Note sulla depressione

 

Ci sono parole che nell’incrocio tra pubblico e privato, tra gergo tecnico e linguaggio comune vengono usate con grande disinvoltura, dilatate fino al collasso, abusate fino a una sorta di rottura interna che provoca alla fine – un’ineluttabile emorragia di significato. In psicologia dinamica e psichiatria, si può trattare di parole come narcisismo, oppure di termini come complesso, o di formule come oggetto transizionale. Spesso magari, la causa sta nella dilatazione di questa o quella teoria come chiave di lettura fascinosa quanto facilitata della realtà, altre invece l’abuso di una parola che proviene dal gergo psichiatrico, risponde a un iniziale desiderio di qualificare in modo più preciso una certa situazione, senza fare però lo sforzo di capire esattamente di cosa si sta parlando, e utilizzando la stessa parola, per un numero tale di situazioni da toglierle quella connotazione precisa, descientificizzarla e giocare non di rado su un’ambiguità che non restituisce nessun favore.
E’ il caso della depressione per esempio, in particolare per come è trattata ed evocata sui media, ma anche per come ne parliamo comunemente. Ha sgozzato la moglie era depresso. S’è lasciata col marito? E’ depressa, Ah che depressione stasera mamma mia, soffriva di depressione, quanto sei depresso!

La depressione sembra essere una forma di tristezza molto forte che certe volte ci vai all’ospedale e certe invece ti annoi solo, certe volte te la risolvi scannando qualcuno. In ogni caso, è una condizione di grande tristezza, e patema, e averci a che fare con il depresso pare essere fonte di sventura.

Per capirci qualcosa, propongo di tornare alle regioni da cui la parola viene presa in prestito nel senso comune, e capire come viene usata da psicologi e psichiatri e individuando subito due usi diversi afferenti a significati relativamente diversi.
C’è un primo uso, classico e preciso, per cui depresso è un soggetto che ha un tono dell’umore molto triste se non tetro, che non ha voglia di fare molte cose, che non sembra provare reazioni forti né in un senso né in un altro, che ha uno sguardo fortemente pessimista su tutte le cose che indaga e di cui prova a occuparsi. Quando la depressione è molto grave provoca una sostanziale incapacità di agire, e uno stato psicologico penoso che si avvicina alla disperazione. La condizione è biologica, ha spesso una matrice genetica ormai assodata dalla ricerca scientifica, e se ha delle cause esterne a strutturarla o a diciamo solidificarla, sono cause profonde, antiche e importanti – non singoli traumi ma esperienze altamente formative della prima infanzia: per capirci, una persona molto depressa che fa un figlio in primo luogo può trasmettere un assetto genetico che rende il figlio vulnerabile alla depressione, ma in aggiunta è un genitore depresso che espone il figlio alla propria depressione, per esempio non ascoltandolo, per esempio non accogliendolo, per esempio costringendolo a essergli da genitore a sua volta. In ogni caso, una depressione grave non ha cause reali in occasioni di vita anche importanti. Una depressione grave può essere risvegliata invece, da una di queste cause.
In secondo luogo – in riferimento a questa prima definizione clinica del fenomeno, quando sui giornali trovate scritto che certo tizio ha ammazzato moglie e bambini – oppure una colf poi decapitandola, perché soffriva di depressione, state leggendo una bestialità. La depressione da sola non ti fa ammazzare proprio nessuno – escluso, purtroppo chi ne soffre, ossia c’è un discreto rischio suicidario– anzi la depressione ti porta proprio lontano dal fare una cosa del genere, essa nasce prima di tutto come patologia del tono dell’umore, anche se facilmente si accompagna ad altre diagnosi: le persone che hanno un problema psichiatrico consistente, per esempio, nello spettro dei disturbi di personalità hanno degli ottimi motivi per essere anche depresse – ma quando compiono dei crimini efferati, più che mai nei confronti di persone molto importanti della propria vita – c’è qualcosa che non va nei loro processi logici, nel loro modo di gestire mentalmente ed emotivamente gli oggetti importanti della loro vita, non nel tono dell’umore con cui pensano alle cose.

