Psichico 14/ Ella, Marilyn e il secondo ciclo di psicoterapia.

Per questo post, vorrei che cominciaste con il guardare attentamente la foto che ho utilizzato come copertina di questo blog. Si tratta di una foto che ritrae Ella Fitzgerald e Marylin Monroe, ed è una foto che amo moltissimo, per la storia che nasconde dietro le spalle e per la simbolica che io ci riconosco riguardo il lavoro della psicoterapia.
Questa foto, è una sinfonia di forze e contrappesi, è l’arte di una diade – così come la sua storia. C’è stato un tempo infatti in cui Marilyn Monroe era molto famosa ed Ella Fitzgerald non lo era affatto. Marilyn poteva tutto ed Ella poteva pochissimo, perché esordiente ad esordiente nera, in anni in cui ai neri certi locali erano preclusi. Marilyn allora, procurò ad Ella un contratto in un prestigioso locale, sfruttando la sua notorietà e promise che se avessero scritturato la cantante che tanto ammirava sarebbe stata nel locale in prima fila tutti i giorni.
Così fece, ed Ella divenne una grande star. Nelle sue intelligenti parole pronunciate nel tempo in cui anche lei era diventata una icona epocale, potete leggere anche una veritiera (per chi la letto certi scritti di Marilyn) descrizione dell’attrice che la riabilita dal cliché dell’oca giuliva, della bionda svampita e presa da se stessa e dalle sue paturnie. Perché Marilyn fece un atto politico generoso e reale, rispondente a una grande apertura mentale, che la poverina – omnia munda mundis – neanche si riconosceva.

Ora, tornate a guardare la foto, e constatate il gioco di equilibri e di forze. C’è una donna bianca e bellissima ed elegantissima, e una nera molto grossa e forse un pochino kitch. Nel momento della foto sono sullo stesso piano, e la foto è piena di un’atmosfera gradevole, una complicità di sintassi, di palcoscenico. Ma la donna nera propone, emana un senso di granitico stare nel mondo. Ha solidi piedi psichici piantati per terra. Canta, conosce il dolore, interpreta il dolore ma è forte nel suo corpo nella sua grassezza, nella sua borghesissima negritudo. La bionda bellissima, la bionda che sarà capace di far vendere un profumo a sett’antanni di distanza, invece anche in questa foto emana un’aria di dolore, un dispiacere, i suoi piedi no, non poggiano benissimo per terra. Nell’ambito dell’interpretazione è costretta a scegliere tra le partiture che evocano le sue corde depressive, e quelle che la inchiodano all’archetipo collettivo.
Pure per la sua cantante nera ha fatto qualcosa di grande.

Una brava cantante, è una buona rappresentazione di un bravo analista. Se ha vissuto tante vite è certamente più capace nell’interpretazione di narrazioni diverse, ma indubbiamente esiste una tecnica dell’interpretazione che prescinde parzialmente dalla possibilità di aver attraversato tutte le esperienze evocate. Tuttavia, grande è il numero delle esperienze emotive, forte è la capacità di avventurarsi in storie che non si sono conosciute. Ugualmente, come per la maggior parte degli scrittori, esistono delle zone di confine le quali non necessariamente combaciano con l’integrità della propria vicenda storica, certe situazioni certe sofferenze per esempio riescono a essere meglio lette e colte di altre perché incarnano il destino di una parte psichica dell’analista, una sua area distinta, e allora come Flaubert ha reso al massimo grado scrivendo di una signora sognatrice che rincorre un desiderio mettendo in scacco la vita materiale, una analista donna può cogliere meglio le vicissitudini umane di un paziente maschio e omosessuale. Certo è io credo, che maggiore è la bravura del clinico più è ampia la corolla psichica delle esperienze pensabili, tangibili psichicamente, a cui arrivi anche con le sue evocazioni parzialmente consce – ma siccome, concretamente ed epistemologicamente l’analista non è Dio, non riuscirà ad esserci sempre nello stesso modo, anche per gli strumenti preferenziali che adotta in virtù della sua equazione personale, il che può voler dire che usa certi meccanismi di difesa più di altri, o che per dirla con Jung che è un certo tipo psicologico piuttosto che un altro. Anche qui, più è bravo l’analista più sposta le mani con agilità sul pianoforte della sua strumentazione clinica, tuttavia, intensive ed extensive non combaciano mai.
A ciò si deve aggiungere la consapevolezza del fatto che, una diade è composta da due persone, e l’altro è una sorta di oggetto chimico che contribuisce al colore ultimo della relazione. Lo stesso clinico, che dice la stessa battuta a due persone avvierà un domino in una direzione diversa. Guardate un attimo Ella mentre parla con Marilyn Monroe, e pensate ora la stessa Ella con lo stesso vestito e lo stesso gesto che parla con un Louis Armstrong, o un Bill Evans. Significanze diverse, che avranno esiti diversi anche nella prossemica tra i due.

