Psichico 8/ Simbolo, microcultura, morte, idea della morte.

Premessa:
Spesso la cronaca ci mette davanti a questioni complicate, che ci fanno indagare sulle motivazioni e che talora, nel tentativo di capire, ci fanno inasprire nelle discussioni. Ogni volta che ci confrontiamo con la presenza del male – lo stupro, l’abuso, l’omicidio per esempio – fatte salve le cause di un tornaconto economico o di potere – ci dividiamo tra psicologico e culturale, tra patologia dell’io e patologia del linguaggio, tra colpa dell’anima e colpa del gruppo. Il problema di queste discussioni è che sulle singole discipline chiamate in causa, si incrostano dei bisogni, delle esigenze emotive prima ancora che razionali: il richiamo alla psicologia suona spesso come evocazione del perdono, quello alla sociologia come evocazione della contestazione sociale. Il male sta in mezzo e viene rimpallato di qua e di la come se fosse il pallone di un calcio balilla.
Non credo che funzioni così, perché non credo che ci sia un’interruzione sostanziale tra psichico e culturale. E non solo per il più facilmente accessibile concetto per cui il culturale e la moneta linguistica che si da in mano allo psichico – ossia noi mettiamo in atto i comportamenti che la nostra società suggerisce, ma anche per l’itinerario inverso – sul quale constato si riflette molto di meno.
Ossia. Il patologico è capace di creare il culturale.

Per fare un esempio che può essere utile, facciamo riferimento a certi processi che capitano in rete. Pensiamo per esempio all’anoressia e ai blog pro ana, di cui nel mio vecchio blog mi sono qualche volta occupata. Questi sono blog di persone molto giovani che vivono una situazione molto problematica, di evidente malessere psicologico. Sono blog con una loro innocenza e un grande dolore, scritti senza fine di lucro, ma usati come contenitori di una propria esperienza emotiva, tra ragazze che si mettono in contatto l’una con l’altra. Non di rado raccontano di cliniche psichiatriche, di diagnosi di ricoveri. Spesso parlano delle cose importanti della loro vita, e spesso queste cose sono il mangiare e i suoi ritmi. Non hanno nessuna intenzione disonesta, e siccome parte del loro malessere è la centralità del cibo da non ingoiare, sostanzialmente scrivono roba noiosissima.

Tuttavia, questa roba noiosissima è la loro realtà psichica, la loro simbologia materializzata: quando parlano di cibo – consapevolmente o meno – parlano di altro usando la parola cibo, l’argomento cibo, mentre il mondo simbolico nel cibo espresso rimane implicito. Comunicano, si confrontano, si scambiano informazioni, condividono il loro modo di raccontarsi la vita, si riscontrano nelle reciproche esperienze in un universo chiuso, separato dall’esterno, fatto di collusioni psichiche e scotomizzazioni assodate, di perdoni reciproci e sanzioni alla rovescia. Questi scambi si cristallizzano ed edificano un linguaggio, delle combinazioni logiche, delle gerarchie etiche: donde, le caratteristiche che più sconcertano di questi blog, perché cominciano ad afferire all’antropologia culturale e ad uscire dalla psicopatologia: i blog sono strutturati in torno al culto di una divinità, Ana, vi si può leggere la preghiera a quella divinità, e il decalogo del culto pro Ana.
Il tipico materiale da calepino nella foresta amazzonica.

Ho citato questa cosa dei blog pro ana, perché permette di vedere in vitro qualcosa che socialmente capita molto spesso con patologie individuali molto meno chiare nelle diagnosi e più sfumatamente iscritte nel contesto culturale. Con i disturbi dell’alimentazione circoscrivere l’emergere di una microcultura è infatti più facile perché nella grande varietà delle persone che ne soffrono esse hanno un dato lampante in comune, che è la simbolizzazione del cibo e del corpo. Mentre per altri tipi di sofferenza psichica la rosa simbolica è ben più vasta.
Ma se pensiamo invece che le famiglie di affini nascono intorno all’uso simbolico di certi oggetti condivisi, e in particolare intorno allo stile e alla duttilità con cui questi oggetti vengono manipolati, sia che si tratti di persone con una grave diagnosi o meno addosso, tutto diventa più comprensibile: per rimanere nel nostro esempio infatti anche i gruppi chiusi che parlano di cucina condividono l’esperienza simbolica del cibo, ma nello stile e nella manipolazione di quel simbolo, nel giudizio di valore psichico mettono in atto altre premesse che creano una diversa microcultura.