Questa prima accezione della depressione, in ogni caso, si adatta più specificatamente agli adulti, e bisogna stare molto in guardia quando comportamenti simili si verificano durante l’infanzia. Nell’adolescenza infatti sono quasi normali, e fanno parte dell’armamentario con cui si affronta psicologicamente l’oneroso processo della trasformazione, anzi, vista da una certa prospettiva, il comportamento depressivo che tanto spesso si riscontra nei ragazzi giovani, è una sorta di conquista, un’occupazione emotiva dell’esperienza del pensiero, del negativo, del malinconico, è una tristezza che se anche travagliata entro certi limiti rappresenta un passaggio sano, e che testimonia l’ingresso di una auspicabile quanto necessaria capacità digestiva del lutto – nel caso specifico, il lutto dell’infanzia che si perde, del corpo che si trasforma, di una leggerezza a cui non si potrà tornare più. Ma quando in un bambino piccolo compaiono fortissimi comportamenti depressivi – che somigliano alla depressione degli adulti, bisogna stare molto attenti – perché fisiologicamente quello non è un comportamento infantile, e non si tratta di semplice depressione. Un bambino molto imbambolato, molto poco attivo, spento, come un adulto oltre alla depressione deve avere qualcosa di altro, e ha una ragione in più per essere portato da uno specialista, che sia anche neuropsichiatra. Quando i bambini sono depressi, infelici, preoccupati, hanno bisogno di agire questo umore triste e i pensieri a cui si collega: e allora è facile che sia un bambino iperagitato, frenetico, o con comportamenti insolitamente aggressivi. Secondo alcuni psicoterapeuti infantili, le forme conclamate del celebre disturbo da deficit e attenzione e iperattività, non sono altro che le forme della depressione patologica dei più piccoli.

E questo ci porta a capire il secondo modo con cui gli addetti ai lavori alludono alla depressione, come a indicare una sorta di radicale psichico che produce comportamenti che non sempre combaciano con la mortifera immanenza della depressione maggiore ma a cui ci si riferisce ugualmente con il termine depressione, o con la formula “fondo depressivo” – questo soprattutto nell’ambito della psicologia dinamica ma anche nell’ambito psichiatrico quando ci si riferisce ai disturbi bipolari o ai comportamenti di tipo maniacale. In questo secondo modo di usare il termine, la depressione è un sostanziale pensiero di fondo, negativo, autodistruttivo, molto sfiduciato su di se e sulle proprie possibilità, anche molto aggressivo e rabbioso, a cui la persona può però anche reagire quasi come fanno i bambini, accelerando molto, facendo molte cose, rincorrendo disperatamente l’umorismo, il piacere agli altri, in un palcoscenico infinito, che all’infinito ha l’oneroso compito di pagare il debito interno, di compensare, e anche di scappare dal ricatto mortale del polo depressivo. Per certi clinici, anche l’ansia è una soluzione diversa del ricatto depressivo, vuoi diversa da un punto di vista neurofisiologico – perché l’ansia coinvolge altri circuiti e non a caso se un farmaco agisce sull’ansia fa danno sulla depressione e viceversa – sono quasi disposti su un asse – vuoi da un punto di vista psicodinamico, ma di fatto la persona ansiosa è qualcuno che negozia un’angoscia su un tavolo delle trattative esterno a se, occupandosi parossisticamente di cose pratiche, di paure possibili, di questioni che sono in realtà la gruccia che porta mali privati interni e intonsi. Facile che questi mali intonsi abbiano il colore basico della depressione, di una scarsa stima di se, di una sorta di disfattismo psichico a cui bisogna adattarsi – certo non con quel carico di aggressività che connota la depressione maggiore, e che rende così difficile alle persone stare accanto a chi ne soffre.

Perché il fatto che la depressione ha spesso, suo malgrado una connotazione profondamente aggressiva. Essa è tale perché per autosostenersi ha bisogno di avvelenare i pozzi, essa vince perché il bilancio della disistima di se deve passare dall’abbandono dell’altro e quindi, capita che la persona che soffra di depressione, senza volerlo, senza intenzione scientemente cattiva, agisca una forte aggressività soprattutto con le persone che gli sono più care – svalutandone le azioni, oppure nell’atto stesso di proporre sempre il proprio inesauribile scontento fino a ferirle con sarcasmo, al fine tutto psichico e spesso inconscio di elicitare quella stessa aggressività ed esasperazione nell’altro, che sancisca il senso di solitudine, di incomprensione, di ineluttabile destino. In questo senso è terribilmente difficile aiutare una persona depressa – e quando la depressione davvero dilaga, per come la vedo io almeno, è assolutamente prioritario associare una psicoterapia a una cura farmacologica – un binomio che, da entrambi i punti di vista è molto pericoloso spezzare, ma che se si mantiene può dare ottimi frutti. Il fondo depressivo infatti, può cronicizzare in una forma maligna che poi alla fine attacca nel suo circuito tipico anche la stessa possibilità di cura, sia per l’ossessività dei contenuti che presenta, sia per la necessità di svalutare il terapeuta, e allo stesso tempo, davvero il tono dell’umore rimane a lungo insostenibile senza farmaci. Ma la psicoterapia aiuta far capire la funzione omeostatica del sintomo depressivo, e sulla lunga durata dare gli strumenti per riuscire a scardinarlo. Certo si tratta sempre di interventi di cura che richiedono tempo.

 

 

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