psicopatologia della violenza di genere. Alcune note

Spesso quando si parla di femminicidio, molte persone polemizzano sul termine perché disconoscono la specificità del fenomeno. E’ una forma di violenza, è una forma di omicidio – dicono – perché farne uno status separato? E’ un tipo di obiezione che proviene da persone in buona fede, magari lontane dai contesti operativi, ma anche da maschilisti che invece traducono il riconoscimento della specificità del femminicidio, in una promozione della centralità delle donne che li disturba, e infine è una parola avversata anche da diverse donne, che vedono nell’uso del termine, una sorta di regressione sessista, perché vivono una vita probabilmente, che permette loro di credere che il problema non sussista per le donne e le ragazze.
Il termine invece a me era antipatico, perché alludeva alla femmina della bestia, e non alla donna degli esseri umani, nella sua crudezza mi pareva discriminatorio. Ma me lo tengo oramai, di meglio non si è trovato, e ritengo che la specificità sia assolutamente rilevante, per tutti gli operatori che lavorano con questo fenomeno, ritengo che la violenza di genere abbia cioè connotazioni sue proprie che è importante tenere a mente, per prevenirla, o per arginarla.

Nel mio modo di intendere il fenomeno, la violenza di genere risponde a una patologia di un individuo o di una coppia, che si iscrive in un contesto sociale il quale potrebbe in varia misura, rinforzare quella patologia piuttosto che ostacolarla. Se per prima cosa vogliamo considerare questa relazione tra comportamento violento verso la donna, e contesto, dobbiamo considerare per prima cosa il fatto che molto raramente, quanto il comportamento violento, quanto l’omicidio della donna sono gesti isolati, ma sono invece iscritti in una successione di episodi che procede per ordine di grandezza: nei centri antiviolenza si usa parlare di spirale della violenza.
La spirale della violenza, è quella cosa per cui nel contesto di una coppia i primi gesti aggressivi dell’uomo sono le limitazioni alla libertà della partner, gli insulti verbali e i comportamenti svalutanti e degradanti, per poi arrivare ad alzare la posta dell’aggressività a ogni gesto vitale di lei, prima picchiando e poi ferendo per esempio con armi da taglio. Di poi se lei se ne va di casa, o tenta la denuncia, o insomma cerca una qualsiasi forma di riscatto, la spirale della violenza può esitare in femminicidio – questa progressione dei comportamenti ha sorprendenti somiglianze nei più diversi contesti culturali. In ogni caso, da qui deriva una prima buona regola, per cui quando si ha a che fare con donne in simili situazione critiche, è meglio impedire loro di fare denuncia, o di opporsi prima che abbiano trovato un porto sicuro, protetto e ignoto al partner. Perché la denuncia è spesso percepita dall’uomo abusante, come una sfida maschile al suo potere, una cosa di maschio contro maschio, e allo stesso tempo una sfida imperdonabile della partner, che ha tradito riconoscendo un altro potere fallico, e che allo stesso tempo proprio per questo mostra di sfuggirgli inesorabilmente – lui che non tollera  emotivamente e psicologicamente le separazioni.

Ma se consideriamo questa cosa della spirale della violenza, dobbiamo valutare con attenzione il potere del contesto.
Esempio. Una donna riferisce provocatoriamente al compagno, il fatto che ha un amante, e il compagno la colpisce in faccia, insultandola. La relazione è ampiamente disfunzionale e ci sono due patologie in regime di concorrenza e di collusione. Entrambi i partner hanno un problema uno con il femminile e una con il maschile interno, entrambi devono avere una coppia interna di genitori che deve aver lasciato una cattiva eredità, e magari sono di quelli che dopo un conflitto molto aspro, finiranno a letto insieme. In questo caso, moderatamente frequente, c’è un partner che è eccitato sessualmente da un comportamento sadico – vediamo che faccia fai a sapere che ho un amante, vediamo se soffri e se ti senti una merda facendomi sentire potente, e un partner che è eccitato dalla propria esperienza di umiliazione, e dalla performante reazione violenta che ristabilisce la gerarchia emotiva un minuto prima abbattuta, con il potere della forza fisica. Nella maggior parte dei casi le patologie sadiche non sono così ben distribuite, ma ho scelto il caso in cui la donna è meno vittima possibile per far capire per bene la forza del potere contestuale.

Il giorno dopo l’uomo vedrà degli amici, ed essi faranno le loro valutazioni. In contesti maggiormente sessisti e genericamente arretrati, in cui un certo tipo di maschilismo arcaico non conosce argini anche secondari – una certa osservanza borghese delle convenzioni per esempio – gli amici dell’uomo potrebbero complimentarsi con lui. Siccome l’uomo vive una patologia molto grave, e una relazione sessuale penosa, per cui si riesce a far sesso solo dopo la parata della coercizione, e dunque la sua percezione profonda di virilità è gravemente incrinata, l’incoraggiamento degli amici offrirà un appiglio importantissimo vitale: un copione da non tradire in nessun modo. La violenza di genere sarà insomma per dirla junghianamente, la sua persona trasformata in armatura, il suo falso se efficace e socialmente plaudito che nasconde il maschile interno incrinato. Inoltre, i suoi sostenitori per motivi sociali, ma anche psichici loro propri, potrebbero decidere di sostenerlo materialmente nella sua lotta alla sua donna – servendosi del potere di loro come uomini: impedendole di uscire, per esempio, minacciandola se la vedono fuori casa – cose nei centri antiviolenza all’ordine del giorno.
Se invece l’uomo appartenesse a una contestualità diversa, che dovesse reagire con per esempio preoccupazione e imbarazzo, o anche con una svalutazione anche di marca conservatrice – le donne non si toccano neanche con un fiore! Se la picchi fai qualcosa di vigliacco, di facile, di indecoroso, di insomma poco maschile- l’uomo sarebbe maggiormente indotto a prendere contatto con la connotazione patologica della sua scelta. Non è detto che ci riuscirebbe, e probabilmente il suo assetto psichico si troverebbe di fronte a un difficile bivio – mi guardo o diventano tutti miei nemici, e insomma la sintomatologia non sarebbe rinforzata, ma la sua percezione acutizzata.

