Ne’ La possibilità di un’isola , l’isola in questione è l’amore. Non è il mio romanzo preferito di Houellebecq, ma ha dei passaggi molto belli, dolorosi e struggenti – i migliori dei quali, che io ricordi – riguardano il tema di questo post: Daniel, il protagonista ha un cane, che gli è molto affezionato e a cui vuole molto bene.
Fino ad ora Houellebecq è l’unico scrittore che mi abbia restituita l’anatomia della relazione con gli animali domestici, in tutta la sua interezza e quindi con tutti quegli aspetti dolorosi, che fanno persino attrito con la parola “domestico” e con quel che di quotidiano legato agli animali in casa, quel che di tragico.
L’iconografia del rapporto con gli animali vanta, solitamente, una vistosa polarità. L’animale o è l’antagonista variamente misterioso o persino pericoloso, oppure diventa il depositario di certe parti psichiche che hanno a che fare coll’attivazione del materno e della genitorialità: sono dunque o estranei, affascinanti e inquietanti – se ritratti nel loro ambiente naturale, ma spesso persino nei campi o nelle stalle – oppure, quando sono domestici, e con questo si intende animali come cani e gatti che dormono magari dentro casa e hanno le ciotole del cibo in cucina, sono teneri, innocui, buffi, simpatici, e più di tutto carini. Dalle cartoline dei primi del novecento alla compulsione su Facebook di un secolo dopo, resistono le immagini di gattini, e anche cagnolini, ritratti in pose belline, con faccette carine che estremizzino la loro goffaggine, e innocenza e le estetizzano.
La tenerezza è il sentimento di ordinanza. Un sentimento altamente commestibile, che non conosce momenti di schiavitù, né ribaltamenti di grande portata. La tenerezza è il sentimento che rinfranca narcisisticamente il forte rispetto al debole, il grande rispetto al piccolo – laddove l’asimmetria è talmente grande che se il piccolo dovesse venir meno il grande gli sopravviverebbe senza fatica. La tenerezza è un sentimento comodo per la sua accessorietà.
Si può spegnere come una sigaretta.
Invece nel libro di Houellebecq quando Fox, il cane del protagonista, muore, Daniel ne è devastato. Tutti i racconti di quella relazione sono intessuti degli ingredienti potenti e tragici della relazione con l’animale: un amore reciproco e incondizionato, completamente asciugato da qualsiasi considerazione estetica, l’acuta consapevolezza della differenza di risorse razionali e fisiche, la dolorosa percezione da parte dell’umano di una fiducia totale nei suoi confronti – il fatto che nella grande maggioranza dei casi, l’uomo sopravvive al suo animale. Nel racconto di Houellebecq, non c’è la carineria, c’è anzi un cane sciocco e non esageratamente bello – e si descrive questa cosa che presiede al rapporto dell’uomo con un animale simbiotico – termine usato qui in senso etologico – di un mutuo soccorso emotivo che non ha orpelli, appoggi, spiegazioni – e che nell’umano è pervaso dalla raggelante consapevolezza del proprio potere: il tuo gatto che ti mette il collo sul palmo della mano, il cane che si mette con la pancia in aria. Animali alla mercé della tua forza e delle tue decisioni- che si fidano di te, e della tua coerenza.
Ogni padrone di bestia conosce il terribile pensiero di quella che lo festeggia e di lui che si ricorda la sua posizione nell’ordine delle cose. Il poter abusare, il poter uccidere.
Allora, quello che rende stucchevole la mistica dell’animale domestico, è proprio questa scotomizzazione leziosa dell’asimmetria di forze e di potere, la quale ha tutta una sua dimensione etica e problematica, invece per me raramente sostituibile in quanto a efficacia. Si preferisce un ritratto lezioso perché aumenta una sorta di irresponsabilità del potere, un potere inalienabile – e mi pare quasi che ci sia una relazione tra una società che pubblica compulsivamente immagini di animali in pose accattivanti, l’abitudine ancora terribilmente diffusa di prendere un cane e mollarlo sull’autostrada e forse – mi rendo conto di essere provocatoria – nella leggerezza con cui si parla di sperimentazione sugli animali a proposito per esempio di farmaci. In comune c’è la mancata assunzione di responsabilità nella scomoda e inalienabile asimmetria.