Gli atti criminali che di solito innescano queste domande riguardano prevalentemente la violenza di genere, e in seconda istanza la xenofobia. Lo sfondo maschilista o lo sfondo razzista sono sotto gli occhi di tutti e quindi è assolutamente legittimo pensare che vi sia una sorta di continuità tra gesto aggressivo e sfondo culturale. Tuttavia non si chiarisce mai esattamente come questa continuità si giochi all’atto pratico, psicologicamente cosa succeda. Eppure rifletterci può essere utile, perché può spiegare parzialmente – per quel che almeno compete la mia disciplina – delle differenze tra questo o quel gruppo, questo o quell’evento criminale, inscritto in questo o quel contesto. A questo scopo, io credo che esaminare i processi di socializzazione che avvengono in rete diventa molto utile perché essi riproducono in vitro, e in una modalità che lascia una traccia scritta, i processi di socializzazione che avvengono all’esterno, e che si basano sulla strutturazione di famiglie di individui che condividono simboli e modalità psichica anche inconscia di manipolazione simbolica.

Mediante quell’osservazione, anche fatta su noi stessi, notiamo che tendiamo ad aggregarci non solo per condivisione di interessi, ma per stili di personalità: certi argomenti ci piacciono più di altri, ma anche certi modi di affrontarli ci sono più consoni di altri. Per esempio io che scrivo questo blog, ho una certa resistenza a frequentare in rete e fuori della rete persone che evitano di circostanziare le proprie asserzioni e che tendono a un manicheismo emotivamente gridato. Quando sui social netwark incontro quel tipo di risentimento viscerale che appoggia il mio stesso oggetto simbolico, io per esempio mi raffreddo mi sento distante. Per fare un esempio concreto certe uscite da gogna sull’uxoricida ciccio formaggio mi hanno emotivamente raggelata, e credo anche buona parte delle persone che frequentano questo blog. Non si tratta di uno scandalo intellettuale, si tratta di un attrito esistenziale, di due funzionamenti psichici diversi che collidono e che procurano un disagio epidermico. Dico questo per far capire come, mutatis mutandis, analoghi disfunzioni psichiche si trovano d’accordo tra loro e si sentano a proprio agio tra loro, familiarizzando e creando un mondo condiviso che produce oggetti culturali e che scelgono dal mondo esterno i simboli e gli oggetti da manipolare.
Questo primo elemento, ci fa capire che oggettivamente la socializzazione dell’esperienza patologica è un aspetto di cui tenere conto – e secondo me tanto più rilevante in contesti sociali economici e politici diversi dal nostro, dove agenti esterni collettivi creano una sorta di vento psicopatologizzante che investe una collettività agendo paradossalmente sui singoli. La fame, è patologizzante, la carestia e l’assenza grave di risorse idriche e alimentari sono agenti che fanno stare male e scrivono un ordine simbolico di costante ricattabilità psichica. Le dittature sono agenti patologizzanti. L’esasperazione cambia la psiche gli esasperati si associano e socializzano l’esperienza e creano un mondo simbolico.

