Note su “Baby Reindeer”

E’ uscito in questi giorni Baby Reindeer su Netflix, una miniserie che racconta una delle possibili varianti di stalking. Così almeno è stata percepita: per me invece devo dire, è una interessante autobiografia di una persona che ha molto sofferto, per un disturbo mentale importante, e racconta in modo molto intenso ed efficace di cosa fa della sua realtà e dei suoi rapporti. E’ un ottimo case study quindi sull’ingaggio con oggetti psicologici invasivi e disturbanti, le modalità con cui certo oggetti vengono proiettati su psicologie conformi a quella proiezione. E’ davvero una serie utile per esempio per gli specializzandi in psicoterapia o per i laurendi in psicologia. 
In una certa misura, racconta abbastanza bene anche la fenomenologia degli stalker, meno la loro psicologia, e ancora, la fenomenologia di certi stalker di un sottogruppo, e anche in questo la trovo un bel prodotto. Per esempio è efficace come è rappresentata la stolida dedizione a senso unico dello stalker, o il fatto che normalmente per uno o una stalker qualsiasi risposta aggressiva è percepito come rinforzo.  E’ ben descritto quel modo psicotico di cercare di raggiungere l’altro, invadendolo, scioccandolo, abusandolo. Mi pare dunque che dal mio punto di vista, i personaggi della miniserie sono abbastanza ben scritti. 

Professionalmente mi è piaciuta molto, personalmente meno – perché soffre di un peccato ricorsivo, di quando si fanno telefilm o film che parlino di queste cose nel dettaglio: il dettaglio della dinamica delle parti fa si che il lavoro parli solo della dinamica delle parti, la storia è solo quella storia, non c’è arte, non c’è letteratura non c’è metafora di niente, il desiderio di esorcizzare un fenomeno pervade la domanda di senso. E forse è questo l’unico aspetto non riuscito del telefilm: il narratore voleva dare un senso all’accaduto, ma il suo slancio letterario è troppo flebile, lo slancio politico nullo, lo slancio psicologico si e no sufficiente, per dare un senso. A stento spiega come mai lui si incastri in certe dinamiche – ma neanche tanto. Spiega per bene il come succede, ma non il perché. Non c’è molta archeologia della vicenda. Solo fenomenologia. E quindi insomma è un prodotto per me moderatamente interessante, seppur con dei meriti.

Ho però avuto desiderio di scrivere queste righe, perché ho notato che la serie ha avuto presso il pubblico un notevole impatto, e ha fatto pensare a tutti che dicesse tante cose sullo stalking, e su come normalmente si costruisca la relazione tra stalker e stalkerizzato.  Le persone hanno ragione, perché ci sono diversi aspetti narrati in questa serie che sono ricorsivi nel fenomeno:  la percezione del malessere nell’altro, la possibilità di riconscerci delle proprie parti fragili, il desiderio di aiutare lo stalker, il sentimento di pena per lo stalker. E simultaneamente questa ossessione cieca di cui ci si accorge di essere oggetto. 
Tuttavia, non vorrei che passasse  – come temo – questo fraintendimento, che è molto incoraggiato diciamo da una specie di psicologia popolare facilitata. Il fraintendimento per cui lo stalking sia una iattura che possa capitare soltanto a psicopatologie altrettanto franche e complementari, le quali ci si infognano perché appunto si tratta di due assetti che si incastrano. Ecco. Non è così.
La cosa esasperante dello stalking è che non è quasi mai così.