Se vogliamo invece valutare la questione in termini più strettamente psicopatologici, e mettere la lente di ingrandimento nel mondo endopsichico della persona propensa alla violenza di genere, nella mia esperienza almeno, io constato che all’aggressività verso la partner sul piano di realtà, all’aggressività verso il femminile incarnato concretamente, corrisponde spesso e volentieri, una totale subalternità nel mondo interno, un modo di vivere il femminile come immensamente potente, dominante, invincibile castrante – una costellazione emotiva e psichica a cui la persona reagisce agendo il senso di sudditanza con il riscatto vano sul piano di realtà. Tanto più forte è il senso di dipendenza interno, di inferiorità di potere, tanto più virulenta sarà la misoginia – che bisogna far attenzione è costitutivamente separata e diversa dal maschilismo (il maschilismo è un problema politico – e si può decidere di osteggiarlo ma anche di rispettarlo come scelta pacifica di vita rispetto a quella che facciamo noi come persone e come coppie: esistono casalinghe felici, e coppie di professionisti infelici. La misoginia è una grave patologia invece che non dovrebbe avere soluzioni nel contesto giuridico, che non merita alcuna forma di relativismo, che abita comunque il regno della diagnosi).

Per far capire questa cosa posso portare due esempi. Il primo è il bellissimo film di Polansky – un uomo che per la violenza di genere ha passato guai di ordine penale. Il secondo è l’immagine nella sabbia che mi portò un mio vecchio paziente, che aveva un problema importante di violenza di genere. Il film di Polansky, è venere in pelliccia, è rappresenta la graduale manifestazione di un femminile sadico e onirico, che diviene gradatamente più eroticamente seduttivo, manipolatore, provocatore e sadico nell’arco di tutto il film, e depositando all’interno dello stesso spettatore che vede il film, un senso di rabbia, repressione, umiliazione, e disagio.

Il secondo caso, è l’immagine di questo mio paziente. Che vedeva al centro della scena un immenso coccodrillo, delle dimensioni di una nave, di una portaerei, e tutto intorno una serie di piccolissimi uomini armati, della dimensione di tanti piccoli nani. Il coccodrillo era decodificato da lui stesso come la sua idea di femminile, un istintualità immensamente potente, pericolosissima, capace di fagocitare, e i piccolissimi uomini armati, i cui proiettili sarebbero senz’altro rimbalzati sulla coriacea corazza della donna coccodrillo, la rappresentazione dei suoi vani, infiniti, continui molteplici attacchi.
Immagini del genere, a un clinico – ne potrei citare molte altre – fornirebbero anche una buona direzione di rotta, sulle parti psichiche su cui lavorare – si può provare a entrare in contatto con il sé profondo della persona che si ha in stanza, fosse uno dei piccoli armati della seconda immagine, fosse il disgraziato regista del film di Polansky, e ci si può lavorare.

Il che necessariamente non significa, come ritiene spesso un’idea popolare di psicologia, giustificare sul piano etico o politico un certo comportamento. Sia perché la funzione della cura psichica con combacia esattamente con il gesto politico e la sanzione collettiva, la funzione clinica è una funzione relativamente cioè indipendente, sia perché non di rado, la reazione interna che provoca la narrazione di un comportamento violento, può essere un oggetto clinico molto importante, sia che lo si utilizzi senza esplicitarlo, che nei rari casi in cui si voglia fare una self disclousure e si decida di mettere il paziente di fronte alle operazioni psichiche e relazionali che mette in atto. Esempio. Mi sta dicendo – a me terapeuta – che ha picchiato ancora una volta sua moglie. Mi vuole scandalizzare? Sta facendo in modo che sia io a giudicarla, in modo da avere almeno qualcuno nella stanza che sia in grado di fare da super – io visto che lei da solo non riesce?

Tuttavia, credo che nelle psicoterapie individuali e ahimè anche di coppia questo raramente riesce bene, perché questo tipo di pazienti, mettono in atto difese molto forti di fronte alla possibilità di toccare certi contenuti, e non volontariamente. Somigliano moltissimo a certi psicotici che non sono in grado di simbolizzare gli oggetti metaforici. Non dico sempre, qualche terapia può avvenire con successo – uno per esempio che avesse le doti mitopoietiche di un Polansky per esempio potrebbe servirsi con successo di una buona psicoterapia – ma spessissimo, il tentativo è vano. Specie se la terapia arriva prima di una sanzione collettiva e di ordine superegoico, ossia una condanna sul piano penale.

Si hanno notizie invece interessanti e confortanti, dai colleghi che fanno terapie di gruppo specie in carcere. La terapia di gruppo – specie se condotta da un terapeuta uomo – posteriore a una sanzione, fa decodificare credo il suggerimento di contatto con il mondo psichico come possibile introiezione di un maschile sano e potente, un oggetto dominante che si desidera far proprio. Lo stato che punisce è un sorta di maschio alfa che si vuol far proprio, e forse anche l’idea di un maschio sano che conduca una terapia di gruppo, ha qualcosa di funzionale. Anche il rispecchiamento tra uomini che vivono la medesima condizione potrà portare a risultati più soffisfacenti.
E’ qualcosa su cui bisogna riflettere. Chiudo qui, penso che ci siano ancora molte cose da dire. Ma il post è già piuttosto intenso.

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