potuto intercettare e lenire. Non è raro che figli di donne con diagnosi importanti siano estremamente protettivi verso di loro. Può avere anche una sorta di ritorno identitario, per esempio nella fase preadolescenziale e adolescenziale, sentirsi riconosciuto come maschio, come uomo, come adulto, perché degno rivale del padre. Ugualmente, una bambina ha altrettanti motivi per proteggere la madre che vive come attaccata, per esempio per via di una identificazione profonda il cui scioglimento non è affatto aiutato dalla lontananza del padre, per cui meno lo vedrà più sentirà che le sofferenze della madre sono le sue: l’adolescenza delle femmine dopo tutto è questo, scoprire di essere donne diverse dalla mamma. Sia figli che figlie poi possono arrivare all’ostilità con una figura genitoriale come capolinea di una mancanza di relazione che è cominciata molto prima della rottura del sistema familiare.
Allo stesso tempo, quello che i sistemico relazionali chiamano triangolazione, potrebbe essere interpretato dagli psicoterapeuti di scuola analitica come il meccanismo psicologico per cui alcuni sentimenti emozioni contenuti mentali vengono subappaltati nei figli, spostati su di loro. La cosiddetta madre alienante cioè potrebbe attuare un’identificazione proiettiva sul figlio – facendogli vivere cose che non sempre lei ammette alla coscienza – potrebbe includerlo in un meccanismo di scissione – figlio mio noi siamo i buoni le vittime, le persone gentili, mentre il padre che ci ha lasciato il male il cattivo la mala fede. Azioni psichiche queste che possono anche essere più inconsce che consce, e che rappresentano una partita della psicopatologia familiare che comincia molto molto prima. A essere anzi più precisi e disincantati, si potrebbe anche dire che quel modo di condurre le partite relazionali era scritto nelle storie dei soggetti che compongono ora la coppia genitoriale disfunzionale, ben prima che quella coppia si formasse. Ognuno di quei membri ha infatti un padre e una madre, un romanzo familiare, problemi e soluzioni ereditati da quella prima vicenda che ora ritorneranno nel proseguire la loro vita. Ognuno di loro ha scelto il partner adatto a rafforzare la propria patologia più che a scioglierla. E si è andato costruendo un sistema malato e sofferente.
Un’area problematica pregressa naturalmente potrebbe riguardare anche i padri, e io trovo che – nonostante molte situazioni giustifichino certamente un senso di dolore e rabbia – quando arrivano quei toni fortemente svalutanti, carichi di odio verso la ex partner che si abbinano alla disinvoltura con cui si è disposti a utilizzare una diagnosi psichiatrica ( che ancora oggi ha un potere sociale screditante) nella lotta per il potere sui figli – beh sia piuttosto evidente. Anche il padre “alienato” si potrebbe rivelare cioè una persona che da sempre vive con grandi difficoltà, antiche sofferenze mai risolte e difese rigide e disfunzionali: sono le stesse della partner, io sono buono vittima e frainteso, lei è quella cattiva persecutoria controllante, io sono quello sempre in buona fede, lei quella sempre in cattiva fede. Anche se magari indubbiamente possa esserci il contributo esasperante di una situazione che peggiora nel tempo. Ma quanto più sono rigidi questi meccanismi difensivi, tanto più si ha la sensazione che siano entrati in scena molto prima della separazione, e ora proprio quel modo di vedere la situazione impedisce di considerare dove si ha contribuito a creare lo stallo attuale e le cause che portano i figli a svolgere quel ruolo e a scegliere la comunicazione ostile verso il genitore con cui non vivono.
E si può magari non a torto considerare come ci siano dei rinforzi sociologici e culturali – a dare cemento alla posizione aggressiva del padre, un certo maschilismo per un verso, ma anche il patire gli effetti di quello stesso maschilismo per cui oggi non si sentono giuridicamente incoraggiati a esercitare un ruolo affettivo, e forse in qualche singola vicenda si potrà vedere un certo femminismo come ostacolo al miglioramento della vita della famiglia e della coppia – ma io non trovo davvero utile e insistere sull’aspetto politico della vicenda, perché vederla in questo modo, maschilismo cioè contro femminismo, è un altro viatico per incrementare quella conflittualità che fa male a tutti.
Vorrei fare piuttosto una riflessione sulla responsabilità che hanno i periti di parte e soprattutto gli avvocati di parte quando si trovino a imbattersi in separazioni giudiziarie in cui sembra esserci in mezzo questo fenomeno, che chiameremo PAS – sindrome di alienazione parentale, anche se come è evidente qui è intesa in tutt’altro modo – ossia come un irrigidimento patogeno del sistema familiare anziché come una presunta diagnosi psichiatrica a carico del minore e della madre.