Questa lunga riflessione può servire molto a capire la questione della seconda terapia, la cui necessità può verificarsi in tre casi: il primo in cui il paziente interrompe il percorso anzitempo, per una decisione unilaterale, rapito da una coazione a ripetere per esempio, o irretito dalle proprie resistenze – si arriva a un punto di funzionamento della terapia, e il paziente scappa. Alle volte nella genuina convinzione di aver raggiunto gli obbiettivi desiderati. Spesso la frattura di quella terapia è la prova del suo funzionamento ma non in virtù del presunto successo ottenuto, che ahimè di solito è piuttosto superficiale, ma proprio in virtù dell’angoscia suscitata. Non è raro allora il caso in cui dopo un più o meno lungo periodo di benessere, anche diciamo di qualche anno, gli stessi sintomi si presentino come prima, o lievemente modificati. In quel caso, io penso che possa essere saggio ritornare dall’analista con cui si era interrotto un dialogo la cui crisi era la prova della sua funzionalità e ricchezza. Una cosa che per esempio capita frequentemente è che un paziente abbia una serie di problemi piuttosto complicati, che lo tengono lontano dalle relazioni amorose. Poi a seguito di una terapia che funziona riesce ad avere una relazione, il che però non vuol dire che tutto il casino a monte sia risolto. Ma il paziente è felice è contento, ha la sensazione che tutto a posto e chiude la terapia.
Un secondo caso, è quello in cui la terapia non funziona – perché esistono i cattivi cantanti, almeno secondo me – ma anche pazienti che sono delicati e difficili e magari non ci vuole il migliore del mondo ma quello che ha quella particolare vocazione, quella particolare struttura. La terapia allora si rompe, perché il paziente e qualche volta il terapeuta sentono un girare a vuoto, un non concludere e il paziente chiude.
Un terzo caso, è quello in cui la terapia invece, fa il suo dovere. Il paziente si fa tutto il ciclo, e ne guadagna un cospicuo miglioramento. In qualche caso, queste terapie fanno fatica a finire e paziente e terapeuta continuano a vedersi, contenendosi e consolandosi a vicenda, ma ripetendo un concerto da camera che è diventato un caldo e stereotipico salmodiare. Rimane il fatto che la terapia ha fatto il suo lavoro, e la persona sta davvero meglio rispetto a prima. L’ideale è una terapia che si chiude al concludersi di un percorso che pare un incrocio tra una sinusoidale e una parabola, e la fine, almeno per noi analisti, si vede oltre che nella recessione dei sintomi, nelle immagini dei sogni.
Può succedere però che una certa prova esistenziale porti a galla nodi irrisolti, che la precedente analisi è riuscita a sbrogliare solo in parte. E questo è umano e possibile, e quasi ovvio, se consideriamo il discorso dell’inizio del post il quale cercava di dimostrare come il principale strumento di un analista sia stesso, la sua identità la sua morfologia e certo la sua sintassi pragmatica. Può accadere che un primo ciclo con un cognitivista abbia portato a grandi risultati, ma che ci si possa giovare dopo un po’ di tempo di una psicoanalista. Si può andare da una psicoanalista donna – molto materna accogliente ed emotiva, che ti regala il tuo senso di diritto di stare al mondo – e poi permettersi il lusso di far un secondo ciclo con un’analista sempre donna, o uomo, che invece sia tarato su una maggiore freddezza, una maggiore funzione contenitiva paterna e superegoica, che usi meccanismi di difesa e strategie comunicative più cerebrali e razionali. Può accadere, che dopo aver risolto dei problemi gravi e radicali che stavano mettendo a rischio la tua vita stessa ora hai dei problemi dolorosi ma ragionevoli. E’ giusto allora non tornare nella vecchia terapia e tentarne una nuova.