Proprio la cognizione di causa di questa asimmetria mi fa d’altra parte pensare che avere un animale domestico in casa, e soprattutto fare in modo che i bambini crescano con un animale in casa, sia un’occasione pedagogica difficilmente sostituibile, un apprendistato morale che non ha pari. Tra il bambino e l’animale l’asimmetria è ridotta, ma crescente. L’animale è l’altro che si impara a trovare come prevedibile ma che si deve rispettare, è la prova generale di onestà e di contenimento: il bambino può desiderare di fargli degli scherzi, di fargli del male, o semplicemente di estenuarlo con giochi che lo stancano – e l’adulto ha l’occasione di spiegare delle cose con una relazione emotiva e in aggiunta quella stessa relazione emotiva come esemplare di tutte le altre. La purezza, detto in termini antropomorfi – dell’affetto dell’animale o al limite del suo disinteresse, oppure la sua franca inferiorità intellettiva mettono i piccoli come davanti a uno specchio, restituendo loro la titolarità delle loro azioni. Non potranno dire mai davvero “lui ha cominciato prima”. L’inutilità della cattiveria con gli animali è lampante.
Questo non vuol dire che quell’asimmetria sia sempre nella mente, e sempre costante – e l’altro aspetto difficile da riprodurre narrativamente o da raccontare, è l’esperienza di insieme e di compagnia di essere con, quando si ha per esempio un cane vicino che cammina accanto senza guinzaglio, o il gatto che sta seduto con te alla scrivania l’intero pomeriggio. Quella cosa è una sorta di apriori dell’insieme, una sorta di scheletro logico dei rapporti – proprio perché prescinde dalle caratteristiche caratteriali, di personalità o di classe o di bellezza fisica. E’ una cosa arcaica, che comincia con il mondo, con il fuoco e gli uccelli sulle schiene dei buoi, e che sopravvive ai costumi e ai tempi. E’ il momento magico in cui si riduce l’asimmetria tra specie, in cui si sospende il dominio dell’umano.
Tutto questo a dispetto dell’atroce retorica che sulle bestie si mettono in giro, intrecciate di un curiosa idealizzazione e sacralizzazione che li vorrebbe imprecisamente migliori di noi, e più interessanti e capaci di fare delle cose incredibili, oppure inspiegabilmente peggiori di noi, facendo gravare sulle bestie un giudizio risibile – le varie accuse di egoismo nei gatti oppure di scemenza nei cani per esempio. Queste seconde narrative piacciono molto a quelli che privilegiano una retorica astiosa rispetto all’avere animali, la quale a seguire, si condisce con generalizzazioni su chi li tiene in casa. Secondo questa retorica le persone hanno animali perché non sono in grado di avere relazioni con gli umani, tengono gattini quando potrebbero fare bambini, scelgono il gioco facile della relazione con la bestia perché con gli umani sono pigri o inadeguati.
Sono retoriche funzionali a complessi di superiorità, che scambiano l’effetto per la causa o che forse scelgono una causa sbagliata per un effetto che conoscono poco. E’ vero che gli animali domestici spesso fanno compagnia a delle persone sole, in genere a persone che lo sarebbero comunque e la cui difficoltà sul piano relazionale non si risolverebbe con l’eliminazione del cane, del gatto o del canarino.
Ma, dal mio punto di vista è vero soprattutto il contrario – ossia che la presenza di un animale nella casa di qualcuno è la dimostrazione di una sua capacità di stare con, di cogliere quella relazione e starci dentro, di vivere quella condizione paradossale ed emotiva del rapporto con l’animale. E a me quella cosa avvicina, riduce lontananze siderali in una vicinanza provvisoria. Mi avvicina cioè non il cane, ma l’uomo per esempio lontano da me per scelte politiche e retoriche, l’uomo coperto per esempio di borchie e tatuaggi, con la macchina grossa di cui non fa che parlare, quell’uomo ecco che vedo chiacchierare con il suo doberman e dirgli, va bene ti do sto pezzo di pane e poi basta però eh.
Hai scritto una cosa veramente molto bella. Bellissima e romanissima l’immagine di chiusura 🙂
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questo pezzo è magistrale, costanza.
grazie.
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Il mio canone di 35 chili, per niente carino e coccoloso bensì un animale pieno di seria e posata dignità, è morto tre anni e dieci giorni orsono, dopo 14 anni di convivenza fatta di grandissima fiducia reciproca e di quest’idea che ci prendevamo cura l’uno dell’altro – e a scriverlo ora mi rendo conto che 14 anni è più di un terzo della mia vita. All’avvicinarsi dell’anniversario sono subentrati i sogni (tengo da qualche parte un calendario nell’inconscio, seppure sia pessima con le ricorrenze vere e in otto anni con l’Uomo mi sia ricordata di un solo anniversario). Finché c’era lo sognavo in maniera egoistica: sognavo le parti selvagge di me, la rabbia, e le vestivo da lui. Ora penso che sogno proprio lui, come un parente che non c’è più. Leggo questo post e verso ancora una lacrima in suo ricordo.
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