A questo punto si può cercare di riflettere sull’altra questione ossia l’uso patologico degli oggetti simbolici messi a disposizione dalla cultura o addirittura dalla microcultura psicopatologia espressa da qualcuno. Influenzeranno tutti allo stesso modo? Saranno utilizzati da tutti allo stesso modo? Procureranno gli stessi effetti?
Io credo che buona parte dei problemi che ha la critica sociale e lo sguardo esclusivamente sociologico a problemi come la violenza di genere o la xenofobia, sta nel porsi questa domanda in termini di collettivo e non di singolarità. Il che depotenzia ab ovo l’argomentazione perché le singolarità sono lampantemente diverse l’una dall’altra, e come si diceva sopra, utilizzano l’oggetto simbolico in modi diversi afferenti alla microcultura di appartenenza come nel dettaglio alla propria struttura psicologica.
Pensiamo a questa cosa che ha angosciato tanti: Cosimo Pagnani che ammazza la moglie e ne scrive fiero e probabilmente allucinato su Facebook – e trecento persone o più esprimono il loro apprezzamento a “sei morta troia” aumentando le richieste di amicizia e commentando con vivo entusiasmo.   Possiamo decidere che sono tutti qualcosa – per esempio maschilisti – ma poi dobbiamo discernere i diversi possibili usi psichici di sei morta troia – che afferiranno a diverse soggettività e a diverse microculture possibili.
Ci saranno i misogini. Come ho cercato di spiegare già concepisco la misoginia come un assetto psicopatologico sovrapponibile a una diagnosi classica qualche volta nei campi della nevrosi grave – più spesso in quelli del disturbo di personalità. La misoginia grave concepisce il femminile come un oggetto simbolico in cui far precipitare tutta una serie di segni negativi e dolorosi, che riguardano l’intollerabilità della dipendenza emotiva, il senso di impotenza davanti al potere della riproduzione, l’anarchia del piacere che non si è in grado di provare. In questo senso, un misogino uxoricida che semantizza la sua simbologia propone il suo tassello alla collettività per creare una microcultura a cui qualcun altro con il suo stesso assetto psicologico risponderà con un altro pensiero analogo. Non possiamo dire quindi che l’uxoricida crea altri uxoricidi – ma certamente dobbiamo riflettere sul rinforzo della reciprocità pensando a luoghi dove il femminicidio è una prassi molto ma molto più praticata che da noi – come il sud america dove altre condizioni esterne di cui si è accennato (ma non solo) fanno aumentare la percentuale prevedibile di diagnosi di un certo tipo.
Ci saranno le donne che hanno una psicopatologia dell’identità di genere, e un problema doloroso con il femminile interno che attaccano con diabolico e socializzato masochismo condividendo l’oggetto simbolico proposto dall’uxoricida. Compiacere il maschio misogino è un disperato tentativo di sopravvivenza e una efficace strategia per evitare di farsi fuori, o di entrare in cortocircuito nel percepirsi così votate al suicidio. Sono donne da cui non si può sperare niente di buono per se e per le altre, o per gli altri, perché l’adesione al simbolo sadico è una reale garanzia di sopravvivenza che soltanto un contesto di cura potrebbe eliminare.
Ci saranno quelli che useranno l’omicida come un soggetto postmoderno ed estetico, che rappresenta il maschilismo interno, non la misoginia, essi – e credo che non siano pochi – scinderanno la realtà della morte la realtà dell’omicidio dalla frase, la annulleranno e la metteranno tra parentesi in modo da poter leggere nella frase “sei morta troia” la concretizzazione di quell’insulto che rispetti una distribuzione di poteri che si vuol e vedere nella realtà, l’uso simbolico in questo caso è leggermente diverso, perché la troia è una donna da punire in quanto libera, non da ammazzare in quanto donna. La differenza è di capitale importanza.

Credo poi che ci siano persino certi, che abbiano assolutamente desoggettificato anche l’omicida, che l’abbiano trasformato in un giocattolo che lo abbiano come dire videogamesizzato. E credo che questo riguardi una discreta percentuale di quelli che gli hanno chiesto l’amicizia. In questo caso l’oggetto simbolico da manipolare psicologicamente non è il femminile morto, ma il maschile vivo. E il problema potrebbe essere con quel maschile vivo che su internet viene improvvisamente proposto come animale da circo, come foca che salta nel cerchio. Vediamo che cosa fa? Vediamo come si comporta? Se si pente, se si suicida, se va al gabbio se mostra i muscoli se sputa al giudice. In alcune delle reazioni a questa funesta vicenda io ho psicologicamente visto anche questo uso simbolico del misogino cioè : l’oggetto da denigrare con violenza per un problema con il proprio maschile.