La maggior parte delle storie di stalking ha infatti degli itinerari diversi. Ci sono diversi tipi di stalking: c’è quello legato alle figure famose, quello legato a delle figure professionali percepite come di potere  e verso cui lo stalker sente una dipendenza– psicoterapeuti in prima linea, ma anche medici, avvocati e amministratori di condominio, e poi c’è la forma più diffusa di stalking che è quella che si materializza in seguito a una relazione che si conclude.  In generale però quello che accade anche in questo ultimo caso è che una persona comincia una relazione con un’altra, magari in un momento di fragilità congiunturale e transitoria, il futuro o la futura stalker mettono in campo attenzioni fusionali, controllanti e iperinclusive che fino a che sono accettate non danno luogo a stalking. La stalking si configura quando il partner chiude la relazione esce dalla fusionalità in qualche modo esce dal gioco, solitamente percependo ina diversità come dire, ontologica tra se e il partner che  – diversamente da come rappresenta il telefilm  – avverte come asimmetrica, fuori da una complementareità. Spesso c’è la pena e il dispiacere, per il soggetto persecutore, ma quando questo soggetto comincia a invadere gli spazi vitali, a togliere libertà a minacciare i congiunti, a fare azioni pericolose, buona parte delle vittime attiva un senso di separazione. Se contatta degli stati di angoscia, dissonanti, questi non lo portano a entrare come dire a un’ossessione inversa. Molto banalmente, le persone stalkerizzate vogliono uscire da questo campo angosciante al più presto, perché vivono la straniante sensazione di abitare un incubo che non gli appartiene. Possono provare grandi sofferenze e soffrire terribilmente perché lo stalking è estenuante, bisogna cambiare tutte le cose della propria vita, e hanno la sensazione di non farcela. Spesso non fanno fatica a chiedere aiuto alle forze dell’ordine, non quanto meno per motivi psicologici,   perché è forte la percezione di avere a che fare con qualcosa di anormale, di insensato. Qualche volta possono contattare altri stati di malessere collegati alla loro psicologia e a cosa proiettano  – non solo addosso allo stalker ma alle figure di aiuto, Però il gioco di specchi, che inscena il telefilm è più peculiare di quella psicologia del protagonista che della casistica dello stalking. Oppure più peculiare della casistica delle coppie in cui c’è violenza di genere, e la partner non riesce a lasciare il partner violento, che delle coppie dove uno riesce a chiudere la relazione. La chiusura è infatti – un atto semantico che segna, questo voglio dire, uno scarto di funzionamento di cui la vittima è sempre piuttosto consapevole.

Infine.
Grande merito di questa serie, è aver rappresentato una storia dove la stalker è una donna, e lo stalkerizzato è un uomo. E’ un merito perché le donne stalker esistono – ho avuto pazienti che ne sono state vittime – e si tende a non parlarne, e perché aiuta molto i maschi a immedesimarsi nelle vittime, che comunque statisticamente sono per lo più  – donne.
Però questo merito, non deve farci perdere di vista un problema oggettivo, ed è l’intreccio che spesso lo stalking ha con certi rinforzi culturali quando la vittima è una donna. Se la stalker è donna è la vittima è un uomo, l’assetto patologico della stalker salta all’occhio perché si distanzia grandemente dai canoni culturali di comportamento previsti dal sistema sesso genere della sua cultura. Quello che voglio dire è che Martha, la protagonista di Baby Reindeer, suona lampantemente svitata in un film ambientato nell’occidente, perché fa cose che proprio stonano con le normative comportamentali della donna occidentale, a qualsiasi latitudine di classe. A generi invertiti, anche se oggi per fortuna un po’ meno di un tempo – l’uomo che si comporta come Martha, è meno concepibile come disfunzionale, perché l’insistenza maschile è stata a lungo un codice culturale condiviso, problema per cui – per fortuna oggi meno di un tempo – capita che  le forze dell’ordine non decodifichino  correttamente le denunce che a loro pervengono. Anche per le vittime a volte queste modalità risultano in una prima fase non facili da decodificare. Questo comporta una serie di difficoltà addizionali, l’insistenza è amore? A volte sembra essere chirurgico il compito di discriminare le due questioni.

Consiglio, allora, per capire bene questa questione perturbante dell’amore che non si capisce se è amore o follia, desiderio o ossessione, di leggere un bellissimo libro di Orhan Pamuk, il museo dell’innocenza. E’ un libro che non vorrrebbe affatto parlare di stalking, e che in qualche modo lo romanticizza, che forse nel suo essere turco non lo concepisce veramente come una lesione, o forse si, ma è il grande romanzo di una ossessione, di un uso cannibalesco e patologico dell’altro, culturalmente protetto e quindi in quanto tale non correttamente diagnosticato, e secondo me fa capire bene questa complicata zona di confine, la chirurgica area viscerale dove si dovrebbe discriminare sentimento di chi vede l’altro, e proiezione psicotica di chi ci mette parti sopra da reincorporare.  Si ha la sensazione che Pahmuk si identifichi con il persecuotore, piuttosto che con la povera vittima. Ma siccome si tratta di Pamuk, fa proprio quello che dicevo, manca alla serie – e il museo dell’innocenza è anche un romanzo che parla di altro, della narrativa, della ricerca di senso, dell’ossessione della scrittura, del rapporto tra identità  scrittura e memoria, per cui lo stalking diventa la metafora dell’ossessione alla ricerca di qualcosa di se perduto ed evanescente, la tragica e violenta lotta di chi ama una realtà che lo respinge, e che non può possedere del tutto, dove c’è la totalità del proprio mondo interno. Quel senso di disperata incorporazione è vero lo sento nello stalking, e simultaneamente è vero mi ricorda un po’ un certo fuoco che sta dietro l’azione della scrittura.

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