Infine – molta molta attenzione nel giudicare le persone o giudicare i se stessi che, sono sempre nella stanza di qualcuno. Cambiare spesso terapeuta e una cosa che fa male, e che fanno le persone che hanno più difficoltà. E’ facile incontrare un incompetente, ma se gli incompetenti sono tanti forse il problema è nel tenere la relazione, piuttosto che l’oggetto della relazione. Ma è un problema dolorosissimo acui bisogna devolvere grande rispetto. Così come se ci sono persone che stanno in analisi una vita intera, cambiando, ma in qualche caso non cambiando. Queste persone spesso e volentieri non sono pigre, non sono poco volenterose, queste persone hanno davvero bisogno, e fanno benissimo a fare così perché hanno come dire una difficoltà profonda a manipolarsi da soli, e a contenersi e sanno che se mollano non ce la faranno più. Certi pazienti, mi disse Luigi Aurigemma, li devi tenere per mano tutta la vita.
Se mollano una mano e poco dopo ne cercano un’altra – hanno le loro buone ragioni.

4 pensieri su “Psichico 14/ Ella, Marilyn e il secondo ciclo di psicoterapia.

  1. Innanzitutto grazie per la bella storia introduttiva, che non conoscevo. Il tema che tratti qui è importante, ed ha diverse sfaccettature (che tu hai ben enucleato). Io mi limito a riportate qualche associazione stimolata dalla lettura. Io credo che una terapia (uso il termine in un’accezione ampia), anche quando è utile, sia un percorso che permette di fare dei passi in avanti nella propria maturazione personale (oltre a permettere di affrontare gli eventuali problemi contingenti che l’hanno motivata), e che non esista una terapia “definitiva e risolutiva”. Certo, uno può decidere che alla fine di un percorso ha ottenuto gli obiettivi prefissati e che la sua qualità della vita è migliorata, e fermarsi, e poi in un secondo momento può avere bisogno di un altro passaggio maturativo, che può percorrere con il vecchio terapeuta o no (e qui entrano in gioco molti fattori). Mi premeva dire che l’aspetto relativo della maturazione in terapia non è solo legato alle caratteristiche e ai buchi del terapeuta (che sono fondamentali), ma anche al ritmo vitale del paziente (ognuno ha una soglia di tolleranza alla maturazione, e le pause per metabolizzare il percorso, secondo me, sono parte integrante del processo terapeutico). Un’altro aspetto, più interno alla professione, è che secondo me per chi è psicoterapeuta è fondamentale avere più di una esperienza terapeutica come paziente, proprio per i motivi da te citati: due persone differenti, con buchi e mancanze differenti, permettono di affrontare più aspetti di sé rispetto ad un solo percorso terapeutico.

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  2. Questa foto è molto bella, le due donne in primo piano ipnotizzano l’attenzione ma lo sfondo è stupefacente: cinque persone che non hanno lo sguardo su di loro ma bensì altrove. La vita regala angoli di osservazione assai diversi.

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  3. Su Ella c’è una storia bellissima che riguarda la sua prima esibizione come viene raccontata nel “Codice dell’anima” di Hilmann (non so se lo conosci, è un libro un po’ particolare sul talento personale e sul daimon, la storia è questa: Concorso per dilettanti alla Opera House di Hartem. Sale timorosa sul palco una sedicenne goffa e magrolina. Viene presentata al pubblico: «Ed ecco a voi Miss Ella Fitzgerald… Miss Fìtzgerald ballerà per noi… Un momento, un momento. Come dici, dolcezza? Mi correggo, signore e signori: Miss Fitzgerald ha cambiato idea. Non vuole ballare, vuole cantare…».

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