Mi fermo qui. Ma spero molto nel dibattito.

6 pensieri su “Psichico 8/ Simbolo, microcultura, morte, idea della morte.

  1. E’ molto utile la tua analisi per distinguere e comprendere i processi in corso nel vivo della società in cui viviamo. C’è un modo attraverso il quale sia possibile far passare tali analisi in un contesto più ampio? Fuor di metafora, il Secolo XIX te lo passerebbe questo pezzo così come è? Perché, la mia personalissima sensazione, è che senza una buona comunicazione si finisca per tornare sui luoghi comuni, ammesso ce ne siamo mai allontanati troppo. Si può riflettere insieme sulle differenze tra misoginia, maschilismo, conflitto di genere non armato? Poi vorrei sapere perché quando tu o altri proponete analisi strutturate su fenomeni emergenti (o da poco emersi) si scatena una sorta di rabbia verso il professionista, identificato come qualcuno desideroso di “assolvere” il colpevole di turno, di fornirgli un alibi morale perché non sconti la sua “giusta pena”. Perché ecco – da certi commenti, anche di donne e uomini impegnati nelle problematiche di genere, ciò che scatta a fronte di casi analoghi è che si appiccichi una bella etichetta con su scritto “Male assoluto – vietato guardare oltre”

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  2. Tu conti sul dibattito? Io sono completamente frastornata. Hai scritto un post bellissimo e interessante e mi piace molto anche il tuo nuovo stile più ponderato, che lascia meno spazi all’ interpretazione dei lettori abituali abituati alle tue scorciatoie/corti circuiti linguistici, bellissimi e che colpiscono il segno con precisione, ma che potrebbero far sentire chi non è sul quel tono escluso dalla discussione. Mi piace che tu abbia ampliato il registro proprio in un argomento così fraintendibile e complesso e che l’ hai sviscerato in un modo che si capiscono benissimo le varie fasi, le similitudini e le differenze. grazie, io cos`^ancora non ne avevo letto e meno male che ci sei tu. Ma so di non stare contribuendo alla discussione con questo, però apprezzo molto.

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  3. E se invece le forze che scatenano questi gesti fossero innate, solo mitigate dall’ambiente e dalla cultura, e si liberassero quando una concatenazione di eventi lo permettesse? (faccio riferimento per analogia all’ esperimento Stanford Prison del 1971, o al film di Pasolini Salò)

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  4. Anch’io credo in una continuità tra psichico e culturale, e ammetto che sulla relazione inversa e meno battuta mi ero soffermato molto poco. Potresti dire qualche altra parola sul “rinforzo della reciprocità”?
    Penso a quante persone hanno “condiviso” quello status; credo sia qualcosa di più del “mi piace”, lo leggo come un certificato di origine al quale poi chi condivide aggiunge del suo. Anche se si tratta di una frase banale e comune, invece di ripeterla viene condivisa. Fa parte del “giocare con l’omicida desoggettificato” cui accenni alla fine?

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  5. E’ la prima volta che leggo qualcosa di articolato, e per me comprensibile, sulla complessità dei fatti in questione. Che non hanno nulla di nuovo, basterebbe ricercare nella letteratura specifica gli scritti dei fans in vari casi di delitti, gli innamoramenti deliranti con relativi matrimoni. Ora però possiamo osservare in tempo reale il formarsi del coagulo intorno all’evento, e quasi risalire al profilo psicologico dei singoli ammiratori. Il che mi porta ad apprezzare tantissimo la nota di discrimine che fai fra l’uxoricida e i suoi simpatizzanti. Ecco, troverei importante se approfondissi l’argomento ‘sottofamiglie’ fra i simpatizzanti, non necessariamente aspiranti uxoricidi.
    Ma anche le ‘sottofamiglie’ dei cittadini normali tra i quali la prima reazione può anche virare onestamente a: ‘gli farei fare la fine della moglie’ senza per questo diventare direttamente omicidi. Magari detto a commento del telegiornale della sera, serenamente a cena, davanti ai pargoli di casa.

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