Gli avvocati di parte vivono un’occasione professionale terribilmente delicata per il ruolo emotivo a cui sono chiamati. In questo genere di occasioni sono chiamati a lavorare in una situazione di conflitto, e viene richiesto loro esplicitamente ed emotivamente di assumere una posizione parziale – anche la dicitura lo sottolinea: sono avvocati di parte. Sentono di lavorare bene, spesso in buona fede, con una profonda sintonizzazione emotiva con i loro assistiti, a volte quella sintonizzazione emotiva risuona forte anche di quelle cornici ideologiche di cui ho parlato nel capoverso precedente. La donna che vuole allontanare il bambino si riterrà sostenuta da un avvocato femminista, l’uomo da uno maschilista, entrambi da qualcuno che si accorderà con loro nell’usare una diagnosi solo per il partner da cui ci si separa e per la prole. In questo modo si cade in una cattiva infinità: perché in realtà ci sarebbero tanti vie, tante parti psichiche dell’assistito con cui sintonizzarsi ma tante volte l’avvocato ( e in qualche sciagurato caso, il giudice) sceglie quella più evidente, più raggiungibile nell’immediato, più facile per lui emotivamente e professionalmente, a discapito alla fine di quello sistema familiare per il quale è chiamato a trovare una soluzione. E non bisogna essere troppo severi con questi periti di parte per tantissimi motivi. Il primo è perché davvero da vicino si vedono vicende estremamente gravi e dolorose con cui è estremamente difficile non identificarsi – anche gli avvocati sono mogli, mariti, padri, madri, traditori, traditi- per non parlare della richiesta esplicita dell’assistito che paga per essere sostenuto in una sorta di tifoseria. Il secondo è anche dovuto al terribile disincanto che i familiaristi devono condividere con altri professionisti che lavorano con le famiglie sul fatto che davvero, certi sistemi familiari sono così patologici da così lungo tempo, raccogliendo patologie a loro volta così antiche, che un linea attenta e sorvegliata spesso si scontra contro il muro di gomma della parte opposta, per cui alla fine capisco che ci senta sollecitati a una estrema durezza. Davvero, sono buoni tutti a essere comprensivi senza confrontarsi con certe controparti che fan venire il sangue alle mani.
Tuttavia dobbiamo cominciarci a chiedere quanta responsabilità abbiano le modalità dei contesti che si relazionano a una famiglia rotta, nell’aumentare in modo ineludibile la rottura di quella famiglia, e di impedirne la sua trasformazione in una coppia di nuclei separati e uniti da un terzo che deve essere una genitorialità rimasta ancora viva ed efficace come coppia. Utilizzare la Pas per come è stata formulata da Gardner in sede processuale, con tutte le conseguenze che può avere – come abbiamo visto in alcuni tristi fatti di cronaca – o come il DDl Pillon vuol dire improntare un modo di intervenire che è il proseguo della storica conflittualità della coppia, esasperandola e cronicizzandola. E’ una sorta di conferma dei meccanismi patologici che hanno portato a quella separazione e anche a quegli effetti ossia, l’allontanamento di un figlio dal proprio padre. Il padre potrà pur ottenere una vittoria materiale sulla carta, ma il prezzo potrebbe essere altissimo, inemendabile, perché sarà proprio il figlio a far pagare il fatto di essere utilizzato come capro espiatorio e non essere preso per niente sul serio, e se questa protesta dovesse essere ignorata, e il minore costretto a una frequentazione che non ha scelto emotivamente, fino a portarlo a una compiacenza e un’accettazione che non rispondono a un’elaborazione reale, beh, altri problemi psichiatrici alle porte potrebbero arrivare, e i rimproveri verso la madre cattiva e cattivissima un alibi di scarso successo.
Forse allora sarebbe opportuno cominciare a considerare questo fenomeno, nella sua doppia peculiarità: come ultimo irrigidimento di disfunzioni problematiche di lunga data, che si organizzano con le emozioni e i modi di percepire la realtà, per cui non possono essere cancellate con un provvedimento veloce, che imponga cambiamenti subitanei, e come un fenomeno che riguarda un intero nucleo familiare in tutte le sue parti. Questa prospettiva permetterebbe a tutti i professionisti coinvolti (e io penso che in molti in realtà già lo facciano) di lavorare in questi difficili frangenti in un modo più sarealmente utile per tutti.